L’elettricità che spaventa

La sera, alla fine di una cena in un ristorante, il proprietario ripete quanto già mi sono sentito dire nel corso della giornata da tanti altri: l’insostenibile crescita dei costi dell’elettricità. Conseguenza - verrebbe da dire prezzo da pagare, come sostenne per primo con coraggio il Presidente francese Emmanuel Macron- della guerra in Ucraina e dei meccanismi complessi innescati dai ricatti russi su gas sul mercato elettrico, che si ripercuotono sulle utenze e fanno traballare l’economia e tremare famiglie e imprese.
La mattina, percorro la casa al buio, dopo aver staccato il telefonino dalla presa elettrica, e vedo nel breve tragitto verso la vetrata che dà sulla valle luci e lucine sulle pareti domestiche/ Ecco dalla finestra lo spettacolo delle luci che, prima dell’alba, illuminano a perdita d’occhio il panorama esterno.
La lotta contro il buio è una nuova forma di energia è stata vinta dall’elettricità e questa invenzione ottocentesca ha cambiato la nostra vita in profondità e la sfida non è ancora finita verso nuovi impieghi.
Leggo su di un sito di un’azienda del settore, che adopera ovviamente un comprensibile tono enfatico: “Se oggi usiamo la corrente elettrica per alimentare gli elettrodomestici, fornire luce e calore alle nostre case, mettere in moto macchinari più o meno complessi, è perché il grande fermento del 1800 ha portato a scoprirne innumerevoli applicazioni. Nessuna più importante di quella di Thomas Edison: la lampadina. Questa abbagliante invenzione vede la luce (letteralmente) nel 1879 e da quel momento il mondo non sarà più lo stesso. Lavoratori, studenti, scrittori, viaggiatori, medici e scienziati hanno un modo molto più semplice per svolgere le loro attività nelle ore serali rispetto alla lampada ad olio. Il mondo occidentale comincia a percepire di trovarsi sull’orlo di un precipizio: da quel momento in poi niente sarà più lo stesso. Tutti gli studiosi, da Tesla a Fleming a Einstein riconoscono l’importanza della scoperta della corrente elettrica e la useranno in tutti i loro esperimenti futuri. la corrente elettrica ha ancora tanto da dare al mondo, agli esseri umani e al pianeta”.
E ancora: “Le ricerche degli ultimi decenni si concentrano sull’invenzione dell’elettricità green, più sostenibile e meno inquinante rispetto a quella tradizionale. Questa, alimentata da fonti di energia rinnovabile come l’eolico, il fotovoltaico, l’energia da biomasse, è certamente il futuro della fornitura di corrente per milioni di persone in tutto il mondo. Le scoperte sull’energia sostenibile permetteranno di salvaguardare le risorse limitate del pianeta e usare fonti rinnovabili e inesauribili, consentendo un accesso all’energia più ampio e più sicuro per tutti”.
Intanto la crisi energetica, nella sua complessità, ci pone di fronte ad un inverno complicato e temibile, di cui ancora non si capiscono bene i tassi di gravità per le nostre tasche e per le implicazioni economiche e sociali più vaste. Certo l’occasione servirà per riflettere su alcune certezze e sulle priorità familiari e collettive.
Anche questa emergenza passerà e farà riflettere sulla stupidità della guerra che innesca guai e sofferenze. Ogni volta ci si illude che l’umanità ne apprenda le tristi conseguenze per poi purtroppo ritrovarsi di nuovo di fronte a scenari complessi e dolorosi.

