Baciarsi…sull’altalena

“Internazionale” offre un ampio spettro dei giornali del mondo e, per fortuna rispetto alla terribile serietà dei temi che riguardano la nostra umanità, emergono come chicche gioiose degli articoli che interessano e un po’, per gli argomenti trattati. sorprendono se non divertono.
Per cominciare una dotta dissertazione di Javier Moscoso sull’altalena, che va ben al di là della nostra infanzia, quando questo ondeggiare mi piaceva moltissimo.
Così esordisce l’articolo: ”Prima di arrivare in tutti i parchi giochi urbani del novecento, l’altalena è stata per secoli uno strumento rituale di guarigione, castigo e trasformazione. Attraverso i suoi movimenti ripetitivi e frastornanti, è stata usata per celebrare divinità ed entità leggendarie, allontanare il maligno, placare impulsi suicidi, curare malattie mentali, affermare il proprio dominio sessuale e tormentare chi era accusato di pratiche occulte. La sua funzione più profonda, però, è sempre stata quella della trasformazione: sotto l’incantesimo del suo moto oscillatorio, l’altalena ci spinge a mettere in discussione il mondo che conosciamo, con le sue gerarchie e i suoi ritmi prestabiliti. Andare sull’altalena non vuol dire semplicemente giocare, ma aprire spazi di disorientamento con la trasgressione.
Cosa significa raccontare la storia di questo oggetto? L’altalena ci rivela come una cosa nata per disorientare sia stata strumentalizzata per tutto l’arco della cultura umana, apparendo in culture e territori diversi. Ma non è solo la storia di un oggetto. È anche quella di tante storie non raccontate, di corpi in movimento che cercano di svelare gesti dimenticati, trascurati o nascosti. La storia umana non è fatta soltanto di parole e oggetti. L’altalena ci permette di cominciare a raccontare la lunga vicenda culturale di un dondolio che attraversa il tempo e lo spazio.
Già a un primo sguardo, l’altalena spunta nei luoghi più inaspettati. Compare nelle feste dell’antica Grecia e nelle pitture rupestri realizzate nell’India occidentale durante il quinto secolo. È illustrata nelle pergamene cinesi della dinastia Song, che risalgono all’undicesimo e al dodicesimo secolo. È il soggetto di dipinti indostani e punjabi come Lady on a swing in the monsoon (1750-75), in cui una donna si dondola gioiosa con gli abiti che svolazzano mentre in lontananza si addensano nubi oscure. È citata perfino nella storia delle origini della festa del nowruz, il capodanno persiano: si racconta che le persone si dondolassero sull’altalena per imitare il leggendario Sash Jamšīd che guidava il suo carro nel cielo. È presente nella vita della dinastia tailandese Chakri del diciottesimo secolo, perché re Rama I ne fece costruire una gigantesca. E si ritrova un po’ ovunque nelle pagine della letteratura e della filosofia occidentale, da Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche (1883-85) a Il ramo d’oro di James George Frazer (1890), dai Tre saggi sulla teoria sessuale di Sigmund Freud (1905) a Homo ludens di Johan Huizinga (1938)”.
Poi lo straordinario storitelling che colpisce proponendo un viaggio nei millenni e nei costumi di popoli diversissimi fra loro con un’osservazione finale: ”L’altalena, un capitolo dimenticato nella storia dell’umanità, è intrecciata di mitologie e processi rituali. Che si parli di Grecia classica, Persia antica, Cina preimperiale o antico Egitto, è permeata dalla presenza di tratti comuni e miti condivisi: ebbrezza, amore, omicidio, suicidio e ambizione ruotano tutti intorno a un impulso irrefrenabile, come quello di Erigone che s’impicca dopo aver trovato la salma del padre. D’altro canto, queste storie e leggende non sarebbero nulla senza il processo sociale su cui s’innestano, senza le forme collettive e ritualizzate che permettono di raccontare e tramandare storie simili tra loro. Attraverso l’altalena e l’atto del dondolarsi riusciamo a vedere in quali forme la cultura comune e le norme sociali si proiettano nel corpo, ritualisticamente e impercettibilmente.
Perché, dunque, andiamo sull’altalena? Lo strumento che popola i nostri parchi giochi è arrivato fino a noi, ma le sue origini ci sfuggono. La sopravvivenza dell’atto del dondolarsi come gesto comune non può essere spiegata facendo riferimento a una storia ancestrale da cui banalmente deriverebbe ogni nuovo movimento. Le origini della nostra predilezione per questo gesto non sono annotate su nessun registro. Si perdono tra le nebbie della leggenda, molto prima che qualcuno si preoccupasse di disporre gli eventi su una scala cronologica”.
Nelle pagine seguenti spunta un altrettanto singolare articolo di Michael Le Page di New Scientist sul bacio o meglio con questa distinzione: ”Gli scienziati distinguono tra due tipi di baci: quello amichevole-familiare e quello romantico-sessuale. Il primo tipo, scrive Science, è diffuso tra gli esseri umani ovunque e in qualsiasi epoca. Il secondo, invece, non è universale ed è presente soprattutto nelle società stratificate“
Poi le spiegazioni: ”Una nuova ricerca basata sui testi antichi, pubblicata su Science, sostiene che l’abitudine di baciarsi appassionatamente era già diffusa almeno 4.500 anni fa in Mesopotamia e in Egitto.
La nascita dei baci legati alla sfera romantica e sessuale è al centro di un animato dibattito. Secondo alcuni esperti, le prove più antiche risalgono a dei testi in sanscrito scritti nella penisola indiana circa 3.500 anni fa. Da lì i baci si sarebbero poi diffusi nel resto del mondo, favoriti anche dall’espansione dell’impero di Alessandro Magno”.
Più avanti: “Nuove prove emerse in Mesopotamia e in Egitto, però, suggeriscono che il bacio romantico-sessuale nacque in vari posti e non si diffuse all’improvviso da uno solo al resto del mondo, spiega Troels Pank Arbøll dell’università di Copenaghen, in Danimarca: “L’abitudine di baciarsi esisteva in un’area molto più vasta di quanto si pensasse finora”.
Le poche persone capaci di leggere la scrittura cuneiforme, usata da varie antiche civiltà, lo sapevano da tempo, ma solo loro, aggiunge Arbøll. “Neanche la comunità scientifica ne era a conoscenza, perché le prove non erano state divulgate”. Così lui e la moglie, la biologa Sophie Lund Rasmussen dell’università di Oxford, nel Regno Unito, hanno deciso di pubblicare un articolo per diffondere le prove finora ignorate.
Negli scritti mesopotamici i riferimenti ai baci sono scarsi, ma da quei pochi che ci sono si evince che baciarsi era considerato normale all’interno delle relazioni intime, dice Arbøll”.
E ancora: ”Tuttavia, da uno studio condotto nel 2015 da William Jankowiak e dai suoi colleghi dell’università del Nevada a Las Vegas, negli Stati Uniti, non sono emerse evidenze di baci tra amanti nelle società di cacciatori-raccoglitori.
“Secondo me furono inventati o scoperti dalle élite delle società complesse”, afferma Jankowiak, “che potevano permettersi di perseguire il piacere e di trasformare il sesso in un incontro erotico. Lo studioso aggiunge che i baci sono più diffusi nelle regioni fredde, forse perché il corpo è coperto da vestiti e la faccia è l’unica parte che si può toccare”.
Altalena e baci: in tutte le cose, come nei nostri comportamenti, è doveroso scavare, mettendo assieme puzzle estremamente complessi e speriamo veritieri.

