Le persone scomparse che restano

Ho più volte raccontato di come da bambino provassi disagio per le festività di inizio Novembre dedicate ai morti. Questa idea della morte con la quale è già difficile fare i conti a tutte le età, era nell’infanzia una specie di fantasma che mi turbava, applicandolo al pericolo che i miei genitori morissero d’improvviso.
Con il tempo impari che nella morte delle persone non esiste una regola e non c’è una giustizia che colpisca con chissà quale lucida razionalità. Le religioni offrono spiegazioni varie, ma preferiscono spostare la dimensione al dopo di noi e alla speranza ancorata alla fede che ci sarà un domani.
Viene in mente la famosa scommessa del filosofo Blaise Pascal. Secondo il suo ragionamento non si può giungere alla conoscenza dell'esistenza di Dio usando solo la ragione, dunque la cosa saggia da fare sarebbe vivere la nostra vita come se Dio esistesse, perché con una vita del genere noi avremmo tutto da guadagnare e nulla da perdere. Se vivessimo come se Dio esistesse, ed ovviamente per Pascal esiste, guadagneremmo il Cielo. Se non esistesse, non avremmo perso nulla. Se, d'altra parte, vivessimo come se Dio non esistesse, e invece esistesse davvero, allora guadagneremmo l'inferno e la punizione, e perderemmo il Cielo e la beatitudine. Se si soppesano le opzioni possibili, la scelta razionale di vivere come se Dio esistesse è, secondo il ragionamento di Pascal, chiaramente la migliore.
Quel che ne ho ricavato, sin da quando studiavo Filosofia al liceo e poi con qualche esame sulla materia all’Università con altri autori che si occupavano del mistero della vita e del suo contrario, è quanto sia difficile dominare certe questioni così complesse e alla fine ci si debba davvero affidare alla forza speculativa del pensiero umano nelle sue diverse forme. Scegliere una strada a cui credere fa tremare comunque la nostra razionalità di fronte a misteri come la morte.
Passati ormai tanti anni da quando ero bambino e finivo nel giro dei cimiteri, assisto a queste celebrazioni con la convinzione non ipocrita che le persone care, ma anche quelle che non lo sono state e che abbiamo incontrato nel bene e nel male, siano parte di noi.
Ha scritto Marcel Proust meglio di quanto potrei fare io: ”Le persone non muoiono immediatamente, ma rimangono immerse in una sorta di aura di vita che non ha alcuna relazione con la vera immortalità, ma attraverso le quali continuano ad occupare i nostri pensieri nello stesso modo di quando erano vivi”.
Certo esiste una specie di graduatoria, perché non tutte le persone scomparse sono uguali. Alcune tornano spesso nei pensieri, altre arrivano e se ne vanno attraverso un oggetto, un ricordo, un luogo. È una specie di cimitero dentro di noi, che non ha nulla di cupo, perché il tempo addolcisce le cose e smussa gli angoli.
Leggevo giorni fa un’intervista all’anziano regista Pupi Avati, che diceva: ”Sul computer ho una lista di 250 nomi di persone care che mi hanno lasciato: la sera li leggo tutti, li evoco, e li sento venire per aiutarmi a superare le mie angosce”.
Ammesso che sia vero, non so se sarei capace di farlo, mettendolo per scritto. È vero però che mi capita di pensare a Tizio o Sempronio in una sorta di memoria mentale che rievoca momenti della mia vita. Non sempre ciò avviene solo con persone cui ho voluto variamente bene, ma anche con chi ho disprezzato e con chi mi hanno fatto dei torti. La vita non è solo rosa e fiori e la livella,, come Trilussa chiamava l’ineluttabile fine che ci rende tutti uguali, colpisce anche chi meriterebbe solo il nostro oblio e invece torna anche lui nei ricordi che si affollano.
Questa sorta di caotiche presenze è comunque il segno che molti morti per noi restano presenze sino a che noi stessi non lo diventeremo per gli altri.