L’interesse

La parola “interesse” è - scusate la banalità - interessante e, come capita spesso, ha caratteristiche double face, che fanno sì che nell’uso si presti ad utilizzi che paiono contraddittori.
L’inflazione galoppante fa impallidire chi - ed io sono fra questi - per via del costo del denaro un mutuo variabile e teme gli interessi crescenti che svuoteranno le tasche. Per altro “avere degli interessi” è generalmente riconosciuta come una chiave di volta per migliorare la propria vita e non stare chiusi in sé stessi. Ma “interesse” può avere anche un destino ancora più nobile di cui dirò.
Intanto dal sito “Una parola al giorno” ricordo l’etimologia dal latino: interesse essere in mezzo, partecipare, composto di inter tra esse essere. Così prosegue la spiegazione: “Una parola comune che solo la riflessione etimologica ci può chiarire in tutta la sua semplicissima portata: l’interesse è ciò che sta in mezzo. In che senso?
L’interesse è un legame, una giunzione che avvicina qualcuno a qualcosa o a qualcun altro. Simile ad arpione che aggancia e trae, simile a ponte che permette il passaggio, l’interesse è la variegatissima, inafferrabile cifra dell’unione fra io e tutto il mondo intorno, che invita alla partecipazione e al coinvolgimento. Senza interesse l’uomo resta un’autarchica e squallida torre d’avorio, capace solo di osservazioni distanti e distorte; l’uomo ricco di interessi è invece ben calato nella sua realtà, nodo solido di rete. Anche se non sempre questo interesse ci suona positivo: gli interessi dei politici, i conflitti di interessi ci riecheggiano furberie e tornaconti personali”.
Ah! Questa politica sempre a tinte scure. Cerco sempre di chiedere dei distinguo contro la banalizzazione e la richiesta di distinzioni per evitare il mucchio e che dalla torre vengano buttati giù tutti quelli che fanno politica, messi in un tutt’uno.
Invece l’evocazione di quella logica di stare assieme, di spalleggiarsi, di farsi forti di fronte agli eventi di ogni genere dovrebbe dare un senso a molte cose. Ci pensavo, sempre maniacalmente applicandolo a questa piccola Valle d’Aosta che trema di fronte agli scenari attuali che non confortano affatto, rispetto all’esistenza di una sorta di interesse superiore o, se preferite, interesse generale. Facile evocarlo, difficile farlo, ma indispensabile ragionarci.
In fondo niente di straordinario se non la speranza, che forse è illusoria, che si possa guardare in alto e mettere assieme le migliori energie per far fronte ai molti guai e alle legittime preoccupazioni. Questo fonda il valore di una comunità.
Diceva bene Erich Fromm: “La democrazia può resistere alla minaccia autoritaria soltanto a patto che si trasformi, da “democrazia di spettatori passivi”, in “democrazia di partecipanti attivi”, nella quale cioè i problemi della comunità siano familiari al singolo e per lui importanti quanto le sue faccende private”.
Vale per i singoli e a maggior ragione per le forze politiche.

Imperia svetta

Posso dire che io lo sapevo? Già, ma un conto è ragionare con il cuore e un altro con la testa, anche se la testa - sarebbe quel che ho capito - è un incrocio di vari dati trattati da un computer.
Mi riferisco ad una iniziativa del Corriere della Sera: ”Tredici indici per ognuno dei 108 capoluoghi di provincia italiani dal 2010 al 2021 rilevati più volte al giorno. Sommati insieme fanno oltre 10 milioni di dati. Questa enorme massa di numeri ha permesso a iLMeteo.it di stilare per il Corriere della Sera la classifica dove, sotto il profilo climatico, è più piacevole trascorrere le giornate”.
Io lo sapevo che aveva grandi possibilità una città che mi ha segnato da neonato sin oltre i vent’anni: Imperia, città natale di mia mamma Brunilde nella frazione di Castelvecchio. È questa la città prima sul podio.
Siamo nella Liguria di Ponente e fa sorridere pensare che queste sono le radici materne, mentre il mio bisnonno - che arrivò in Valle d’Aosta 150 anni fa all’incirca - veniva dalla Liguria di Levante, esattamente da Moneglia.