La plastica ci sommerge

Leggo con una certa continuità Libération, il quotidiano della Gauche francese per eccellenza non troppo melanchoniana. Dunque un giornale militante, che con grande serietà - prescindendo dai possibili giudizi di merito - affronta i temi à la une. Certo con il passare degli anni - nel radicarsi delle proprie convinzioni personali - ci sia accorge di come esistano lenti ideologiche, che una volta note consentono di intravvedere meglio le convinzioni altrui e passarle al setaccio delle proprie idee.
Così per la plastica, partendo da un testo del Comitato Nazionale delle Ricerche, prima di citare la stampa francese: ”A lungo simbolo positivo di progresso, la plastica è un classico esempio di come, nel giro di pochi decenni, si siano trasformati i valori del sentire comune. Dopo i primi tentativi di produrre oggetti con celluloide e bachelite, il grande impulso alla produzione di massa di beni in plastica parte dagli anni ’30 del secolo scorso, con l’utilizzo in scala industriale del petrolio come materia prima. Come spesso avviene, sono le finalità militari delle guerre mondiali a dare un determinante impulso allo sviluppo di una tecnologia: in questo caso la necessità di elaborare materiali sintetici che sostituissero quelli naturali, difficilmente reperibili. Negli anni ’50 c’è il vero e proprio boom della plastica, che entra nelle case di tutti sotto forma di prodotti di uso comune, che divengono icone di ottimismo e di benessere, non a caso vengono immortalati anche dalla Pop Art. Oggi quelle stesse qualità positive di solidità e resistenza dei prodotti in plastica si sono trasformate in una minaccia per l’ambiente”.
Così da Libé Coralie Shaub annuncia quanto avviene proprio oggi: ”À Paris s’ouvrent de nouvelles discussions internationales sur les dégâts causés par ce matériau omniprésent sur la planète. Les industriels de la pétrochimie, qui vantent le recyclage pour maintenir leurs niveaux de production, font pression pour éviter toute remise en cause de leur activité.
L’humanité parviendra-t-elle à se débarrasser du plastique, l’un de ses pires cauchemars, quelques décennies à peine après son invention ? Le monde ­s’attaquera-t-il enfin à ce fléau aux conséquences funestes pour la santé, l’environnement et les droits humains? Et ce, en résistant au lobbying des producteurs… lesquels ne sont autres que les industriels des énergies fossiles et de la pétrochimie? Dans un monde idéal, ce serait tout l’enjeu des négociations visant à élaborer un texte international sur la pollution plastique”.
Certo si tratta di regolamentare e non di proibire, quanto per altro sarebbe impossibile, perché ovviamente ai danni ben visibili della plastica si aggiungono anche usi di cui non si può fare a meno.
Questo non significa sottostimare la necessità di affrontare i rischi evidenti. In un editoriale sullo stesso giornale osserva Alexandra Schwartzbrod: ”Une fois cette lecture terminée, prenez quelques secondes pour vous observer, vous et votre environnement ­immédiat : vos lunettes, votre stylo, vos chaussures et jusqu’à certains de vos vêtements, la coque de votre téléphone portable, le ­tapis de votre souris, la ­bouteille d’eau que le bar à ­salades a glissé dans votre sac car son prix était compris dans le menu. Regardez bien : le plastique est partout. Nous y sommes accros et la planète en crève, littéralement intoxiquée par tous ces déchets que nous rejetons chaque année en continu dans la nature (qui représentent le poids de 35 000 tours Eiffel). Leur quantité a doublé dans le monde depuis vingt ans et pourrait tripler d’ici à 2060.
Et, pour l’heure, seuls 9 % sont ­recyclés, autant dire trois fois rien. Le plastique était gage de modernité dans les années 70, à l’image du tabouret tamtam, dont la plupart des logements comptaient au moins un exemplaire. On l’aimait alors de couleur orange, peutêtre parce qu’il était symbole de vie et d’énergie. Aujour­d’hui on le fuit, ou plutôt on essaie, et si l’on devait lui donner une couleur, ce serait plutôt le noir, couleur de ­l’angoisse. Comme le rappelle notre enquête, le plastique, très persistant dans l’environnement, se dégrade en micro nanoparticules qui polluent l’air, les sols, l’eau et tous les écosystèmes au point que nous sommes assurés d’en ingérer au moins 5 grammes par semaine, l’équivalent d’une carte de crédit”.
Un tema serio affrontato in profondità dall’inchiesta appena citata. Resta il fatto che anche sul nostro territorio alpino piange il cuore nel trovare plastica nei boschi, sui ghiacciai, nei torrenti. In fondo si potrebbe scrivere: ovunque. Dunque giusto trovare regole certe e a dimensione globale.

