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18 mar 2020

#stareacasa

di Luciano Caveri

"#stareacasa": questo l'hashtag più famoso in questi giorni. Dovrebbe essere il simbolo di un riscatto di orgoglio a difesa della vita propria vita e di quelle altrui. Sto prendendo molto sul serio questa necessità e penso che tutti dovrebbero farlo, perché è un dovere civico e esprimo tutto il mio disprezzo nei confronti di chi non si adegua per lassismo, strafottenza o stupidità, e sono ancora troppi a prendere la situazione sottogamba. Certo continuo ad avere delle incombenze lavorative e salgo e scendo da Saint-Christophe, dove c'è la sede "Rai" ormai blindata e con tende allestite fuori dalla regia televisiva, dove opera personale che non ha contatti con gli altri all'interno. Ciò consentirebbe di trasmettere comunque in emergenza se il virus colpisse persone dentro la sede e ci fosse una paralisi da quarantena.

Nessuno può entrare se non è dipendente o contrattualizzato ed il palinsesto televisivo regionale avanza grazie alla programmazione già fatta con trasmissioni pronte per la messa in onda, mentre la radio risente del "coronavirus", occupandosi maggiormente dell'attualità. Io stesso curo una trasmissione a cadenza settimanale, giunta alla quarta puntata dopodomani, e mi fa impressione dover disinfettare ogni volta il microfono in studio e avere ospiti solo telefonici per l'impedimento nell'accesso per evitare un contagio che rischierebbe di bloccare il servizio pubblico in Valle. Questa mia trasmissione, come del resto i miei post quotidiani, testimoniano un'escalation della malattia che impressiona e tutto dimostra come non si fermerà presto ed il virus comincia a colpire conoscenti e questo impressiona perché si dà un volto ai malati. Parlare di queste cose in un'oretta di trasmissione, conducendola da solo, è un esercizio emotivamente non semplice, dovendo bilanciare obblighi informativi che si colorano di molti sentimenti e timori legittimi. Trovo rassicurante ricostruire un quadro veritiero dei fatti senza indugiare in eccessi retorici e in un voyeurismo che svilisce il lavoro di chi deve comunicare il dramma in corso, senza mai venir meno alla fiducia e alla speranza. Non si tratta mai di edulcorare la realtà ma neanche di cedere ai toni della drammatizzazione, che è già negli eventi e non c'è bisogno di strafare. Lo "smart working" (anglicismo abbastanza ipocrita che indica il lavoro denotato via Web da casa), che io stesso comincerò in parte la settimana prossima, sfoltisce i ranghi dei presenti in "Rai", dove si gira con guanti e mascherine quando per esigenze di lavoro si deve stare vicini e ciò crea un'atmosfera irreale rispetto alla routine. Ma - apro una parentesi - le regole vanno rispettate e sono fissate a colpi di norme che in taluni casi investono le nostre libertà, ma certe coercizioni hanno un loro perché se fatte per nobili ragioni. Hanno tuttavia colto nel segno quei giuristi attenti al fatto che certe misure significative non si sarebbero dovute assumere con il "DPCM" (decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) ma con il decreto legge, visto che nessuno poteva discutere sulla necessità e l'urgenza, che deve passare all'approvazione del Parlamento. Altrimenti si usa uno strumento oggi a fin di bene che però potenzialmente in futuro potrebbe consentire di finire fuori da regole costituzionali e certi precedenti vanno evitati. Torno alla convivenza in casa e ai suoi pregi e ai suoi difetti. Credo che per tutti sia così: bisogna gestire tempi e situazioni e soprattutto abituarsi - e per noi animali sociali è difficile - all'assenza di contatti con persone care. Certo esistono molti strumenti per dialogare via chat o con videochiamate plurime ma non è la stessa cosa. La televisione con le diverse piattaforme a disposizione, le buone letture o cartacee o con gli eBook, i giochi di società in famiglia, i compiti da fare far al piccolo di casa, il sole preso sul balcone o nel giardino. Questa è la reclusione dorata, fatta però anche - per non essere ipocrita - da un inusuale, perché portato all'eccesso, ascolto del proprio corpo alla ricerca di una differenza che possa apparire un sintomo. Così quando si esce a fare la spesa ogni incontro, anche se fugace perché non ci si avvicina, diventa un punto di osservazione della salute altrui, sapendo che lui - il maledetto virus che cambia e minaccia le nostre vite - può nascondersi agevolmente e con l'astuzia di chi vuole parassitarci per riprodursi nei corpi della nostra specie. Ma passerà, cambiando molte cose, come ricorda la bella canzone "Todo cambia" scritta dal cileno Julio Numhauser ma nota nell'interpretazione dell'argentina Mercedes Sosa, che ho riascoltato apposta poco fa. Se non avremo brutte sorprese, cambieremo anche noi, caro lettore.