Così Imperia viene raccontata dalla Treccani: ”La città risulta dall’unione (1923) di Porto Maurizio e di Oneglia i cui centri storici distano circa 3 km e sono separati dal torrente Impero. Porto Maurizio è posto su un promontorio. Oneglia si è sviluppata sul piano alluvionale alla sinistra del torrente Impero. Con l’espansione urbanistica i due abitati si sono estesi lungo la strada che li unisce, fino a fondersi”.
Detto così capisco quanto sia freddo rispetto ai miei ricordi e alle mie emozioni, che vanno al di là dei soli luoghi e della straordinari
La storia è interessante: ”Nell’alto Medioevo sorse Porto Maurizio, feudo dei Clavesana, poi dei benedettini, che presto si eresse in libero Comune e nel 1276 divenne il capoluogo del vicariato della Liguria occidentale. Seguì un periodo di floridezza commerciale della città, occupata stabilmente dai Savoia nel 1815. Oneglia, preesistente, nell’alto Medioevo fu distrutta dai Saraceni (935) e ricostruita; feudo dei vescovi di Albenga (1100), appartenne ai Doria (1298-1576) e ai Savoia. Occupata nel 1792 dai Francesi, fu incorporata nella Repubblica Ligure (1801)”.
Come sono arrivati a questo risultato che premia la ”mia” Imperia e al 37esima posto - assai decoroso - per Aosta? Così sul Corriere: ”Siamo partiti da dati ora per ora del Centro meteo europeo (Ecmwf) lungo un periodo di dodici anni», spiega Mattia Gussoni, meteorologo de iLMeteo.it. In una nazione che si estende per quasi 1.300 chilometri da Nord a Sud, la variabilità climatica è molto elevata. Il nostro Paese vanta inoltre la catena montuosa più alta d’Europa ed è circondato su tre lati dal mare: una situazione complessa sotto il profilo meteorologico, una delle più variegate del continente. Ricavare una tabella significativa ha comportato un grande lavoro di analisi e bilanciamento tra tutti i vari indici che compongono l’insieme che va sotto il nome di clima. Non si è trattato quindi di prendere in considerazione solo i parametri meteorologici più comuni come temperatura media, umidità e vento, ma di assumere i dati in funzione della sensazione di benessere degli abitanti. Le classifiche vanno sempre lette avendo in mente il benessere climatico: in testa a quella dell’escursione termica ci sono le città con meno sbalzi di temperature, comandano quella dei giorni freddi le città con meno giorni sottozero. Sommando i valori il risultato è stata la classifica generale ».
E il peggio? Dice il Corriere: ”Degli ultimi 15 posti della classifica della vivibilità climatico, undici sono occupati da città situate nella Pianura Padana. Maglia nera Cremona con 366 punti. Milano, con il suo clima continentale, si trova all’89esimo posto, a conferma che la parte centrale della grande pianura del Nord — soprattutto lungo il corso del Po tra Emilia e Lombardia, a causa delle particolari condizioni geografiche che influenzano il clima — non è certo la migliore d’Italia sotto l’aspetto bioclimatico. Roma è in ultima posizione per quanto riguarda l’escursione termica media giornaliera annua con uno sbalzo di oltre 12 gradi: ci si deve vestire a cipolla, al mattino con un giubbotto e durante il giorno in t-shirt e pantaloncini corti, soprattutto in primavera e autunno.
Andando a guardare in profondità nei vari indici, si scoprono dati interessanti. Lecce è la località dove d’estate è più difficile dormire a causa delle «notti tropicali», che «per definizione internazionale sono quelle caratterizzate da temperature notturne sopra i 20 gradi», chiarisce Tedici. Udine e Pordenone sono le città più piovose (ai primi due posti per le classifiche riguardanti i giorni di pioggia e le piogge intense), con Como al terzo posto. Belluno è la città con maggiore nuvolosità diurna, Caserta la più soggetta alle ondate di calore. Lodi è invece la città più nebbiosa, in Pianura Padana umidità e la mancanza di vento sono una costante tutto l’anno. La più asciutta è la siciliana Ragusa”.
Farà sorridere questo insieme di dettagli, ma offrono una mappa da tenere da conto e Imperia svetta.