La crisi profonda dei settimanali storici

Fa impressione vedere la crisi, se non l’agonia, di due prestigiosi settimanali (magazine, se si preferisce), che hanno entrambi accompagnato la mia crescita come persona e come cittadino.
Mi riferisco a L’Espresso e a Panorama. Il primo nasce nel 1955, quando nove giornalisti guidati da Arrigo Benedetti, presero possesso degli storici uffici di via Po 12. Giornale che visitai con curiosità quand’ero deputato, invitato dal grande Giampaolo Pansa allora Vicedirettore e di questa storia prestigiosa parlai, quando lo conobbi, con quello straordinario giornalista che fu Giorgio Bocca. Entrambi, tra l’altro, furono per anni frequentatori della nostra Valdigne. In occasione di un Premio di giornalismo di Saint-Vincent venni presentato ad Eugenio Scalfari, all’Espresso sin dalla fondazione, essendone stato per lungo tempo direttore e storico nume tutelare.
L’Espresso per decenni fu comprato da mio papà nella versione lenzuolo delle origini, che teneva, collezionandoli, in apposito armadio. Ricordo bene quando nel 1974 il settimanale si trasformò in tabloid. Per molti fu uno choc, ma in edicola si trasformò in un boom, incrociandosi due anni dopo con il nuovo quotidiano Repubblica, di cui comprai da liceale la prima copia il 14 gennaio, edito da Mondadori. Quando la Mondadori venne acquistata da Berlusconi - siamo nel 1991 - il giornale passò a Carlo De Benedetti e poi ai figli con la società GEDI, che alcuni anni fa é passata alla Exor della famiglia Agnelli guidata da John Elkan. Infine un anno fa, l’epilogo che ora ha un’ulteriore passaggi. Lo
scrive in questi giorni Professionereporter: “Danilo Iervolino, nuovo proprietario dell’Espresso, dopo un anno dall’acquisto e dopo poco meno di cinque mesi dal suo nuovo format con nuovo direttore si libera di quasi metà delle azioni. Il nuovo corso dello storico settimanale che fu di Caracciolo e di Scalfari è appena cominciato e già l’ex fondatore e animatore dell’università telematica Pegaso avvia un disimpegno. Compratore del 49 per cento dell’Espresso Media Spa è Donato Ammaturo, titolare del gruppo Ludoil e della società Alga. Niente a che vedere con l’editoria: Ludoil si occupa di vendita, logistica e distribuzione di prodotti petroliferi, di  logistica infrastrutturale e delle energie rinnovabili. Alga invece organizza congressi, convegni, sfilate, promozioni, concerti e mostre e si occupa di gestione aziendale”.
Insomma, una campana a morto, che conferma il lento spegnimento del mio amato settimanale, che di fatto ha fallito il tentato passaggio sul digitale, aprendo un evidente scenario della difficoltà di traghettare la carta stampata verso tecnologie elettroniche.
Stesso destino di crisi per il secondo settimanale legato alla
mia crescita, Panorama, una sorta di gemello diverso. Fondato a Milano nel 1962 come mensile, nel 1967 divenne settimanale con una serie di direttori di grande prestigio. L’editore storico è sempre stato Mondadori con una svolta berlusconiana dopo l’acquisto da parte del Cavaliere. Nel 2018 Panorama passa a La Verità srl, la società che edita l’omonimo quotidiano fondato e diretto da Maurizio Belpietro con una sterzata ancora più a destra, confermando la
rottura con un passato in area progressista e senza più quelle vette di vendita del passato.
Si conferma così la crisi profonda dei giornali cartacei, che non è ormai compensata dagli abbonamenti on line con edizioni digitali Peccato, perché a mio avviso ci sarebbe un grande spazio per gli approfondimenti e commenti, necessari per scavare come si deve nelle notizie.

La musica accompagna nella vita

La riproduzione della musica, nel senso più vasto possibile, è davvero un segno dei tempi e testimonia quanto dico in molte occasioni e cioè che un segno contemporaneo è la clamorosa e talvolta folle corsa all’innovazione tecnologica. Le invenzioni in passato si protraevano per secoli, prima di essere a loro volta innovate o sostituite, mentre oggi tutto cambia in un battibaleno.
Per la musica io ho visto il giradischi (ma vedendo ancora il grammofono) e poi il mangiadischi (portatile!), il mangiacassette (in auto assieme alla radio), il walkman e poi vari altri aggeggi sempre più piccoli oggi ormai integrati al telefonino. Lo stesso vale per i supporti, dai dischi alle cassette, sino alla loro sparizione in favore delle varie piattaforme, che sono dei mostri che ti profilano e ti propongono, spiando i tuoi gusti, playlist perfette.
Vien da ridere a pensare quando ascoltavo la notte con una radio gigantesca Radio Lussemburgo in onde corte per sentire canzoni alla moda (che corrispondevano alle hit in discoteca, locale ormai rottamato) o dalla radio trasferivo, con vari accrocchi, sulle cassettine le musiche mixate malamente: quando cominciai a lavorare in radio queste registrazioni guadagnarono in qualità, manovrando i piatti dei giradischi e sfumando e alzando i cursori del mixer per passaggi ben fatti da un brano all’altro.
Le musiche poi, da giornalista radiotv, erano essenziali per fare dei bei reportage o per certe rubriche radiofoniche. Alla Rai, ancora in via Chambéry ad Aosta, mi immergevo in mezzo ai dischi, in un appartamento al terzo piano del palazzo, e mi beavo nella scelta, come ho fatto quand’ero responsabile dei Programmi, ma ormai con i CD, altro supporto ormai defunto. Oggi la scelta è varia e puoi trovare il mondo con un semplice clic, sempre più pagando, com’è giusto che sia, visto che la musica è un prodotto dell’ingegno che va remunerato.
La musica accompagna la mia vita: la ascolto in auto, correndo, a casa. E’ davvero una colonna sonora che è come un fiume che scorre, aggiungendo novità al repertorio costruito con le proprie orecchie nel tempo. Amo l’aspetto rievocativo, che consente con poche note o poche strofe di avere subito alla memoria episodi del proprio vissuto. Ho visitato Paesi e, fra le tante cose rimaste, come segno vitale ci sono quelle musiche ascoltate.Per cui ha ragione Milan Kundera  a dire che “La musica: una pompa per gonfiare l’anima”, ma non si può dare torto a Oscar Wilde: “La musica è l’arte che è più vicina alle lacrime e alla memoria”.
Ma esiste anche un aspetto liberatorio, così espresso da Elias Canetti: “Quanto più fittamente la terra si popola, e quanto più meccanico diventa il modo di vivere, tanto più indispensabile deve diventare la musica. Verrà un giorno in cui essa soltanto permetterà di sfuggire alle strette maglie delle funzioni, e conservarla come possente e intatto serbatoio di libertà dovrà essere il compito più importante della vita intellettuale futura”. La battuta più fulminante e veritiera è di Luciano De Crescenzo: “Quello che manca nella vita è il sottofondo musicale. Se esistesse ci accorgeremmo in tempo di quando un'automobile sta per investirci, o, peggio ancora, di quando stiamo per innamorarci”.
Di questi tempi di diverte molto la grande Mina, che dal fondo del suo eremo svizzero, ha incrociato Blanco e, dall’alto dei suoi 83 anni, straccia tutti cantando “Un Briciolo di Allegria” con un papapapapapapa finale che scalda il cuore.