Macron e la scrittura inclusiva

La mia generazione è stata scossa dalle fondamenta quando è spuntato il fenomeno – ovviamente politicamente corretto – della scrittura inclusiva e cioè dei tentativi di affermare i diritti femminili, che nei testi scritti sarebbero frustrati dallo strapotere del maschile. Tema da affrontare e penso lo si debba fare, a differenza di certe scelte operate, senza stravolgimento della lingua.
Lo abbiamo visto con il genere femminile nelle professioni, che ha un suo perché, anche se poi emergono orrori come “Assessora” o “Direttora” (io sono giornalista e non rivendico giornalisto). Vi è poi la lotta al maschile sovresteso per cui bisogna salutare con “Ciao a tutti e a tutte” per essere equi.
Ma l’idea più balzana si evidenzia in questo elenco, che traggo dal sito Ilmiolibro:
“1) *, l’asterisco: da anni utilizzato soprattutto all’interno di collettivi studenteschi e gruppi socialmente attivi di sinistra. La realizzazione grafica è la seguente: “Car* Amic*”; “Compagn*”; ecc. La pronuncia non è però facilmente definibile, poiché trattandosi di un simbolo non rientra tra i suoni di nessuna delle lingue viventi.
2) @, la chiocciola: soluzione adottata soprattutto in Spagna (e bocciata dalla Real Accademia), ma anche abbastanza di frequente in Italia. La realizzazione grafica è di questo tipo: “Car@ Colleg@”, “Sono tutt@ invitat@”; ecc. Come l’asterisco, anche la @ non ha una sua realizzazione fonetica all’interno di una lingua, ad eccezione dell’at con cui la leggono gli anglofoni, che è comunque difficile da sostituirsi in una pronuncia italiana.
3) ǝ, la schwa: questa e rovesciata di cui si parla sempre più frequentemente permette delle realizzazioni grafiche piuttosto complicate, a causa della sua assenza, per ora, dalle tastiere qwerty e azerty. La realizzazione nello scritto è la seguente: “Signorǝ”; “Benvenutǝ”. A differenza degli altri simboli, la schwa, da sempre utilizzata negli studi linguistici per le trascrizioni fonetiche, ha una sua realizzazione a livello di pronuncia: ovvero un suono indistinto tra la a e la o (esattamente lo stesso fonema prodotto dalle parole troncate in napoletano, come “jammǝ”, “Napulǝ”, ecc.).
4) /, lo slash: al momento, è la soluzione più apprezzata nei testi ufficiali, sebbene all’interno di un testo letterario/saggistico o di un semplice articolo di giornale, genera una grandissima confusione a livello grafico. La realizzazione di questa opzione, infatti, produce risultati di questo tipo “Le/gli invitate/i”; “La/il bambina/o”, ecc. Lo stesso accade nella pronuncia, in cui si dovrebbe sostituire lo slash con o/oppure o ripetere il nome due volte modificandone la desinenza.
5) L’escamotage…ovvero il ricorso a formule alternative e gender-neutral per evitare di infliggere modifiche strutturali alla lingua. Ne sono un esempio l’utilizzo di forme non marcate in italiano come: “gente”, “persone”, “utenza”, ecc. Non si tratta di una vera e propria alternativa, dal momento che si tratta di formule già previste dall’italiano standard, ma richiede comunque un momento di riflessione preliminare per riuscire a eludere il vincolo della marca di genere”.
Ora, come una luce negli eccessi micragnosi che nulla hanno a che fare sull’indiscutibile parità uomo e donna (ma oggi dobbiamo anche a complicare le cose e cioè chi pone fra i due), si è espresso il Presidente francese, come riporta Le Monde: “Emmanuel Macron a appelé lundi 30 octobre à « ne pas céder aux airs du temps » s’agissant de la langue française, et à « garder aussi les fondements, les socles de sa grammaire, la force de sa syntaxe ». «Dans cette langue, le masculin fait le neutre. On n’a pas besoin d’y ajouter des points au milieu des mots, ou des tirets ou des choses pour la rendre lisible», a-t-il ajouté, assénant, lors d’un discours prononcé à l’occasion de l’inauguration de la Cité internationale de la langue française, à Villers-Cotterêts, que la langue française « forge la nation ».
 Le chef de l’Etat s’exprimait alors que l’interdiction de certains éléments de l’écriture inclusive fait l’objet d’une proposition de loi examinée au Sénat”.
In effetti il Senato, tratto dallo stesso giornale, ha votato il testo, come sintetizza France Info: “Les sénateurs ont adopté à 221 voix contre 82 une proposition de loi de la droite visant à "protéger" le français "des dérives de l'écriture dite inclusive". Elle prévoit de bannir cette pratique "dans tous les cas où le législateur (et éventuellement le pouvoir réglementaire) exige un document en français", comme les modes d'emploi, les contrats de travail, les règlements intérieurs d'entreprise. Sont également visés les actes juridiques, qui seraient alors considérés comme irrecevables ou nuls si le texte venait à devenir loi.
Le texte de la sénatrice Les Républicains Pascale Gruny interdit aussi les "mots grammaticaux" constituant des néologismes tels que "iel", une contraction de "il" et "elle", ou "celleux", contraction de "celles" et "ceux". "L'écriture inclusive affaiblit la langue française en la rendant illisible, imprononçable et impossible à enseigner", a martelé l'élue, soutenue par son collègue Etienne Blanc, dénonçant une "idéologie mortifère".
Ma il Governo francese non sembra del tutto convinto per un eccesso di severità della legge e la Sinistra francese – di questi tempi sotto scacco dell’ala estrema – protesta vibratamente. Ora toccherà affrontare il tema all’Assemblée Nationale, se la normativa sarà messa all’ordine del giorno.
Può essere che il Senato francese estremizzi, ma la logica sembra essere – in casi come questo - estremismo contro estremismo…
 