Gressani su Meloni

Fa piacere che nel mondo accademico, culturale e giornalistico francese spicchi - come una certezza attuale e futura - la figura di un giovane valdostano, Gilles Gressani, di cui ho già avuto modo di scrivere per le sue doti brillanti.
A poche ore dal voto in Italia ha scritto su Le Monde lcune sue riflessioni sul voto, che trovo originali rispetto a certe reazioni stereotipate lette e ascoltate.
Osserva Gressani: “La victoire nette de Giorgia Meloni et de son parti Fratelli d’Italia donne une majorité parlementaire absolue à une coalition dite de centre droit qui, malgré des fortes contradictions internes et des probables chocs externes, devrait gouverner l’Italie.
C’est un changement crucial à l’échelle continentale – il mérite d’être compris dans sa singularité, en se débarrassant d’une certaine condescendance qui accompagne, en ces heures, certaines analyses ainsi que d’un ton apocalyptique qui empêche de comprendre les perspectives et les risques bien réels de cette séquence. Il faut en effet se rappeler que l’Italie a même souvent révélé en avance les tendances profondes de la politique contemporaine européenne. S’il reste difficile de définir à chaud ce que sera la formule politique proposée par Giorgia Meloni – alors que les noms des personnes qui composeront le nouveau gouvernement ne sont pas encore connus –, on peut déjà formuler certaines hypothèses à partir de ce que fut la campagne électorale”.
Il carattere calmo e cartesiano mostra un metodo di partenza e la necessità di avere, come si dice in francese, la “tête froide”.
Così prosegue l’editoriale: “Giorgia Meloni est à la tête d’un parti qui s’inscrit dans une relation de filiation presque directe avec le principal parti néofasciste en Italie, le Mouvement social italien (MSI). On l’a vue, jeune militante, chanter les louanges de Mussolini ; encore aujourd’hui, dans son entourage et dans les rangs de son parti, on reconnaît de très nombreuses personnes « nostalgiques » du régime. Si tous ces éléments montrent la relation plus qu’ambiguë d’une partie de la droite italienne avec la mémoire du régime, il serait toutefois erroné de penser que c’est en proposant un retour au fascisme que Meloni a pu parvenir à imposer son hégémonie sur la droite italienne”.
Pensiero così articolato: “Cent ans après la marche sur Rome, l’histoire ne se répète ni en tragédie ni en farce. En réalité Mme Meloni n’incarne pas tout simplement le retour du fascisme, mais l’apparition d’une nouvelle formule politique que l’on pourrait désigner par le néologisme de « techno-souverainisme » : produit de la synthèse entre l’intégration des logiques technocratiques, l’acceptation du cadre géopolitique de l’Alliance atlantique et de sa dimension européenne, avec l’insistance sur des valeurs très conservatrices et des instances néonationalistes.
C’est un paradoxe qu’il faut noter. Tout en étant à la tête du principal parti au Parlement opposé au gouvernement de Mario Draghi, Giorgia Meloni a imprimé un tournant à la ligne de son parti : soutien à l’effort de guerre en Ukraine, alignement, au moins partiel, sur l’Europe. Ainsi une proposition qui reste plus à droite dans les valeurs et la culture politique a fini par paraître plus cohérente avec l’hypothèse du gouvernement sortant que celle de la Ligue de Matteo Salvini, le grand perdant de l’élection de ce dimanche.
Ce changement de cap est tactique et ambigu, en partie provoqué par le net avantage dans les sondages qui a permis à Giorgia Meloni de ne pas devoir faire une campagne électorale de rupture à l’intérieur et de s’adresser plutôt aux partenaires internationaux. On ne pourra apprécier la profondeur stratégique de cette réorientation que lorsqu’on mesurera son impact sur la composition du gouvernement, notamment la nomination au ministère-clé des finances”.
La prova che aspetta la Meloni è dimostrare che certo moderatismo annunciato corrisponda alla realtà è non sia un caso di travestimento per rassicurare gli elettori.
Qualche altro elemento: “Cela ne doit échapper à personne : Mme Meloni ne souhaite pas sortir de l’euro. Pourquoi ? La réponse la plus synthétique est fournie par le score du parti « Italexit » qui n’arrive pas à dépasser 1,9 % des voix. Grâce notamment à l’action de Mario Draghi – avec qui Mme Meloni semble avoir gardé des relations étroites –, la monnaie unique a fini par créer un sentiment d’appartenance, en définissant des limites nettes à toute initiative sérieuse de prise du pouvoir dans la deuxième puissance industrielle européenne. En installant dans l’électorat l’idée qu’il serait une forme de protection, l’euro a imposé un cadre même aux forces qui jusqu’alors contestaient l’ordre européen.
Cette dynamique n’est pas nouvelle. On constate depuis plusieurs années un effort, surtout rhétorique, de la part de l’extrême droite européenne pour se redéfinir autour d’un projet de valeurs civilisationnelles : ainsi l’idée du premier ministre hongrois Viktor Orban d’une « Europe blanche et chrétienne » capable de constituer une sorte d’internationale néonationaliste à l’échelle continentale pour changer le rapport de force et proposer une nouvelle « Europe des nations »
Mais si nous ne sommes pas dans l’Europe de 1922, nous ne sommes pas non plus dans l’Europe de 2019. La guerre en Ukraine a bousculé ce processus. Au niveau des représentations, elle a contribué à territorialiser une construction qui avait plutôt tendance à penser son action en termes géographiquement abstraits : marché, consommateurs, entreprises.
Selon le chef de la diplomatie européenne, elle a provoqué « le réveil géopolitique de l’Europe ». Avec le retour d’un conflit chaud, l’Union et les Etats membres traversent un « moment schmittien », caractérisé par l’apparition brutale d’un ennemi commun dans l’intensité politique maximale d’une guerre qui engendre le processus de construction d’une nation en Ukraine”.
Insomma, il quadro politico in Europa - ma lo è anche nel centrodestra italiano - resta confuso e in evoluzione di fronte alle emergenze varie.
Conclude Gressani: ”Cette politisation transforme l’aspect technocratique, parfois impolitique, de la construction européenne, en donnant un avantage potentiel à des formes néonationalistes. C’est précisément dans cette séquence qu’une hypothèse techno-souverainiste cohérente avec ce nouvel ordre continental pourrait voir le jour en Italie. Mais cela implique le renoncement aux propositions illibérales, souvent évoquées par Giorgia Meloni dans l’expression d’un néonationalisme à la Orban. Ce virage conservateur et libéral aurait un impact immédiat sur la crédibilité du gouvernement dirigé par Fratelli d’Italia.
Ce tournant italien pose en tout cas avec urgence la question d’une réponse structurée de la part de toutes les forces progressistes qui ne se limite pas aux incantations, mais qui sache s’inscrire sur un projet d’organisation du continent”.
Non sarà facile: attorno alla delimitazione di chi sia da considerarsi progressista, in assenza di patenti allo scopo, il dibattito si infiammerà facilmente.
Lo abbiamo già visto in Valle d’Aosta con l’uso improprio del termine "autonomista”, che ha allargato a dismisura e troppo spesso erroneamente gli….aventi diritto.