Le cronache valdostane della Serao

Ci sono libri che sono come un bel fiore nel grande prato della produzione letteraria. Interessante poi se il libro racconta di una scrittrice e giornalista come Matilde Serao (1856-1927), personalità eclettica e con una produzione sui giornali e nella letteratura vastissima, la cui biografia racconta di una vita ricca e talvolta turbolenta in un contesto fin de siècle, affacciandosi al Novecento sino all’ingiusto smacco di perdere il Premio Nobel per la letteratura per la scelta di Mussolini di bloccare la sua candidatura a causa delle sue posizioni contro il fascismo.
Ma torniamo al libro. Mi riferisco a “Alla montagna debbo ritornare” scritto da Chantal Vuillermoz, edito da Tipografia valdostana e Musumeci editore, che ha l’esaustivo sottotitolo “Donna Matilde Serao, villeggiante nell’estate del 1892”.
In modo accurato nel descrivere questo soggiorno e con un racconto che dipinge la villeggiatura con maestria, l’autrice dimostra l’assoluta ricchezza di questa visita dipanatisi prima in Val di Gressoney, poi in Val d’Ayas, in seguito in Valtournenche e infine a Courmayeur, senza dimenticare le esperienze annotate ad Aosta e in altre località del fondovalle.
Il suo viaggio attraverso la Valle, come puntualmente spiegato dalla Vuillermoz che svela anche nelle note personaggi e località per capirne meglio il contesto, dimostra una precisa capacità di descrivere luoghi e persone, dandoci uno spaccato della società valdostana del tempo e dei turisti più o meno illustri che la visitavano.
Non svelo eccessivamente gli aspetti suggestivi delle diverse tappe, che la Serao racconta con raro afflato descrittivo, che dimostra come la sua vita fosse intrisa da un desiderio quasi cinematografico nel rappresentare il mondo che l’attorniava e che scopriva con un’invidiabile curiosità. Al limite della grafomania, si capisce come mai si fermasse questo flusso di annotazioni, descrizioni, sensazioni, che appaiono di una modernità da Social, ma con una scrittura ricca e suggestiva. Resa ancora più scolpita nel racconto che Vuillermoz costruisce con logica cartesiana, che si sposa ad una grande freschezza che costringe il lettore ad essere anch’esso curioso delle scoperte della Serao.
Emerge la capacità di empatia della scrittrice negli incontri con le diverse persone, da quelle semplici alle personalità più o meno illustri.
Lo ricorda anche in altro testo la scrittrice Elisabetta Rasy con una testimonianza illuminante: “Che Matilde fosse una donna eccezionale – nel senso letterale di un'eccezione alle regole: la regola dell'ambiente italiano e quella del suo genere sessuale – se ne accorse perfino una signora snob come la scrittrice americana, ma europea per scelta e per gusto, Edith Wharton, la pupilla di Henry James. Quando negli ultimi anni della Vecchia Europa, alla vigilia della Grande Guerra, la incontrò nell'elegante e selettivo salotto parigino di Madame Fitz-James, la Wharton non esitò a definirla nel suo diario «una donna tozza e grossa, rossa in faccia e sul collo», riconoscendo, però, che quando prendeva la parola era capace di raggiungere punte che l'americana cosmopolita e chic non aveva mai rilevato nei discorsi delle altre donne”.
Una fascinazione che l’autrice del libro sulla visita valdostana conferma nell’inquadrare questa donna così speciale, specie nella prima parte, in una vita fatta di alti e bassi, di gioie e dolori, di amore e odio, dimostrando una straordinaria passionalità.
Nelle ultime pagine colpiscono le citazioni delle pagine della Serao che lascia la montagna valdostana in cui non tornerà più, malgrado avesse scritto che lo avrebbe fatto, immaginando le medesime località viste in estate coperte dalla neve. Pensieri densi e poetici, pieni di immaginazione.

La disinformatija russa

Leggo spesso, per il suo acume e la sua capacità di scavo nei temi, Luciano Capone su Il Foglio. Le origini irpine, popolazione dalle grandi doti culturali, si mischiano alla solida formazione bocconiana.
Ho molto apprezzato il bel quadro dedicato su di un giornale serio verso quello strano fenomeno editoriale, che è il “Fatto quotidiano”. Parte da una intuizione del CEO e del formatore Alberto Brandolini che risale al 2013, diventando rapidamente virale. Ispirato dalla lettura di “Pensieri lenti e veloci“, scritto dal Premio Nobel Daniel Kahneman, questo principio è strettamente legato al dibattito sulle fake news. Ad essere esatto l’origine del pensiero di Brandolini risale al gennaio 2013, su Twitter. Stufo di discutere di sciocchezze con estranei, il programmatore iniziò a leggere il libro appena citato. Dopo aver ultimato la lettura, assistette a un dibattito televisivo tra il giornalista Marco Travaglio e l’ex presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi. Il disagio che gli procurava era tale che formulò in un twitter elaborando la sua famosa legge.