Sorridere con Halloween

Anche oggi, come capita ogni anno, ci dovremo sorbire le reprimende di chi non sopporta Halloween e fin lì tutto legittimo, perché nessuno obbliga nessuno a giocare ai travestimenti mostruosi, alle zucche illuminate, alle ragnatele sospese e ai pipistrelli che volano.
Diverso, invece, è chi usa l’occasione per spiegare ai bambini che Halloween non va bene e che anzi si finisce per svilire la celebrazione dei Morti ricordata dal cristianesimo che, non a caso, si svolge nel medesimo periodo. Diamo per scontato, prima dia parlarne, almeno due cose. La prima: indubbio che Halloween è avvolta da una forte cappa di interessi commerciali, che avvolgono per altro qualunque altra occasione o festività e perciò meglio non fare gli schizzinosi. La seconda: non è colpevolizzando bambini e genitori che si fa un’operazione valida per ricordare le proprie tradizioni da rispettare, che è altro argomento.
Ha scritto Elisa Belotti su Thesubmarine: “L’accusa principale che viene rivolta ad Halloween è di essere una festa estranea alla tradizione cattolica italiana. Ma c’è chi si spinge più in là e le associa al satanismo, basandosi sulla convinzione che i costumi utilizzati e i simboli legati alla morte avvicinino a un presunto elemento demoniaco. Si giunge addirittura a paventare “conseguenze anche gravi sul piano spirituale, ma anche sul piano dell’integrità psicofisica” dovute al contatto con il mondo dell’occultismo, come sostiene padre Francesco Bamonte, presidente dell’Associazione Internazionale Esorcisti.
Mi pare un eccesso, pensando alle brutture che il mondo contiene, senza l’ombra di un sorriso: “In realtà il nome stesso di Halloween mostra un lato spirituale comune al cristianesimo. Hallow e-en è infatti la forma contratta di All Hallows Even, cioè vigilia di Tutti i Santi. “Infatti, originariamente era celebrata in primavera,” specifica la teologa Sandra Letizia, “la festività di Tutti i Santi fu probabilmente spostata al primo giorno di novembre per facilitare la conversione dei pagani che vivevano nell’attuale Regno Unito e che in quel periodo dell’anno celebravano il capodanno Celtico, Samhain — letteralmente “fine dell’estate.” In origine si trattava quindi di una festività celtica che segnava la conclusione dell’estate e rimarcava il movimento ciclico in cui alla vita, simboleggiata dal rigoglio di una stagione, segue la morte”.
Ben sappiamo come il nostro cattolicesimo abbia fatto la scelta vincente di impastare la propria dottrina, appoggiandosi anche su usi, costumi e tradizioni preesistenti e lo ricordo come elemento positivo.
Scrive don Andrea Lonardo, direttore dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma: «I cristiani – grandi maestri della gioia e del festeggiare – inventarono la festa dei santi (e la commemorazione dei morti) per celebrare il fatto che la morte era vinta e che il duro male era ormai sconfitto. Di questo dobbiamo parlare ai bambini, spiegando il nome Halloween». Prosegue don Lonardo, «i celti cattolici (gli antichi irlandesi) iniziarono a celebrare l’illuminazione della notte, le zucche che mettevano in fuga il male, il cielo che visitava la terra, i dolcetti che i morti portavano ai loro discendenti come segno del loro amore sempre presente e della loro intercessioni per i loro cari presso Dio, la sconfitta del male»
Il frate scrittore Alberto Maggi aggiunge: “Perché i super cattolici hanno paura del riso? Per costoro, che indubbiamente vivono una loro spiritualità, questa s’intende come qualcosa contrapposta al corpo, alla carnalità, alla materia, qualcosa che entra in conflitto con la felicità umana, quasi che per essere spirituali occorra rinnegare una parte importante ed essenziale della propria vita, quella dei sensi e del piacere. La spiritualità per costoro sembra relegata al mondo dello spirito e non della materia, del divino e non dell’umano, del religioso e non del profano, dell’eterno e non del temporale”.
Insomma: essere tolleranti vuol dire anche capire il successo di Halloween non vivendolo “contro”.