Il crollo dell’attenzione

Leggevo l’altro giorno, durate una ricerca sul Web di cui spiegherò le ragioni, della nostra decrescente capacità di attenzione e di concentrazione. La causa si nasconde nel rapporto che abbiamo sviluppato con la connettività e con lo strumento che la incarna: lo smartphone.
C’è chi evoca la scarsa durata dell’attenzione comparandola alla presunta memoria brevissima di un pesce rosso. Mi è venuto da ridere, pensando a come questa storia del pesce rosso sia una balla, ma ormai usata da tutti, me compreso. Cito una fonte scientifica: "Ciò che è we sconcertante è che è praticamente lo stesso ovunque tu vada nel mondo", ha dichiarato a LiveScience Culum Brown della Macquarie University in Australia. "In alcuni posti sono 2 secondi, in altri 10, ma è sempre breve". In realtà i pesci rossi (Carassius auratus) hanno memorie molto più lunghe, che durano diverse settimane e perfino anni.
Allora torniamo all’umano e alla nostra incapacità di seguire discorsi lunghi e di effettuare letture complesse, solo per fare due esempi. D’altra parte l’altro giorno sbirciavo mio figlio che guardava filmatini su Tik Tok e in maniera compulsiva passava da un post all’altro e se non avesse limiti di tempo nell’utilizzo potrebbe passare l’intera giornata con gli occhi sul telefonino. In fondo questo vale anche per me su Twitter con sguardi rapidi e si va avanti con la stessa logica. Mi accorgo, parlando spesso in pubblico, di come, mentre in passato i discorsi potevano essere lunghi se eri efficace, oggi puoi essere Demostene, ma passato un certo minutaggio scattano gli sbadigli o anche in prima fila gli astanti incominciano a consultare telefonini o tablet e addio interesse per quanto tu stai dicendo. Lo stesso vale per documenti corposi da consultare: conosco persone che, tipo Bignami del passato, si fanno fare dei riassuntini per evitare letture troppo lunghe.
Sino a un certo punto tutto è comprensibile, ma esiste un limite di guardia da considerarsi una vera e propria involuzione mentale, che ci obbliga all’attimo, ad un flash che finisce per privarci di contenuti. Se aggiungiamo a questo l’analfabetismo di ritorno di chi finisce per perdere certi rudimenti della propria istruzione e quello di andata e cioè di chi i rudimenti non li ha proprio acquisiti e non ha il problema di perderli, il patatrac sociale e culturale è assicurato.
Con il più piccolo dei miei figli cerco di essere persuasivo nel rimarcare come sarà pur vero che oggi nei motori di ricerca puoi trovare tutto lo scibile umano, ma se non hai strumenti e competenze tuoi sei destinato a prendere sonore cantonate e a non capire bene neppure quel che avrai scoperto con la sola consultazione. E’ in fondo questa la sfida del futuro: certi strumenti di comunicazione, che hanno fatto irruzione della nostra vita, ci possono rendere più performanti e maggiorare la nostra intelligenza oppure ci possono peggiorare e instupidire. Come sempre, in tutte le cose, bisogna trovare la giusta misura.
Viene in mente la saggezza di Orazio con il suo “Est modus in rebus”, che si può tradurre letteralmente con “esiste una misura nelle cose” ed è utilizzata quando si vuole mettere in guardia da ogni eccesso.

La traversata del deserto

Prepariamoci alla traversata del deserto (espressione arrivata all’italiano dal francese “traversée du desert”). L’immagine è suggerita dal racconto biblico del lungo viaggio attraverso il deserto compiuto dagli Ebrei dopo l’esodo dall’Egitto verso la terra promessa e che sta a significare nel lessico politico una fase di transizione fra due momenti storici o politici.
Chi mi conosce sa quanto io sia scettico sull’uso che è stato fatto attraverso la numerazione giornalistica della Repubblica italiana con la definizione di Prima, Seconda e persino Terza Repubblica, copiando i francesi che sono alla Quinta (V) Repubblica. In realtà quelli scandire Oltralpe ha significato perché ogni passaggio è avvenuto per modifiche costituzionali profonde, mentre nel caso italiano nulla di tutto questo è avvenuto.
Tuttavia l’elezione di Giorgia Meloni, frutto contemporaneo di una destra estrema con tinte neofasciste incancellabile nel DNA della fiamma tricolore del simbolo, è davvero una discontinuità e il sistema parlamentare - già minato dall’uso dei decreti legge, delle fiduce a raffica, della riduzione stupida dei parlamentari - potrebbe mutare in profondità con un presidenzialismo agognato dalla futura Presidente del Consiglio, che non fa mistero di logiche patriottarde che sono agli antipodi del federalismo.
Entrare su un terreno di riforme costituzionali, forse con l’uso già annunciato di una nuova Commissione Bicamerale, significa entrare per i valdostani in un deserto pieno di insidie. Infatti è evidente come mettere mano alla Carta fondamentale, avendo i numeri nelle Camere per far passare tutto in scioltezza, significa rischi seri per la nostra Autonomia speciale.
Già in questi anni abbiamo avuto brutte sorprese dai Governi Conte e da quello Draghi, la cui visione centralistica non è mai venuta mano, malgrado verte alleanze in Valle d’Aosta. Ora escalation rischia di diventare incontenibile e l’attività ordinaria della nostra Regione può finire nel mirino sino ad arrivare ad attentare alle radici stesso delle nostre istituzioni democratiche.
Non sono han Cassandra nel dire di queste mie preoccupazioni. Basta leggere il percorso politico della Meloni per capire che la sua impronta nazionalistica è nemica naturale di identità diverse qual è quella valdostana. E nel mirino ci siamo da tempo ed è inutile far finta di niente e fidarsi supinamente o aspettare gli eventi che verranno incrociando le dita.
Sarà bene attrezzarsi politicamente, giuridicamente e direi persino moralmente. Quest’ultimo punto potrà sembrare esagerato, ma non lo è affatto. In tempi complessi e di sfide difficili si vedono i caratteri delle persone e quella delle comunità, che devono dimostrare quanto valgono lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano ha scritto: “Ogni persona brilla di luce propria in mezzo a tutte le altre. Non esistono due fuochi uguali. Ci sono fuochi grandi e fuochi piccoli e fuochi di tutti i colori. C’è gente di fuoco sereno, che non si cura del vento, e gente di fuoco pazzo, che riempie l’aria di faville. Certi fuochi, fuochi sciocchi, non fanno lume né bruciano. Ma altri ardono la vita con tanta passione che non si può guardarli senza strizzare gli occhi; e chi si avvicina va in fiamme”.

