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26 mar 2020

Una vita al rallentatore

di Luciano Caveri

Credo che ognuno di noi si senta smarrito ed alla ricerca di nuovi equilibri di fronte a questa terribile discontinuità che colpisce le nostre vite ed avviene in una dimensione vasta e collettiva, che ricorda davvero un tempo di guerra contro un nemico impalpabile, che rischia persino di dividerci. Quando nei brevi tragitti a piedi per qualche incombenza come la spesa incontri qualcuno sul tuo cammino lo scruti e lo osservi con apprensione, chiedendoti se o no possa essere pericoloso. Ma nel saluto rapido, nel vuoto di una strada, cogli però elementi di una dolente complicità di fronte a questa "livella" che ci rende tutti uguali e fragili. Tutto è rallentato. E' una sensazione strana, che mi è capitata nella vita qualche volta in occasione di incidenti. Ricordo una caduta in moto da ragazzo, sbalzato da un buco dalla mia "Vespa", l'avvicinarsi del guardrail e l'impotenza di fronte a me mentre tutto sembrava come scandito da un tempo diverso.

Ancora di recente in bicicletta per un malfunzionamento dei freni in una discesa irta mi sono ritrovato mille pensieri mentre a velocità eccessiva arrivavo all'incrocio con un'altra strada con un'evidente consapevolezza della posta in gioco nelle mani del caso e di possibilità diverse affiorate in pensieri da un decimo di secondo. Questo senso di ralenti, come si diceva una volta, o di slow-motion, come si dice oggi, è lo stesso che vivo in questi giorni. Da una parte lo avverto negli ambienti domestici nel lavorare in remoto con questo "smart working" che dovrebbe essere un telelavoro più intelligente (sic!), che ti pone in modo ben diverso rispetto alla consueta routine. Dall'altra, quando devo vivere gli ambienti di lavoro consueti in "Rai" almeno in queste settimane per soli due giorni, tutto mi sembra diverso: pochi colleghi in giro con mascherina e guanti, con una cuffia microfonica in testa che devo disinfettare ogni volta, con avvisi sui comportamenti da tenere affissi in modo ossessivo di fronte ai bagni ed alla macchina del caffè, con regole incalzanti e ripetute della task force aziendale che ammonisce ed indica. Mi accorgo nella diretta di un'ora del martedì sul "coronavirus" come, andando a braccio nei miei interventi o nelle dirette rigorosamente al telefono per evitare contagi di persona, vi è un'accuratezza che in qualche modo rallenta l'eloquio, perché bisogna scegliere bene tono e contenuti, come doveroso di fronte ad una emergenza che cambia ogni cifra dell'usuale normalità e nell'interlocuzione con il pubblico è doveroso pesare le parole ed ottenere risposte che chiariscano e non confondano. Se penso ai sentimenti di queste ore complesse, vissute appunto con questo senso di un tempo e di spazi fattisi irreali nell'incombenza dell'epidemia, nei rischi del contagio e nel terno al lotto delle conseguenze dell'eventuale malattia, appare nella memoria degli studi classici quel termine pietas, che non ha che fare con la "pietà" come noi la intendiamo oggi. Questa pietas racchiudeva l'amore e l'affetto per le persone care, ma anche per la patria e gli amici, e infine era il segno di personale clemenza, di considerazione verso la giustizia e anche e soprattutto di senso del dovere. Con Virgilio, nell'"Eneide", la pietas accompagna l'humanitas e la misericordia e si trasforma da rispetto per i consanguinei a pietà per la sofferenza altrui. Sarà forse questo questo senso così riassunto che avverto dentro di me e che dal personale si espande in un senso più vasto e comunitario in un misto fra angoscia e speranza. Quel che c'è vedo in particolare è la necessità di affrontare la prova, evitando l'errore di non guardare già a che cosa ci può aspettare oltre al gigantesco ostacolo che oggi ci sbarra la strada.