L’ultimo e decisivo tratto

Ora mi auguro che la parte finale non si dimostri inutilmente lunga. Come scelta annunciata, in questi ultimi periodi, non ho più scritto della ormai celeberrima “réunification” (so che il termine non piace a tutti, ma ha almeno il pregio di dire che cosa si vorrebbe fare).
Questo sacrificio da parte mia, che amo dire pane e pane e vino al vino e ritengo che la chiarezza anche brusca resti un pregio, l’ho fatto dopo aver notato un rallentamento e certe curve inutili in una vicenda naturale, che mi pareva semplice nella sua necessità.
Ho sempre rispettato dubbi e mal di pancia di chi chiedeva tempo e pazienza e lo faceva per saggezza del tipo “La gatta frettolosa fa i gattini ciechi”. Ho apprezzato meno chi manifestava perplessità più barocche e meno propositive, ma ci sta anche questo in politica, dove la razionalità si mischia legittimamente a sentimenti, passioni e ambizioni, che la rendono - come la boxe e per chi è onesto - una “noble art”.
Ora spero che, chiusa positivamente l’assise unionista, si entri con l’apposita Commissione e giusto impegno verso il pilotaggio dell’ultima fase, che mi auguro si esaurisca in tempi rapidi, perché ora il tempo stringe e ogni forma di decantazione sarebbe inutile, quando il solco è stato tracciato.
Il mondo gira vorticosamente e ci aspettano in questo mondo cui apparteniamo più burrasche che cieli azzurri, per cui bisogna agire. So bene che c’è chi vorrebbe derubricare a poca roba gli sforzi nobili del mondo autonomista nel ricomporre il puzzle attuale. Non sono affatto “baruffe chiozzotte” come da celebre titolo di una commedia scritta da Carlo Goldoni, che è diventato modo di dire. Si tratta di insinuazioni da parte di chi non ci ama e alimenta polemiche pretestuose e qualcuno ci casca. Milito personalmente fra coloro che pensano che non esistano alternative allo stare assieme in un solo movimento autonomista. Questo movimento non può che essere per ragioni storiche e di buonsenso l’Union Valdôtaine, specie per chi anche andando altrove era - e io mi sento fra questi - rimasto saldamente sul terreno autonomista o meglio federalista. Per cui non mi sono mai sentito per così dire un “fuoriuscito”, che da vocabolario è chi - termine nobile ai tempi del Risorgimento e della Resistenza - si trova a dover scappare all’estero per motivi politici dal Paese di appartenenza.
Ma tutto questo ormai è passato e abbiamo nuove tappe davanti. Le divisioni vanno sepolte e l’unità di intenti è ovviamente temuta dai molti nemici esterni ed interni che ci combattono, perché non credono al valore della nostra Autonomia e alla forza della nostra identità, come ben visibile dai loro comportamenti e da un uso della politica dalla logica inquisitoria e giudiziaria, mai di quella propositiva e di confronto.
Bisogna rimettersi assieme, guardare avanti e questo non vuol dire rinnegare la storia di ciascuno di noi e non riconoscere torti e ragioni, senza indugiare. Le vicende politiche e personali vissute, ormai dietro le spalle. Esiste ormai un interesse comune che dev’essere il collante per difendere la Valle d’Aosta e motivare la nostra comunità di cui siamo espressione per una guida sicura verso il futuro.
Troppi incapaci e dilettanti che vedo in giro aspettano di prendere in mano al posto nostro la Valle per spingerla verso il baratro di una normalizzazione politica nei ranghi della confusa partitocrazia italiana.
Non dobbiamo consentire che ciò avvenga e per questo bisogna lavorare per il futuro. Un disegno coerente, che parte dal lavoro fatto e da dossier delicati da affrontare, che metta assieme le migliori energie della piccola comunità valdostana con una sfida immediata. Si tratta di sconfiggere la mancata partecipazione che si manifesta non solo con l’affermazione dell’astensionismo al voto, ma anche con una crisi più generale della democrazia e dell’impegno civile che può essere letale per un piccolo popolo come quello valdostano (non ripeto nulla sulla letale crisi demografica). Uscire dal proprio particolare e partecipare ad un dibattito sulle mille cose da fare è una grande e difficile ambizione o meglio una grande speranza per un Movimento autonomista pluralista e intergenerazionale. Già oggi, più che mai, bisogna capire che cosa sarà di tutti noi.