Scrive Capone: “Dice la legge di Brandolini che la quantità di energia necessaria per confutare una stronzata è molto superiore a quella necessaria per produrla.
E’ questo il grande vantaggio della disinformazione. Rende la confutazione sicuramente un lavoro antieconomico, ma forse non del tutto inutile se serve a segnalare l’affidabilità di certe fonti. Un caso di scuola di disinformazione, che riguarda una vicenda drammatica come l’invasione dell’Ucraina, è la serie di articoli di Daniela Ranieri pubblicata sul Fatto quotidiano, che punta a descrivere – in linea con la propaganda russa – Volodymyr Zelensky come un autocrate e gli ucraini come autori di crimini contro l’umanità su vasta scala nelle regioni orientali. Gli articoli si basano su informazioni parziali, distorte e false”.
Così Capone esplicita: “Nel primo articolo della serie dal titolo “I Saturnalia di Zelensky in tv fra propaganda e fake news” (del 15 maggio), l’autrice attacca i giornalisti italiani che hanno intervistato Zelensky durante la sua visita in Italia per il loro servilismo nei confronti del presidente ucraino (non a caso l’articolo del Fatto è stato elogiato dal principe dei propagandisti russi: Vladimir Solovyov). Per dimostrare che l’Ucraina è piena di nazisti (una delle ragioni usate da Putin per giustificare l’invasione) Ranieri scrive: “Soprannominati ‘Uomini in nero’, dopo le denunce di Amnesty nel 2016 sono indicati in un rapporto Osce come ‘responsabili dell’uccisione di massa di prigionieri, occultamento di cadaveri nelle fosse comuni e uso sistematico di tecniche di tortura’”.
Ecco svelate le fonti: “Il primo rilevante problema di questa citazione è che non esiste. Non compare in alcun documento dell’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) sulla crisi in Ucraina dal 2014 a oggi. Da dove salta fuori? L’autore (non citato da Ranieri), molto probabilmente, deve essere Marco Travaglio che nel suo libro sulla propaganda “atlantista”, dal titolo “Scemi di guerra”, scrive che nel 2016 “anche l’Osce condanna duramente gli orrori dei miliziani dell’Azov, definendoli ‘responsabili dell’uccisione di massa di prigionieri, occultamento di cadaveri nelle fosse comuni e uso sistematico di tecniche di tortura fisica e psicologica’”. Insomma, la redattrice del Fatto si è fidata del suo direttore. Ma posto che la citazione è falsa, Travaglio se l’è inventata o l’ha ripresa da qualche parte? E dove? Non è chiaro, anche perché nel libro Travaglio non indica alcuna fonte, neppure in una nota (anzi, le note proprio non ci sono). La ricerca non è agevole, ma si scopre che quel passaggio è pressoché copiato (viene solo invertita la sequenza dei crimini contestati) dalla voce di Wikipedia sul “Reggimento Azov”, dove però non compare né come virgolettato né viene attribuito all’osce. Su Wikipedia quella frase viene usata come sintesi di “un rapporto presentato all’osce dalla Foundation for the Study of Democracy”. Non è quindi un “rapporto dell’Osce”, come scritto da Travaglio e Ranieri, ma “un rapporto presentato all’Osce”.
Vabbè, sarà un dettaglio, con quel nome altisonante si tratterà sicuramente di una fondazione seria. Niente affatto. La Foundation for the Study of Democracy è una protesi propagandistica del Cremlino mascherata, neanche troppo bene, da Ong. Al suo vertice c’è il russo Maxim Grigoriev, che ha realizzato questo report anti ucraino insieme alla Russian Public Council for International Cooperation and Public Diplomacy, presieduta su nomina di Putin dall’alto diplomatico russo Sergei Ordzhonikidze (figlio di un ambasciatore sovietico e discendente di un leader bolscevico ministro di Stalin). A settembre 2022 Grigoriev con la sua Foundation for the Study of Democracyha certificato la regolarità secondo il diritto internazionale dei referendum di annessione alla Russia nelle regioni ucraine occupate dalle truppe russe. Circa un mese prima dell’invasione dell’ucraina, a gennaio 2022, Grigoriev presentava un libro e una mostra su quanto fossero nazisti gli ucraini insieme al direttore dei servizi segreti esteri russi Sergei Naryshkin. E già nel 2019, il Cremlino aveva usato Grigoriev e la Foundation for the Study of Democracy per produrre analoghi report farlocchi per scagionare il dittatore siriano Bashar el Assad (alleato di Putin) dall’accusa di aver usato armi chimiche nel 2018 a Douma e fare ricadere la colpa sui ribelli. Mentre l’indagine indipendente dell’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac/opcw) ha concluso che la responsabilità dell’attacco chimico è dell’aviazione di Assad.
Si tratta, in sintesi, del riciclo di scadente disinformatija russa di seconda e terza mano, che in genere i giornalisti occidentali riconoscono come tale. Tranne gli utili idioti di Putin”.
Utili idioti troppi numerosi e qualcuno spicca anche in Valle d’Aosta.