Manes e Spelgatti in Parlamento

Confesso le mie colpe: solo questa mattina ho guardato l’esito del voto delle Politiche. Ho seguito moltissimo volte i riti degli exit poll (da quando ci sono!), spesso non proprio precisi, come capita anche con i sondaggi che li hanno preceduti. Mentre ho seguito sempre - specie quando ero in lizza e per le Politiche è avvenuto quattro volte - la tortura dello scrutinio dei voti. Per mia fortuna sempre risultando eletto, anche quando la lotta per il seggio appariva improba.
Questa volta appunto, pur svegliandomi presto, sono andato al sodo e cioè a quello che è successo davvero.
La vittoria alla Camera di Franco Manes restituisce con nettezza agli autonomisti la Camera dei deputati, mentre la leghista Nicoletta Spelgatti andrà al Senato per un pugno di voti. Una “incrociata”, come si dice in gergo politico, essendo espressione di due coalizioni contrapposte con Manes che ce la fa grazie ad un radicamento del mondo autonomista coeso e questo è un segnale per chi crede nella famosa réunion da ma sempre predicata, mentre la Spelgatti viene eletta nel momento in cui la “sua” Lega a Roma crolla ed è un caso dei paradosso della politica.
Ci vuole tempo per capire meglio la dinamica del voto, leggibile Comune per Comune, a differenza di quanto avviene con lo spoglio delle Regionali e certo l’astensionismo resta un dato enorme su cui riflettere.
Il sistema uninominale all’inglese è spietato: si può vincere o perdere per un solo voto di differenza. Certo questo si riverbererà sulla politica regionale alla ricerca di una maggioranza più solida, ma nulla va dato per scontato e soprattutto - per gli altri candidati in lizza - si chiaro che chi pensa di trasferire il bottino buono o cattivo sulle Regionali del 2025 sappia che certe traslazioni non valgono per la differenza evidente fra i sistemi di voto.
A Roma. Invece, su cui torneremo con calma nelle prossime ore, vince e questo inquieta per la nostra Autonomia speciale Giorgia Meloni, espressione della destra più estrema e questo si vedrà purtroppo nel corso della Legislatura. Merito suo e di un elettorato italiano che segue le sirene con grande facilità è colpa di un centrosinistra senza leader veri e con troppe contraddizioni nel suo seno. Per il resto tocca vedere le risultanze finali per capire bene gli equilibri dei rispettivi schieramenti.
In bocca al lupo ai neoeletti valdostani. Il loro compito di parlamentari della nostra Valle non sarà facile con lo scenario attuale delle Camere nel mare in tempesta che è facile prevedere per i problemi che incombono in questi anni complicati se non pericolosi.
Chi, come me, ha vissuto un lungo periodo da parlamentare sa quando il lavoro, se fatto seriamente, sia faticoso e impegnativo e la riduzione dei parlamentari pareva essere una chance per contare di più. Ma la nettezza dell’affermazione del centrodestra offre a Meloni la possibilità di riforme costituzionali in solitaria e questo preoccupa perché il nostro Statuto resta appeso alle procedure, fattesi troppo facili, del 138 della Costituzione che si applica alle leggi costituzionali e dunque che ci si attrezzi politicamente al rischio di incursioni pesanti sul nostro ordinamento.