A colpi di sbadiglio

A pensare agli sbadigli mi vien da sbadigliare. E devo farci attenzione, pensando a che cosa ha scritto Willy Pasini: “ I nostri antenati cresciuti nella civiltà contadina tiravano in ballo il diavolo anche quando sbadigliavano: originariamente, la mano veniva messa davanti alla bocca non per una questione di galateo ma per impedire al diavolo di entrare dentro al corpo”.
Quando un altro sbadiglia so bene che esiste un meccanismo contagioso. Dice a proposito Malcom Gladwell: ”Sbadigliare è incredibilmente contagioso. Ho fatto sbadigliare alcuni di voi che stavano leggendo queste parole semplicemente scrivendo la parola «sbadiglio»”.
Ho visto gatti sbadigliare con delle smorfie imperdibili. E saggiamente Pietro Citati osserva” Se la nostra buona educazione ci insegna a non sbadigliare, la sua buona educazione del gatto gli ha appreso che, quando arriva il sonno (non bisogna mai allontanarlo), dobbiamo accoglierlo con precisione, stringere gli occhi fino a ridurli a una fessura, sbadigliare a gola aperta, distendere le membra stanche”.
Leggo su Internazionale Lena Toschke del tedesco Die Zeit, che così racconta: ”Sbadigliamo una decina di volte al giorno, ognuna delle quali dura in media sei secondi. In totale ammonterebbe a un minuto di sbadigli al giorno, ma di solito succede solo quando siamo stanchi o annoiati. Cominciamo a farlo già nel grembo materno, come ha dimostrato uno studio olandese.
Lo sbadiglio si può suddividere in tre fasi, dice Ulrich Gößler, otorinolaringoiatra e medico del sonno: “Una lunga fase di inspirazione, un breve momento apicale e una corta fase espiratoria”. Per riflesso spalanchiamo la bocca e inspiriamo profondamente, e nel frattempo tendiamo la muscolatura facciale. Gli occhi possono lacrimare, e a causa della chiusura delle trombe di Eustachio, che collegano l’orecchio medio alla rinofaringe, il nostro udito peggiora per un attimo. Dal punto di vista evoluzionistico lo sbadiglio sembra svantaggioso, dato che tra l’altro risulta poco attraente. Allora perché lo facciamo?”.
Già, ce lo siamo chiesti tutti. Così prosegue l’articolo: “Nell’antica Grecia, Ippocrate suppose che sbadigliando i polmoni espellono “l’aria cattiva” (cioè l’anidride carbonica). Dal punto di vista fisiologico è vero. Ma la tesi secondo cui lo scopo dello sbadiglio sia aumentare la quantità di ossigeno nel sangue è stata confutata dal neuropsicologo Robert Provine nel 1987. Provine fece respirare a un campione di persone aria con un alto tasso di anidride carbonica e aria normale, confrontando poi la frequenza degli sbadigli. Risultò che i soggetti respiravano più velocemente, ma non sbadigliavano più spesso”.
Fuori una prima ricostruzione del perché e dunque: ”Secondo un’altra teoria sbadigliare ci aiuterebbe a rimanere vigili. Adrian Guggisberg, neurologo dell’Inselspital di Berna, in Svizzera, l’ha messa alla prova misurando i flussi cerebrali di alcune persone che sedevano in una stanza buia. “Più i soggetti erano stanchi, più onde delta apparivano nei loro encefalogrammi – e più frequentemente sbadigliavano. Ma le onde delta rimanevano costanti anche dopo gli sbadigli”, dice. Cosa succede esattamente nel cervello quando sbadigliamo è ancora oggi poco chiaro.
“È una complessa interazione tra diverse regioni del cervello”, dice Guggisberg. “Si ritiene che l’esecuzione motoria dello sbadiglio sia diretta dal tronco encefalico”. Ma sarebbero coinvolte anche l’ipofisi e l’ipotalamo. Quest’ultimo produce l’ossitocina, l’ormone associato all’affettività, che viene immagazzinata nell’ipofisi e che come la dopamina ha scatenato degli sbadigli negli esperimenti con i ratti. Quindi lo sbadiglio ha una funzione sociale?”.
Mamma mia, sbadigliano anche i topi e non solo i gatti e già avevo visto anche cani e leoni.
La strada sembra giusta e la Toschke scrive: ”Probabilmente sì, dice Guggisberg: per questo è contagioso. “Quando vediamo qualcuno sbadigliare, i lobi frontali e temporali del nostro cervello si attivano. Sono le stesse aree responsabili dell’empatia”. Gli studi hanno dimostrato che le persone più empatiche sono contagiate più facilmente dagli sbadigli degli altri. I pazienti autistici e schizofrenici, invece, lo sono meno”.
Ma eccoci alla fine: “Forse la teoria più sorprendente viene da Andrew Gallup, professore di psicobiologia alla State university di New York: “Abbiamo scoperto che sbadigliare abbassa la temperatura del cervello, e che più l’ambiente circostante è caldo, più spesso sbadigliamo”. Gallup ha studiato la durata dello sbadiglio di più di cento specie di mammiferi e uccelli. “C’è una correlazione molto evidente tra la durata dello sbadiglio di un animale e le dimensioni e la complessità del suo cervello”. Gli animali con cervelli più grandi devono sbadigliare più a lungo per rinfrescare il loro cervello, ipotizza lo scienziato.
Non è ancora stata detta l’ultima parola sugli sbadigli. Ma se Gallup ha ragione, allora con il cambiamento climatico e le ondate di calore dovremmo anche sbadigliare di più. E succederà soprattutto ai capodogli”
Mai ho visto sbadigliare un capodoglio, ma temo dunque che sbadiglieremo di più per il maledetto cambiamento climatico...

