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25 apr 2021

Leoni, Dante e gli algoritmi

di Luciano Caveri

La storia dei "leoni da tastiera" è da sempre interessante. Ci sono coloro che sui "social" si dimostrano coraggiosissimi nell'insulto e nel dileggio. Vanno divisi in due categorie: la prima è quella di chi si firma nome e cognome, diventando "personaggio" ed è una situazione che quasi sempre non corrisponde ad una elevata caratura personale; la seconda è peggiore, essendo costituita da chi si nasconde dietro pseudonimi e dunque con profili non identificabili, l'esatto corrispettivo di una lettera anonima. Naturalmente chi abusa di certa libertà sul Web si erge come paladino della libertà di espressione e chi, come chi vi scrive, ritiene che ci siano limiti di decenza e non solo di codice penale rischia di essere ascritto fra i liberticidi. Ed invece non è così e vi risparmio la tiritera su «la mia libertà finisce dove comincia la vostra», come diceva il celebre attivista del movimento per i diritti civili Martin Luther King, che per le sue idee ci ha rimesso anche la pelle.

Se ci si riflette a fondo, esclusi elementi patologici che pure esistono in alcuni, resta la vasta e triste categoria dei frustrati. Rispetto tutto in chi è stato ed è in difficoltà, perché capisco come la vita possa portare delusioni, difficoltà, insoddisfazioni. Nel sito "unaparolaalgiorno" così si sintetizza: "La frustrazione è un sentimento di profonda umiliazione; si sente come inutile qualcosa che si è fatto, un proprio sforzo, ci si sente atterrati, feriti, in un'insoddisfazione disperata e silenziosa. Ed è forse questo il connotato più forte della frustrazione: il silenzio. Un desiderio, una vocazione frustrata non è strepitosa - non scoppia, ma ti consuma lentamente; la frustrazione di una vita in cui ti devi ricordare ogni giorno che la tua opinione non conta ti ovatta l'intelletto, ti insonorizza il cuore; e la liberazione dalla frustrazione passa sempre per un'asserzione, per una voce". Ma i "social" e il loro uso maldestro ha rotto il silenzio appena evocato, che diventa grido, invettiva, cattiveria e le sfumature vanno da peccati venali come le malignità allo stalkeraggio. Dante Alighieri nella "Divina Commedia" mette gli invidiosi come penitenti che scontano la loro pena nella II Cornice del Purgatorio: indossano un mantello di panno ruvido e pungente, siedono a terra appoggiati l'uno all'altro contro la parete del monte ed hanno gli occhi cuciti da filo di ferro che impedisce loro di vedere (mentre in vita essi guardarono il prossimo con occhio malevolo, dal latino "invideo"). Piangono e versano le lacrime attraverso l'orribile costura (cucitura), mentre recitano le litanie dei santi («Maria, prega per noi», invocando poi l'arcangelo Michele, san Pietro e tutti i santi). Oggi, forse, il Sommo poeta metterebbe alcuni di loro, così come si esprimono, sui "social" all'Inferno e non in Purgatorio. Era Victor Hugo che diceva: «certe persone sono cattive unicamente per bisogno di parlare. La loro conversazione, chiacchiera nei salotti e cicaleccio nelle anticamere, somiglia a quei camini che consumano presto la legna: occorre loro molto combustibile, il prossimo». Ma oggi la Rete deborda dai salotti e dai banconi dei bar. Si diffonde e sappiamo che esistono questi famosi algoritmi che restringono il campo dei nostri interlocutori, facendoci incontrare chi la pensa come noi e questo crea di fatto binari di pensieri unici e senza confronto alcuno. Questo alimenta i frustrati che ne incontrano altri, che a loro volta si espandono con altrettanti simili in un meccanismo davvero infernale.