Il Mattarella manzoniano

Nella mia visione politica, da federalista, l’etnismo, inteso come esaltazione del proprio gruppo etnico a detrimento degli altri, non mi è mai appartenuto. Questa posizione sarebbe del tutto contraddittorio con la sovrapposizione di popolazioni nel tempo che, con la presenza più antica e più recente, hanno forgiato i Valdostani di oggi. La fierezza di far parte di una comunità è largamente condivisa, spesso anche dagli ultimi arrivati. Chi non si vuole riconoscere e sceglie di essere "apolide" fra di noi ha piena libertà di farlo, ma questo non vuol dire intaccare quella preponderante maggioranza che si sente valdostano per origine, per adozione e direi per scelta. Questa appartenenza, specie per chi crede nel federalismo, non è mai contro qualcuno e lo ridico a chiare lettere.
Giorgio Gaber lo cantava in una sua canzone proprio sull'appartenenza: «L'appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme. Non è il conforto di un normale voler bene. L'appartenenza è avere gli altri dentro di sé».
Mi era capitato tanti anni fa di citare la parola tedesca "Heimat". Il senso di «casa» – Heim – contenuto dal termine indica il legame tra l’individuo e il luogo – inteso come paesaggio e cultura – in cui è nato e cresciuto. Termine caro ai sudtirolesi ed ai popoli germanici (Il tedesco Herbert Grönemeyer canta: “Heimat non è un luogo, Heimat è una sensazione”) e mi sono chiesto se e come possa esistere un termine simile, legato al cuore dei valdostani e a quel legame così intenso con queste nostre montagne e all'insieme della cultura alpina che qui si esprime. Io penso che per noi l’equivalente sia “Valle”, antica parola, che sarebbe ”forma concava del suolo fra due opposti pendii", dal latino "vallis" e, nel caso nostro, "Vallis Augustanæ”.
Ci pensavo leggendo alcuni passaggi politici tratti dal recente discorso del Presidente Sergio Mattarella alla cerimonia in occasione del 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni, riportabili a certe uscite di Ministri del Governo Meloni (su etnia e dintorni spicca il cognato della Premier,Francesco Lollobrigida).
Matterella dixit: “Abbiamo appena ascoltato, con una lettura particolarmente intensa – che qui la ringraziamo tutti - da parte Eleonora Giovanardi, l’episodio dell’incontro a quattr’occhi di fra’ Cristoforo con don Rodrigo. Sono eccezionali, in quel momento e in quel passaggio del romanzo, il gioco degli sguardi, quasi cinematografico, il movimento scenico, il dialogo drammatico, che si intreccia tra i rappresentanti di due concezioni del mondo così diverse: l’umiltà, la sete di giustizia, l’umanità da un lato; l’arroganza, la protervia, la prepotenza dall’altro.
Nello sterminato territorio che separa l’universo valoriale di fra’ Cristoforo da quello, turpe, di don Rodrigo si muove - sembra dirci Manzoni - la storia, cammino dolente ma inarrestabile dell’umanità verso il futuro.
Genti e popoli in marcia, con le loro speranze, i loro progressi, le loro miserie, le loro cadute. Un percorso che - come è stato ricordato poc’anzi - Manzoni affida nelle mani della Divina Provvidenza. Ma che è quanto di più lontano da un rassegnato fatalismo, perché gli uomini, mediante la loro forza e le loro debolezze, sono e restano i costruttori del proprio presente e del proprio avvenire”.
Saranno fischiate le orecchie alla
Meloni in questo passaggio: “A proposito del Romanticismo e del Risorgimento italiano si cita spesso la triade Dio, Patria, Famiglia, quasi in contrapposizione alla triade della Rivoluzione Francese, Libertà, Eguaglianza, Fraternità. È una cesura eccessivamente schematica.
Il romantico e cattolico Manzoni, in verità, non rinnega i valori della Rivoluzione Francese, anzi, li approva e li condivide, insistendo soprattutto sul quello più trascurato, la fraternità. La Rivoluzione Francese, secondo Manzoni, aveva tradito questi valori, perché, con il giacobinismo, si era trasformata nell’ideologia del Terrore e della violenza.
Nulla, per l’autore dei Promessi Sposi, è più nefasto delle teorie politiche astratte che immolano sull’altare della ragion di Stato i diritti di uomini o di intere popolazioni. Nulla, per lui, è più sacro della vita umana. La verità deve prevalere sulla menzogna, la tolleranza sull’odio, la pietà sulla violenza, la morale sul calcolo di convenienza”.
E a Lollobrigida in questo passaggio su Manzoni: “Ma - nella sua visione - è la persona, in quanto figlia di Dio, e non la stirpe, l’appartenenza a un gruppo etnico o a una comunità nazionale, a essere destinataria di diritti universali, di tutela e protezione. È l’uomo in quanto tale, non solo in quanto appartenente a una nazione, in quanto cittadino, a essere portatore di dignità e di diritti”.
E ancora: “Nell’idea manzoniana di libertà, giustizia, eguaglianza, solidarietà si può scorgere una anticipazione della visione di fondo della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948.
Una carta fondamentale, nata dopo gli orrori della Seconda Guerra mondiale, che individua la persona umana in sé, senza alcuna differenza, come soggetto portatore di diritti, sbarrando così la strada a nefaste concezioni di supremazia basate sulla razza, sull’appartenenza, e, in definitiva, sulla sopraffazione, sulla persecuzione, sulla prevalenza del più forte. Concetti e assunti che – come ben sappiamo - sono espressamente posti alla base della nostra Costituzione repubblicana.      
Dai diritti dell’uomo la concezione manzoniana si allarga a quella del diritto internazionale e dei rapporti tra gli Stati, dove si ritrova una critica lucida e serrata al nazionalismo esasperato. Perché la moralità, la fraternità e la giustizia devono prevalere sugli odi, sugli egoismi, sulle inutili e controproducenti rivalità”.
Per concludere sulle derive populiste: “Sono state scritte pagine illuminanti sulla sua vicinanza, sull’empatia, sulla condivisione nei confronti delle masse popolari, che per la prima volta diventano protagoniste di un romanzo. Utilizzando una terminologia moderna, di oggi, possiamo parlare di un Manzoni certamente “popolare”, ma non “populista”.
Il legame controverso che Manzoni stabilisce tra potere e opinione pubblica, tra giustizia e sentimenti diffusi, ci induce a riflettere - sia pure in tempi incommensurabilmente distanti - sui pericoli che oggi corrono le società democratiche di fronte alla diffusione del distorto e aggressivo uso dei social media, dell’accentramento dei mezzi di comunicazione nelle mani di pochi, della disinformazione organizzata e dei tentativi di sistematica manipolazione della realtà.
E, anche, sulla tendenza, registrabile in tutto il mondo, di classi dirigenti di assecondare la propria base elettorale o di consenso e i suoi mutevoli umori, registrati di giorno in giorno tramite i sondaggi, piuttosto che dedicarsi a costruire politiche di ampio respiro, capaci di resistere agli anni e di definire, in tal modo, il futuro.
Già nei Promessi Sposi, nei capitoli dedicati alla peste, Manzoni scriveva icasticamente a proposito di questi rischi: “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.
La “Storia della Colonna infame” - un capolavoro di letteratura civile, compreso e rivalutato soltanto a partire dal secolo scorso - ci ammonisce di quanto siano perniciosi gli umori delle folle anonime, i pregiudizi, gli stereotipi; e di quali rischi si corrano quando i detentori del potere - politico, legislativo, giudiziario - si adoperino per compiacerli a ogni costo, cercando soltanto un consenso effimero. Un combinato micidiale, che invece di produrre giustizia, ordine e prosperità - che è il compito precipuo di chi è chiamato a dirigere - produce tragedie, lutti e rovine”.
Difficile dire meglio.