L’umorismo è salutare

Credo che l’espressione inglese “sense of humour”, da quel che ho capito, ha una profondità maggiore della sua semplice traduzione in italiano con “senso dell’umorismo”. Penso che sia un modo di essere, un “esprit”, come si direbbe in francese, nell’esprimere un’innata vivacità.
Immagino di avere ereditato questo aspetto caratteriale da mio papà e dai suoi fratelli e da una delle sue sorelle e dunque dovrebbe essere qualcosa di impresso, malgré moi. Lo dico perché ricordo quegli incontri fra di loro in cui aleggiava questo umorismo fatto di battute, racconti scherzosi, reciproche prese in giro. Se sorridere, come dice chi studia questo aspetto dell’animo umano, fa bene, allora loro ne erano bravi interpreti e me lo hanno trasmesso e io me lo tengo stretto.
A me è sempre piaciuto far sorridere e pure ridere. Un po’ per questo indubbio aspetto familiare, un po’ per una vena esibizionistica che forse è un modo per nascondere - quando lo dico non ci crede nessuno - una vena di timidezza. Ricordo di aver capito sin da ragazzino, quando ci si trovava in una nuova compagnia, come per rompere il ghiaccio e evitare gli imbarazzi l’ideale era scherzare. Mio papà lo faceva con un uso sagace delle barzellette che non so da dove pigliasse, mentre a me piace la battuta istantanea e giocare con gli altri a quella invenzione giocosa tra amici che sono i tormentoni, cioè quelle battute ripetute in modo ossessivo che cementano le compagnie.
A cosa serva l’umorismo non si sa bene. Su questi tempi verrebbe da ricordare cosa diceva Amos Oz scrittore e saggista israeliano che ha scritto molto sui rapporti arabo-israeliani: “Non ho mai visto un fanatico religioso avere senso dell’umorismo. Né una persona con senso dell’umorismo diventare un fanatico”.
Ho sempre provato ammirazione per gli ebrei proprio per l’autoironia che sa trasformare anche le disgrazie in un motto di spirito, anche se anche loro i loro fanatici ce li hanno…
Da bambino, se ci penso, ridevo grazie a mio papà ogni volta che montava nel salotto buono l’apparecchio per vedere i filmini e scorrevano senza suono cartoni animati e l’impagabile Charlot. Proprio Charlie Chaplin - con il suo ridere per pensare attraverso il suo goffo e lunare personaggio - diceva:
“Attraverso l’umorismo noi vediamo in ciò che sembra razionale, l’irrazionale; in ciò che sembra importante, il non importante”.
Ecco perché, quando parlo in pubblico anche di argomenti importanti, credo non solo per tecnica oratoria cerco di strappare un sorriso, perché alleggerisce e riporta viva l’attenzione. Ci pensavo al sorriso come elemento per mettersi al centro, quando da papà imbranato avevo i miei figli neonati in braccio che sapevano conquistarti con quei loro sorrisi che ti liquefano e riempiono il cuore.
Ha scritto Marc Levy: “Se tutti lo facessero anche solo una volta al giorno, regalare un sorriso, immagina che incredibile contagio di buon umore si espanderebbe sulla terra”.
Invece, purtroppo, è pieno di musoni con l’espressione di uno Smile corrucciato e di persone che si prendono troppo sul serio.
Oggi, però, i grandi nemici dell’umorismo - e lo dicono tanti comici - sono gli ayatollah del politicamente corretto, pronti a bacchettarti se scherzi o ironizzi su molti argomenti, diventati tabù perché avvolti da una sacralità, che ricorda il celebre motto “scherza con i fanti, ma lascia stare i Santi”. Non sopporto questi censori che trasformano una burla o un battuta in un reato. Che imparino a ridere di tutto, compresi sé stessi.

Troppo facile dire “Pace”

Credo che sia capitato a tutti, durante una funzione religiosa, di essere in imbarazzo quando l’officiante dice: “Scambiatevi un segno di pace”, se vi trovate a fianco di qualcuno che - per valide ragioni - non sopportate e vi trovate a stringere la sua con un sorriso di circostanza.
L’immagine credo che sia la fotografia del rischio ipocrisia sul tema ben più grande e come non mai attuale con scenari di guerra vividi del tema “Pace”. Vedo i “pacifinti” (neologismo suggestivo) in certe piazze italiane che invocano la Pace, inneggiando alla morte degli israeliani, brandendo bandiere palestinesi nel nome impronunciabile di Hamas. In Francia in manifestazioni arabe si grida “Allah Akbar” e il senso del suo utilizzo è da ricercare nell’affermazione "Allah è il più grande" con quell’uso politico della religione i cui orrori sono tangibili nelle teocrazie afgana o iraniana, ma pure nella deriva turca.
L’umanità dimostra ipocrisia nelle invocazioni di Pace e poi la dose di violenza e conflittualità sale di grado dall’assemblea condominiale sino alla minaccia delle bombe atomiche con i dispositivi di comando nella valigetta di un tipetto fuori controllo come Putin e con le follie belliche di un Kim Jong-un, che affama il suo popolo.
Allora sia chiaro che il pacifismo ideologico e di facciata, usato da chi lo usa in modo spregiudicato, diventa un pericolo per la democrazia e stupisce che ci sia una parte significativa della Sinistra che ormai ha perso la trebisonda in analogia con l’equivalente a Destra.
Già la democrazia, metodo di governo pieno di difetti e di manchevolezze, che diventa alla fin dei conti il punto di caduta di molte discussioni attuali. Non ci si rende conto, nella mente di chi predica pace in modo strumentale, che certi appelli alla Pace finiscono per essere a vantaggio dei troppi “cattivi”, dittatori e terroristi, che in questi tempi stanno facendo sistema, come fosse una ragnatela intrisa di disvalori e violenze? Forse il pacifismo che rallentò le democrazie nella reazione contro l’espansionismo nazista non è stata una lezione? Come diavolo si fa ad avere dubbi sull’aiuto militare agli ucraini minacciati da una Russia che, con effetto domino, non vede l’ora di riconquistare Paesi liberati dal comunismo (pudicamente definito socialismo reale…)? Da dove viene questa tolleranza per neofascisti e neonazisti che si esibiscono nel nome grottesco della libertà di manifestazione delle proprie idee, quella libertà che non vedono l’ora di abolire? Come mai nel nome del business accettiamo supinamente che la Cina perseguiti le proprie minoranze e soffochi nelle galere le richieste della popolazione di Hong Kong?
Allora più che alle manifestazioni di piazza stucchevoli se non ipocrite credo che sia il momento per riflettere sulla democrazia e l’assalto che subisce per colpe nostre e dei suoi nemici.
Dei nemici ho già in parte detto nelle domande retoriche appena fatte e di sicuro l’elenco è incompleto e ognuno potrebbe aggiungere quanto ho dimenticato in quegli equilibri del politicamente corretto cui ci siamo assuefatti pure supinamente con scemenze tipo la cancel culture, che vorrebbe riscrivere la Storia.
Invece sulle responsabilità nostre esiste un’evidenza che pare essere un’inezia: il voto, espressione massima di partecipazione, non è più ritenuto utile.
Basta scorrere le cifre crescenti dell’astensionismo per capire la situazione e la disaffezione la si vede anche in partiti ridotti al lumicino. Chi non crede nella democrazia è su questo humus che costruisce svolte autoritarie in un mondo dove - lo dicono i dati - a vincere in questo momento sono i regimi autoritari di diversa fatta, che si espandono come la gramigna.