La fragilità della democrazia

Scorro gli editoriali sui giornali delle ultime settimane. In fondo questo è rimasto un ruolo capitale della carta stampata: commentare fatti e situazioni. La televisione in Italia non é in grado di farlo perché gli opinionisti in TV partecipano a trasmissioni urlate e senza filo logico giusto per far spettacolo. Le persone serie non ci vanno più e per altro si preferisce invitare cafoni e urlatori nella considerazione che il pubblico televisivo sia un popolo bue che ama la caciara, gli insulti e le volgarità.
Per cui personalmente non seguo più i cosiddetti talk show e mi rifugio negli editoriali seri che per grazie di Dio vengono ancora pensati, scritti e pubblicati. Nello scorrere, come dicevo, quanto pubblicato di recente noto la supremazia assoluta dei commenti attorno alle odierne elezioni politiche.
L’impressione che ne ricaverebbe un alieno piombato sulla Terra che dimostrasse interesse per il fenomeno, anche se capisco quanto io osi in questa costruzione fantasiosa, è che gli italiani non abbiano più un vivo interesse per la politica e per la cosa pubblica nel suo insieme.
In realtà - e la Valle d’Aosta non è affatto estranea al fenomeno - mai come in questa occasione (e le urne tristemente lo dimostreranno) è esistito un evidente disinteresse se non fastidio per la politica. È un fenomeno inquietante di distrazione di massa - come ho scritto giorni fa - che si accompagna e che è alimentato da un crescente analfabetismo istituzionale.
Mi sono state poste - e uso la mia esperienza supporto di questa tesi - le domande più bizzarre, anche da persone insospettabili, sulla politica e sui meccanismi democratici che dimostrano una mancanza di base di principi basilari. Una delle grandi speranze della democrazia era quella che diventasse naturale avere sempre di fronte a sé cittadini non solo partecipi ma soprattutto formati e informati nel momento in debbono esprimere quel diritto cruciale che è il diritto di voto.
Invece, purtroppo e lo dico con rispetto e senza polemica, la morte dei partiti e di molte organizzazioni sociali, oltreché il disinteresse personale ad apprendere i rudimenti della democrazia, ha creato una specie di massa indeterminata che sceglie di disinteressarsi totalmente o diventa ondivaga, andando di qua e di là, perdendo punti di riferimento solidi e facendosi trascinare verso innamoramenti “politici” destinati a durare poco.
Per cui l’overdose di commenti, certo apprezzati da chi si interessa e ne capisce (e per fortuna ce ne sono!), finirebbe per stupire l’alieno osservatore esterno, perché niente affatto corrispondente alla realtà “popolare”.
Il da farsi, come reazione alla situazione di analfabetismo politico e istituzionale, non credo che sia semplice e viene il grave sospetto che per riconquistare cultura e consapevolezza della democrazia ci debba la messa in discussione verso certi diritti e capisaldi della democrazia stessa. Lo scrivo con inquietudine e sperando di essere smentito in un Paese, l’Italia, che ha già vissuto tempi cupi, certo non esattamente ripetibili, ma che mostrano come sia bene essere vigili. Nella speranza che a risvegliare impegno e coscienze non debbano essere attentati alla nostra democrazia, creatura fragilissima anche per l’uso poco consapevole di quella conquista capitale che fu il suffragio universale.

Il paese di Bengodi

Le campagne elettorali - e ne scrivo in modo generale, perché mi attengo al silenzio elettorale - sono per troppi candidati l’occasione per descrivere il paese di Bengodi, naturalmente se i cittadini li sceglieranno nella lotteria delle urne.
Treccani ci illumina su di un modo di dire che è usuale adoperare in uno logica di sfottò: “bengòdi (o Bengòdi) (composto di bene e godi) – Nome di un paese immaginario di delizie e di abbondanza: il paese di Bengodi; ha trovato il bengodi”.
Il grande Giovanni Boccaccio così lo descriveva: “In una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta ... correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi dentro gocciola d’acqua”
È normale che sia così: i candidati, nel proporsi ai cittadini, devono presentare le loro speranze e le loro promesse in quella sorta di patto. “Io ti dico le mie idee e i miei progetti e tu mi voti”: detto in modo rozzo funziona così e dunque diventa abbastanza naturale che chi ci sia - non tutti ovviamente! - una specie di asta al rialzo fra i competitori. Nel tempo resiste - almeno questa dovrebbe essere la regola - il politico che dimostra di avere avuto una ragionevole coerenza fra quanto annunciato al momento di chiedere il voto e quanto realmente ha fatto.
Ovviamente la descrizione di un Bengodi più o meno suggestivo cozza contro la realtà e in epoca di incertezze come l’attuale l’equilibrismo si fa ancora più azzardato.
La proiezione più importante riguarda sempre il futuro ed essendo l’avvenire indeterminato è di fatto come la tela bianca di un pittore su cui è più semplice, rispetto al presente, dipingere le proprie speranze. Trovo che in questo non ci sia nulla di male, ma credo che ci sia un’avvertenza da ricordare.
Bisogna a mio avviso diffidare di chi usa solo visioni prospettiche di questo Bengodi futuro senza le necessarie radici storiche. Una specie di nuovismo un po’ naïf che sarebbe come costruire una casa senza tenere conto delle necessarie fondamenta. Ogni proiezione su quello che verrà deve fare i conti con le condizioni di partenza, passato e presente, evitando l’esercizio retorico di chi - sentendosi uomo del destino - fa carne di porco di tutto quello che lo ha preceduto. Un’arroganza che non porta bene ed è ingiusta e manichea nella descrizione di un passato descritto come tutto oscuro e un futuro preconizzato come tutto roseo.
Ecco perché credo che in fondo il confronto politico diventi difficile se si applicasse sempre lo specchio distorsivo dei periodi elettorali in cui la ricerca del voto rischia di trasformarsi per alcuni nella ricerca di come spararla più grossa per abbacinare gli elettori. Purtroppo mi rendo conto che cresce il numero di chi in politica gioca a fare l’imbonitore a tempo pieno in una perenne fibrillazione alla ricerca del consenso e con cittadini visti solo come elettori da corteggiare.
Questo atteggiamento favorisce l’immobilismo, quando si vuole piacere a tutti in modo incondizionato e il viatico diventa “un colpo al cerchio ed uno alla botte”. Ecco perché bisogna essere cittadini-elettori con gli occhi sempre aperti e diffidenti verso certe sirene, affascinanti esseri dal corpo di uccello o di pesce e dal volto bellissimo di donna dal canto ammaliatore, che portano - se ci si casca - ad un triste destino.