La ragnatela di fibra ottica

Sono molto contento perché dell’Innovazione mi ero già interessato in altre vesti, prima di avere la materia tra le mie attuali deleghe. Certo il potenziale perimetro è da capogiro, anche se molto ruota attorno al termine già vasto in sé di “digitalizzazione”. L’esempio più facile è l’oggetto che abbiamo in mano: il telefonino che oggi contiene il mondo e un’impressionante possibilità di ulteriori strumenti da utilizzare e di dati da consultare e i dati - compresi i nostri personali - sono un ricco mercato.
Un capitolo interessante è la necessaria diffusione della fibra ottica per rendere i collegamenti più rapidi e affidabili. Ormai questa parola - con l’acronimo FO - è di uso comune, anche se poi alla fine resta un oggetto piuttosto sconosciuto per molti. In breve ci si riferisce alla tecnologia e al mezzo per la trasmissione di informazioni attraverso impulsi di luce lungo un filo o una fibra di plastica o vetro. Il mezzo utilizzato per il passaggio è un sottilissimo cavo, il cui diametro è di 125 nanometri, più piccolo di quello di un capello umano. Al suo interno viene fatto "rimbalzare" un raggio o impulso luminoso il cui compito è quello di trasportare informazioni tra i due capi del filo.
La potenzialità è enorme e piena di possibili ricadute, ma intanto conta lavorare sulla sua diffusione anche nella piccola, ma complessa per l’orografia montana, Valle d’Aosta, che è area test significativa proprio per queste sue difficoltà.
Ricordo come la Valle d’Aosta, nodo di transito per i trasporti e comunicazioni tra il Nord e il Sud dell’Europa, abbia iniziato ad investire sin dagli anni 1990 per le comunicazioni elettroniche ad alta velocità tramite la fibra ottica.
Negli anni Novanta infatti con l’allora Società Italiana per l’esercizio telefonico (SIP) venne avviato un progetto per la posa di fibra ottica sulla dorsale Pont Saint Martin – Aosta - Courmayeur e Aosta – Saint-Rhémy-en-Bosses.
Il progetto Valle d’Aosta cablata ha posato in seguito alcune tratte di distribuzione principali a Pont-Saint-Martin, Verrès, Saint-Vincent, Chatillon e Courmayeur. L’intervento ha permise alla allora società telefonica di Stato di poter avviare il processo di trasformazione da analogico a digitale delle principali centrali telefoniche del territorio.
Nel 2004 grazie alla convenzione con il neo nato consorzio TOPIX (TOrino Piemonte Internet eXchange) - consorzio senza fini di lucro nato nel 2002 con lo scopo di creare e gestire un Internet Exchange (IX) per lo scambio del traffico Internet nell’area del Nord Ovest – sono state predisposti presso le Pépinères d’entreprises di Pont-Saint-Martine e Aosta i primi punti di accesso neutri per operatori di TLC in banda Ultra Larga per erogare servizi alle imprese. Eravamo agli albori.
Successivamente il Piano VdA Broadbusiness ha costituito un elemento qualificante della strategia della Valle per lo sviluppo con fondi europei della infrastruttura per la banda ultra larga nel territorio regionale. La logica era quella di superare il digital divide di lungo periodo, secondo gli indirizzi dell’Agenda Digitale Europea, abilitando la copertura in banda ultra larga fissa e mobile “anywhere, always on” su tutto il territorio, al servizio dei cittadini, delle istituzioni, delle imprese, tramite la posa di dorsali in fibra ottica per il collegamento sia delle centrali telefoniche sia delle principali stazioni radio base per reti mobili.
Col progetto VdA Broadbusiness sono stati posati oltre 700 km di fibra ottica per collegare tutte le vallate laterali della regione e i principali tralicci di radio telecomunicazioni in modo da permettere agli operatori di TLC di poter avviare il percorso di adeguamento tecnologico delle infrastrutture TLC per l’erogazione dei servizi in Banda Ultra Larga.
Tramite le fibra ottica del progetto VdA Broadbusiness dal 2015 è stato poi possibile collegare tutti i municipi della Regione con collegamenti ad alta velocità per permettere la progressiva evoluzione dei sistemi di telefonia mobile alle tecnologie 4G e successive ed anche il rilascio dei servizi in fibra per le centrali telefoniche. Sono argomenti apparentemente solo tecnici, ma che cambiano le nostre vite.
Ora è in corso il Piano Nazionale Banda Ultra Larga – PNBUL - in fase di realizzazione a cura del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, attraverso la propria società in house Infratel Italia, della rete di accesso in Banda Ultra Larga.
Il piano rientra nell’accordo di programma e convenzione operativa col MISE del 2016 oltre alla sottoscrizione di apposite convenzioni con tutti i Comuni della Regione (2018) e definizione dell’accordo di concessione per il riutilizzo delle infrastrutture RAVdA con Open Fiber (aggiudicatario della gara indetta da Infratel Italia). Il cronoprogramma di realizzazione prevedeva il completamento delle attività entro il 2020, prorogati entro il 2022 e ad oggi stimati entro il 2024.
Il completamento del PNBUL che prevede di coprire l’85% delle unità immobiliari valdostane permette agli operatori di TLC l’attivazione del servizio FTTH (Fiber To The Home) all’utenza finale.
Dei 74 Comuni della regione solamente 68 sono stati ricompresi nel piano. Risultano esclusi i Comuni di Challand-Saint-Victor, Challand-Saint-Anselme e Rhémes-Saint-Georges in quanto inseriti in un piano di copertura di un operatore TLC che successivamente non ha dato corso alla realizzazione (e ovviamente bisognerà occuparsi della questione) e Pont-Saint-Martin, Saint-Vincent e Sarre che fruiscono già di servizio FTTC (Fiber To The Cabinet) per oltre il 95% delle unità immobiliari.
Il Comune di Aosta rientra solamente per le frazioni collinari in quanto il resto del comune non rientra tra le aree bianche in quanto risultano già presenti servizi in fibra ottica.
A questo si aggiunge il piano gestito dalla Regione che prevede il collegamento in fibra ottica di tutte le sedi scolastiche pubbliche (circa 200 indirizzi su 100 plessi), sgravando i proprietari delle strutture dai canoni di gestione connettività. Dal piano sono escluse alcune scuole dell’infanzia che verranno collegate con Piano scuole 2 nell’ambito dei fondi PNRR.
Sempre a regia nazionale è stata avviata una consultazione pubblica per la copertura in fibra ottica dei civici non ricompresi nel PNBUL. Il lotto 4 che ricomprende Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, è stato aggiudicato a TIM/Fibercop per 291M€ per il collegamento di 495.100 civici. Per la VdA l’intervento è previsto su 15.934 civici esclusi dal piano nazionale Banda Ultra Larga.
Sia chiaro: se resteranno degli esclusi interverremo con fondi regionali propri o di origine comunitaria.
Sempre nel PNRR, oltre a diversi progetti in corso come il cospicuo progetto bandiera da 14 milioni per il “Potenziamento della capacità digitale della pubblica amministrazione regionale”, vi è per la connettività un Piano sanità connessa di fonte nazionale che prevede il collegamento in fibra ottica delle sedi sanitarie e socio assistenziali del territorio (coinvolgimento della AUSL e delle Unité des Communes Valdôtaines).
Per la VdA il bando è stato vinto da Vodafone Italia. Come per il Piano Scuole, i proprietari delle strutture saranno sgravati dai canoni di gestione dei collegamenti.
Infine - e speriamo che si capisca che la tecnologia è sicura - c’è nel PNRR il Piano Italia 5G, che prevede il collegamento in fibra ottica delle postazioni radio elettriche non ancora rilegate, inoltre arriverà la densificazione delle postazioni per il miglioramento del servizio.
Per la realizzazione di nuove infrastrutture, Bando 5G COP, per lo sviluppo di servizi radiomobili 5G, che ha come obiettivo l’aumento della velocità di trasmissione in condizioni di punta del traffico, la Valle d’Aosta rientra nel Lotto 1 vinto da TIM col Piemonte e il Lazio.
Per il collegamento dei siti in fibra ottica con infrastrutture di connettività su rete di trasporto performante per tutti i servizi 5G, che saranno rese disponibili per tutti gli operatori di telefonia mobile 5G, la la Valle d’Aosta rientra nel lotto 1 vinto da TIM insieme a Lombardia e Piemonte. Insomma: molti progetti concomitanti e da coordinare talvolta con difficoltà per la diversità degli approcci.
Intanto bisogna lavorare sull’offerta, lato Regione, dei contenuti e muoversi nella formazione al digitale per evitare una "frattura culturale” che impedisca l’uso delle potenzialità delle reti. E bisogna riuscire a far capire l’importanza - nel nome dell’eguaglianza - di questi tecnologie,