Gelosia e invidia

Spesso nel linguaggio comune si confondono due sentimenti diversi: gelosia e invidia. Invece, esistono differenze nella sostanza e dunque nell’uso delle due parole bisogna avere la giusta attenzione.
Spiega chi studia il fenomeno che permea i rapporti umani: la gelosia nasce nei rapporti affettivi quando si ha il timore di perdere l’esclusività o la totalità di un rapporto personale; l’invidia nasce da una percezione di inferiorità e mancanza nei confronti di qualcuno, ed è spesso accompagnata da desiderio di danneggiarlo.
L’etimologia ci racconta sempre molto e traggo da Etimologico.
L’aggettivo zelōsus ‘geloso’ ha preso il sign. proprio del latino ecclesiastico zelōtēs -ae come attributo di Dio (greco zēlōtḗs), in quanto egli non può ammettere che si ami qualcun altro più di lui. Il derivato gelosia è stato usato in senso traslato per indicare un graticcio alla finestra o uno sportello alla persiana, che permetta a chi si trova all’interno di vedere al di fuori senza essere riconosciuto, in quanto schermo posto da un marito o un padre geloso alle donne della propria casa. Chi ha visitato un harem sa che cosa significa…
Eccoci a invidia, che viene dal latino invĭdĭa, der. di invĭdēre ‘invidiare’, che si lega al gettare il malocchio; guardare con occhio malevolo’, da vĭdēre ‘vedere’ con il prefisso in. Vien da ridere a pensare a chi, anche nella politica valdostana, ha giocato con la magia nera, purtroppo credendoci.
Mi chiedevo - e per questo ne scrivo - se è in che modo mi rapporto a questi meccanismi così umani, che ci turbano creando emozioni forti e muovono i nostri comportamenti.
Premetto due pensieri più elevati delle mie riflessioni.
Sulla gelosia ha scritto Miguel de Cervantes: “Se la gelosia è un segnale d’amore, è come la febbre dell’ammalato, per il quale averla è un segnale di vita, ma di una vita malata e mal disposta”.
Sull’invidia ha detto Francesco Alberoni: “L’invidia è il sentimento che noi proviamo quando qualcuno, che noi consideriamo del nostro stesso valore ci sorpassa, ottiene l’ammirazione altrui. Allora abbiamo l’impressione di una profonda ingiustizia nel mondo. Cerchiamo di convincerci che non lo merita, facciamo di tutto per trascinarlo al nostro stesso livello, di svalutarlo; ne parliamo male, lo critichiamo. Ma se la società continua ad innalzarlo, ci rodiamo di collera e, nello stesso tempo, siamo presi dal dubbio. Perché non siamo sicuri di essere nel giusto. Per questo ci vergogniamo di essere invidiosi. E, soprattutto, di essere additati come persone invidiose. In termini psicologici potremmo dire che l’invidia è un tentativo un po’ maldestro di recuperare la fiducia e la stima in sé stessi, impedendo la caduta del proprio valore attraverso la svalutazione dell’altro”.
Sulla gelosia devo ammetterlo di averla avuto ed è in fondo un abisso nel quale bisogna evitare di caderci, perché il rischio è che finisca per autoalimentarsi. L’unico vero appiglio, come un chiodo forte cui mettere il nostro moschettone, è la fiducia, che è sempre un fragile azzardo, ma è segno di maturità per evitare di rodersi.
Sull’invidia devo dire con grande franchezza che non mi appartiene. Anzi, nel giornalismo e nella politica, ho sempre guardato a chi consideravo più capace di me come modello cui rubare quel che potevo delle sue capacità. Mi è servito molto questo esercizio salutare, che non finisce mai. Meglio l’ammirazione che l’invidia.