Il Parlamento all’angolo

Si chiude a Mezzanotte la campagna elettorale. È questo il termine ufficiale, ma poi sappiamo bene che il silenzio elettorale sarà, specie sui Social, rumorosissimo. Dimostrazione che nella logica italiana “fatta la legge, trovato l’inganno”.
Tra poche ore conosceremo l’esito delle urne e vedremo soprattutto se esisterà una corrispondenza fra i sondaggi e i seggi come verranno realmente redistribuiti. Ma, al di là di tutto, è legittimo interrogarsi - come ha fatto giorni sul Corriere fa l’ottimo Sabino Cassese, giurista classe 1935 - sul ruolo decrescente del Parlamento. Lo dico con dispiacere avendo vissuto come parlamentari anni in cui le Assemblee elettive contavano ben di più!
Cassese, ricordata la follia della legge elettorale vigente, affonda la lama: “Il Parlamento-legislatore, in questo quinquennio, è stato pressoché assente: solo un quinto della legislazione è stato di iniziativa parlamentare e la metà degli atti con forza di legge è stata costituita da decreti-legge, cioè da provvedimenti governativi, che il Parlamento deve esaminare in tempi ristretti, perché dettati da necessità e urgenza. I numeri dell’attività legislativa del Parlamento diminuiscono ulteriormente se si considera che una buona parte delle altre leggi è costituita da atti «dovuti», quali le leggi di bilancio e quelle di ratifica di trattati internazionali. Inoltre, i governi hanno posto la questione di fiducia su decreti-legge 107 volte. A un governo la fiducia basterebbe, secondo la Costituzione, una volta sola, subito dopo la nomina. (…) Un numero così alto di questioni di fiducia è il sintomo di una disfunzione del sistema parlamentare: il governo funziona sempre meno come comitato direttivo della maggioranza parlamentare o non sa «negoziare» con la sua maggioranza, e deve quindi ricorrere alla questione di fiducia per far cessare le voci dissenzienti”.
Cassese apre un altro fronte: “Se le leggi le fa il governo, bisogna pur dare un contentino al Parlamento, lasciando che i parlamentari, ridotti a fare un mestiere diverso, gonfino i decreti-legge con disposizioni settoriali o microsettoriali, che rispondono alle richieste delle loro «constituencies» e preservano il loro potere negoziale.
Il quadro delle disfunzioni non termina qui. Si aggiungono altri protagonisti, i gabinetti ministeriali e le amministrazioni pubbliche. Questi si muovono in due diverse direzioni. Da un lato, cercano di spostare alla sede parlamentare decisioni che dovrebbero essere prese dalle burocrazie. Queste sono intimorite dalle originali e spesso eccessive iniziative di procure, penali e contabili, e mirano a trovare uno scudo nella legge (di conversione di decreti-legge). Dall’altro, anche le amministrazioni pubbliche sono composte da donne e uomini con le loro debolezze, aspirazioni, esigenze, e non è difficile per esse trovare una voce in uno o più parlamentari ben disposti”.
Una commistione inquietante, che si aggiunge ad una legislazione mediocre.
Auguri di cuore a chi verrà eletto nella circoscrizione in Valle d’Aosta e che i due parlamentari si battano per la dignità del Parlamento.

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