La forza della curiosità

Diciamoci la verità: nella nostra educazione sentimentale la curiosità non era considerato niente di buono e tipicamente dalla nonna (almeno dalla mia!) si veniva apostrofati da un classico: “Non essere troppo curioso!”.
Era in tutta evidenza uno stravolgimento del significato vero, scambiando il curioso per il ficcanaso/impiccione che si intrufola in quanto non lo deve interessare. Per altro le cronache giornalistiche ne confermano l’uso, tipo i curiosi inopportuni sul luogo di un incidente stradale o quelli che ti spiano sui Social e non per leggerti, ma per farsi i fatti tuoi, almanaccando su quanto pubblichi.
Vecchia storia anche nel mondo “analogico” se Giacomo Leopardi così scriveva nel 1845: “In ogni paese i vizi e i mali universali degli uomini e della società umana, sono notati come particolari del luogo. Io non sono mai stato in parte dov’io non abbia udito: qui le donne sono vane e incostanti, leggono poco, e sono male istruite; qui il pubblico è curioso de’ fatti altrui, ciarliero molto e maldicente; qui i danari, il favore e la viltà possono tutto; qui regna l’invidia, e le amicizie sono poco sincere; e così discorrendo; come se altrove le cose procedessero in altro modo. Gli uomini sono miseri per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente”.
Invece ritengo che si debba essere curiosi nel senso buono, avendo rispetto per l’uso di curioso, quando ci indica una cosa insolita. L’Etimologico ci illumina: “Desideroso di rendersi conto di qualcosa; insolito, singolare : dal latino curiōsus ‘che si interessa; avido di conoscere; accurato’, derivazione di cūra ‘preoccupazione; sollecitudine, premura”.
Questo è il lato buono della curiosità e che tra l’altro non va affatto riservata ai soli bambini piccoli, imbattibili fautori dei “perché?” su qualunque aspetto dello scibile umana. Con l’evidente vantaggio dei genitori di oggi di adoperare la ricerca su Google per apparire onniscienti di fronte alle domande le più bislacche dei loro figli.
Ecco perché la curiosità resta un motore buono per dare freschezza anche nell’età più avanzata, come argutamente sostenuto da Gesualdo Bufalino: “Non è l’affievolirsi della vista, dell’udito, della memoria, della libido che segna l’avvento della vecchiaia e annunzia la prossima fine; ma è, dall’oggi al domani, la caduta della curiosità”.
Più rivoluzionario e buono er tutte le età il pensiero di Michel Foucault: “La curiosità evoca la “cura”, l’attenzione che si presta a quello che esiste o potrebbe esistere; un senso acuto del reale, che però non si immobilizza mai di fronte a esso; una prontezza a giudicare strano e singolare quello che ci circonda; un certo accanimento a disfarsi di ciò che è familiare e a guardare le stesse cose diversamente; un ardore di cogliere quello che accade e quello che passa; una disinvoltura nei confronti delle gerarchie tradizionali tra ciò che è importante e ciò che è essenziale”.
Dunque facciamoci prendere dalla curiosità se è sana investigazione dentro e attorno a noi, sapendo che non basterebbero dieci vite per occuparci di quanto sarebbe meritevole della nostra attenzione. Anzi, più il tempo incalza è più mi rendo conto di inseguire le mie curiosità.
Con Emil Cioran: “La curiosità, non lo si ricorderà mai abbastanza, è il segno che si è vivi e ben vivi; la curiosità risolleva e arricchisce ad ogni istante questo mondo, vi cerca ciò che in fondo non smette di proiettarvi, è la modalità intellettuale del desiderio. Perciò, a meno che non sbocchi nel nirvana, l'incuriosità è un sintomo dei più allarmanti. In certe contrade dell'America latina, è consuetudine annunciare un decesso in questo modo: Un tale è diventato indifferente. Questo eufemismo da partecipazione funebre nasconde una filosofia profonda”.

Auguri ai blue jeans

I jeans sono stati e sono ancora, pur con stili differenti, un grande classico dell’abbigliamento, oggi facilitato dall’utilizzo in tante occasione di un abbigliamento casual, cioè più informale di quanto avvenisse in passato.
Il grande stilista Yves Saint Laurent diceva: ”Vorrei aver inventato i blue jeans: la cosa più spettacolare, più pratica, più comoda e disinvolta. Hanno espressione, modestia, sex appeal, semplicità − tutto ciò che desidero per i miei vestiti”.
Il semiologo Ugo Volli così conferma: “Infinite sono le possibilità di indossare i jeans e altrettanti numerosi i modi di farlo, di dar senso a questo pantalone che nel corso del tempo è diventato il “significante puro” del guardaroba disponibile ad assumersi i più diversi significati. Lavoro e tempo libero, gioventù e virilità, seduzione e comodità trasandata, rivoluzione e rimpianto dei bei tempi del West, americanismo e anti, eleganza e povertà”.
Perché ne scrivo? In queste ore è un compleanno. Ho letto su questo Luca Josi su Oggi: “Perché 150 anni fa, il 20 maggio del 1873, nel pieno della caccia all’oro californiana, un sarto di origini lettoni, Jacob Davis, convinse un mercante di abbigliamento di origini bavaresi, Levi Strauss, padrone di una fabbrica d’indumenti ben avviata (la Levi Strauss & Co), a brevettare a San Francisco il primo modello di jeans: cinque tasche in tessuto denim, rinforzato con rivetti in rame e decorato con la classica salpa posteriore; numero di registro 139.121! Nome “XX””.
Josi, genovese, ricorda poco prima l’origine dei blue jeans “o i “Blu di Genova” come dovrebbero chiamarsi in epoca di sovranismo lessicale”.
Più avanti approfondisce con poche righe illuminanti: “Da dove nasce il mito di questo tessuto, forse il più commercializzato del pianeta? Da una Repubblica marinara, Genova che, già nel pieno Medioevo, utilizzava il progenitore di quel tessuto, color indaco, per proteggere sotto l’armatura i suoi balestrieri (i tiratori di balestra, una sorta di evoluzione tecnica dell’arco). Città di commercio e mercato, centrale di importazione di cotone e di esportazione di fustagni, tele e orditi di pregio, Genova proteggeva i suoi preziosi carichi tessili imballandoli con un tessuto, un fustagno color blu resistente anche all’acqua, che fece riconoscere quei prodotti provenienti dal capoluogo ligure come “Jeane” (ovvero, la vista di quel blu faceva etichettare l’intera merce in arrivo come genovese). E più o meno questa dovrebbe essere l’origine di quel nome legato alla manifattura di una tela che poi prenderà strade diverse a seconda dei luoghi della sua lavorazione; i genovesi delegheranno al Piemonte canavese la produzione del loro fustagno, mentre a Nîmes si darà vita al “Blue de Nîmes” “.
Josi scava infine nella storia: ”Due secoli dopo, nel 1860, ritroveremo il jeans addosso alle uniformi de “I Mille” di Garibaldi impegnati a combattere per l’Unità d’Italia. E con un certo gioco della storia, 150 anni dopo, sarà pronto ad accogliere in una sua tasca un’altra Unità, quella del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, per la pubblicità di Oliviero Toscani (che citava forse se medesimo da una precedente, celeberrima immagine di una campagna del 1970: «Jeans Jesus: chi mi ama mi segua»). In realtà, il jeans arriverà sui giornali già nel 1935 con la prima inserzione su Vogue acquistata dalla Levi’s.
Quella tela diventerà il minimo comune denominatore di un’epoca. Lo indosserà nel 1943 la modella Mary Doyle Keefe nello storico ritratto di Norman Rockell per la propaganda bellica. E dall’immaginario dell’eroe dei due mondi si passerà a quello globale di James Dean, Jack Kerouac e della Beat Generation per arrivare alla Hollywood di Elvis Presley e Marlon Brando. Nel 1971 sarà protagonista della copertina di Sticky Fingers dei Rolling Stones disegnata da Andy Warhol, mentre in Italia lo incontreremo nella letteratura di Pasolini e poi di Moravia. Nel ‘68 eccola divisa militante della rivoluzione giovanile e qualche lustro dopo indossata da un Gianni Agnelli versione casual o motivo di ritardo nella consegna del primo incarico di governo a Bettino Craxi (il presidente della Repubblica Sandro Pertini, nel 1979, lo mandò a cambiarsi perché il giovane leader si era presentato al Quirinale, precipitatosi di ritorno da un viaggio all’estero, in giacca e jeans); saranno i calzoni per il ranch di Ronald Reagan e tenuta informale per Obama e Putin”
Insomma: un pezzo di Storia ha indossato i blue jeans!

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