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28 mar 2020

Coronavirus e tanti pensieri

di Luciano Caveri

Oggi è un po' più fresco, ma la primavera è arrivata come da calendario con le piante in fiore, gli uccelli che cantano la mattina, certi profumi che indicano il capolinea dell'inverno. Da noi sulle Alpi le cime sono ancora innevate e vedi le persone che rimettono a posto i campi e le vigne nel fondovalle e le bovine ritornano a pascolare nei prati. La normalità del cambio di stagione si infrange - e la Natura appare come non mai in contraddizione con sé stessa - contro la realtà di due bollettini ufficiali, uno all'ora di pranzo, uno prima di cena, che piombano in fretta nelle case dove siamo chiusi e confermano quanto all'inizio si stentava a credere: l'epidemia non demorde, anzi cresce e spaventa per buone ragioni.

In più, attraverso i diversi canali di comunicazione del Web, si svelano in fretta, in una piccola comunità come la Valle d'Aosta, i nomi dei morti, degli infetti e di chi è stato messo in quarantena, celati dalle autorità per via delle regole sulla privacy. Mi capita di telefonare a qualcuno colpito dal lutto senza neppure un funerale vero cui poter partecipare o di interloquire con qualcuno di quelli in isolamento nella condizione difficile nello scrutare quel segno nefasto della temperatura (37.5 C°) che è la stessa che mi consente di entrare o no in "Rai" nelle eccezioni all'ormai consueto è claustrofobico "smart working", che vuol dire stare attaccato al computer ed al telefono, rimpiangendo la socialità delle due chiacchiere alla macchinetta del caffè. Fonti ufficiali e ufficiose sul "coronavirus" - quella robina minuscola che si attacca al nostro corpo e nel peggiore dei casi ci ammazza - tracciano il quadro dell'espansione della malattia ed i rischi ancora crescenti in attesa del famoso "picco", che dovrebbe poi riportarci all'agognata normalità, anche se - su questo siamo tutti d'accordo - nulla sarà come prima, perché lo dicono le storie del dopo ogni epidemia epocale. Nel caso della Valle d'Aosta campeggiano la peste del Seicento, il colera dell'Ottocento e la "spagnola" del Novecento. Ma poi chi ha la mia età si ricorda gli anni Sessanta con le campagne antitubercolari che abbiamo ancora sulla pelle con una piccola cicatrice ed i viaggi in Svizzera per prendere il vaccino buono contro la poliomielite. Quei ricordi dell'apprensione familiare contro queste malattie sono il miglior antidoto contro i "noVax", di cui ancora in queste ore vedo filmati sul Web che dovrebbero ormai portarli nelle patrie galere, perché deve esistere un limite al settarismo, quando diventa pericoloso per la società e non esiste più l'invocazione furbesca alla libertà d'opinione, quando certe dichiarazioni astruse nuocciono alla salute altrui. Di certo non eravamo preparati a tutto questo e penso a certi tagli alla Sanità che sono avvenuti con discorsi dei tecnici, tipo l'inutilità dei posti letto ospedalieri, che oggi cozzano con la realtà. Oppure, anche in Valle, con legami fra politici e medici che hanno valorizzato specialità mediche a discapito di altre per puro clientelismo o per favorire qualche primario in interessi reciproci che si infrangono contro la tragicità dell'epidemia e dovranno fare riflettere sul futuro. Futuro che verrà e che porterà via certi brutti momenti assieme a tante persone che non ce la faranno e dimostrano l'ovvietà che oggi ci siamo e domani non ci siamo più. L'insegnamento principale è che bisogna essere pronti a eventi eccezionali per fronteggiarli e questa volta, con tutte le giustificazioni del caso, siamo stati colti impreparati e bisognerà fare un esame di coscienza. Questo varrà anche per gli elettori, che oggi hanno in molti casi scoperto che in certi posti apicali siedono persone non all'altezza e ne dovranno trarre un prezioso insegnamento: non sempre "uno vale uno", come ci volevano far credere certi demagoghi dell'antipolitica.