La tenerezza per gli Alpini

Non ho fatto il militare. Ricordo quei giorni della visita di leva da coscritto a Torino in quel gigantesco distretto militare, dove sfilavamo in mutande per la fatidica visita medica. Mi ero appena spaccato un ginocchio malamente sugli sci e così vagai per giorni nell’Ospedale militare per le visite e fu risolutiva l’atrografia (antesignana dei metodi diagnostici moderni), che diede lo stato oggettivo del mio infortunio.
Mi vedo come ora seduto nella sala d’aspetto del Direttore. Chiamato bruscamente entrai. Lui neanche mi guardò e bofonchiò: ”Abile, arruolato!”. Scoprii più tardi che era una burla che spesso faceva, perché in realtà ero stato fatto rivedibile. Qualche tempo dopo, ricevetti il congedo per eccesso di leva o qualcosa del genere. Vale a dire che c’erano più candidati che posti e dunque niente militare.
Per cui i miei rapporti con le Forze Armate, a differenza dei miei coetanei, sono sempre stati solo professionali, da giornalista e da politico.
Da giornalista realizzai molti reportage in una Valle d’Aosta con una presenza enorme di alpini che si aggiravano per Aosta in libera uscita e con molte occasioni ufficiali, come i giuramenti con piazze d’armi colme di ragazzi e genitori. Da politico partecipai a tante manifestazioni e mi occupai anche di giovani valdostani che finivano chissà dove a far la leva e che volevano rientrare per essere alpini, come da vocazione naturale e familiare. Vissi anche quegli anni alla Camera, difendendo nelle audizioni in Commissione, spiegando il ruolo delle Truppe alpine in epoche in cui gli Alti Comandi antipatizzavano con le Penne nere. Le missioni all’estero, in scenari montani tipo Afganistan, mostrarono la bontà di soldati apprezzati anche dalla NATO.
Molto è cambiato in questi anni e non a caso seguii la cessione alla Regione della Caserma Testa Fochi, dove si sta ultimando la sede dell’Università e questo è stato il segno tangibile della fine della leva obbligatoria. La trasformazione della storica Scuola Militare Alpina in Centro di addestramento fu un vulnus, come l’ineluttabile riduzione della presenza degli alpini in servizio solo in parte compensata da chi viene in Valle per la formazione alla montagna. La base elicotteristica di Pollein, modernizzata con fondi regionali, mi dicono sia adoperata poco. L’asse decisionale dei comandi alpini ormai è radicato nel Nord-Est.
Eppure gli alpini - con la rete fitta dell’Associazione Nazionale Alpini - non demordono nei nostri territori nel solco di una tradizione gioiosa (si è alpini per sempre, come mostrano le adunate nazionali e lo spirito di corpo) e luttuosa (la strage di alpini nelle guerre mondiali va tenuta sempre in memoria con le responsabilità di chi spesso li mandò a morire).
Guardavo domenica sfilare in Piazza Chanoux gli alpini nostri con quelli piemontesi e liguri e quella logica corale coinvolgente fra bande, cori, bandiere e labari. Mi ha colpito un’intervista del Presidente valdostano, Carlo Bionaz, in cui ricorda il segno due cose. I “veci” presenti sono il segno di generazioni che hanno vissuto il periodo da militare come momento di formazione, pur non essendo sempre rosa e fiori (il nonnismo esisteva) e costando un annetto della propria vita. La seconda osservazione è che gli alpini, ormai inquadrati in un esercito professionale, fanno sì che i più giovani a sfilare di leva siano 45enni e saranno gli ultimi a estinguersi in quella visione di esercito popolare. La tradizione come l’attuale, fatta di enormi raduni e di grande ramificazione nel Nord con una protezione civile sempre pronta, sparirà.
Una triste constatazione, certo figlia dei tempi, che domenica mi dava - nel vedere sfilare tanti miei coetanei - una vena di tenerezza.

Le convinzioni come catene

Cattivo maestro è, secondo la Treccani, un’espressione usata per indicare polemicamente chi ha esercitato un’influenza negativa sui giovani, grazie al proprio prestigio intellettuale, con particolare riferimento ai capi spirituali del terrorismo.
Brutta storia quella di quegli anni, in cui c’erano quelli che nella Sinistra estrema agognavano a una sorta di rivoluzione a colpi di omicidi e una Destra estrema che usava la strategia della tensione con clamorosi e dolorosi attentati per una svolta autoritaria. C’erano maîtres à penser che predicavano da una parte e gerarchetti neofascisti che lo facevano dall’altra.
Questa presenza dei cattivi maestri ha logiche politiche inquietanti, specie quando agiscono sulle menti duttili e influenzabili dei giovanissimi, come si vede - sempre alle ali estreme - dai cretini che in certi Licei blasé inneggiano in queste ore ad Hamas contro Israele o i giovani che, dall’altra, giochicchiano con l’estremismo nero, immaginandosi un fascismo da riabilitare, spingendosi persino alcuni ad una riabilitazione del nazismo.
Questo avviene non solo in gruppuscoli o in sette, ma anche nelle scuole, dove agiscono professori propagandisti politici e lo abbiamo vissuto tutti da ragazzi. E quando questo capita vuol dire che chi ha compiti educativi viene meno ai suoi doveri e questo è intollerabile.
Ho avuto insegnanti assai marcati politicamente, che facevano lezioni senza voler assolutamente fare proselitismo e ponevano le questioni in termini problematici e mai con l’intenzione di indottrinarci. Chi ci ha provato, quando facevo il Liceo, trovò nelle classi dove ho studiato pane per i suoi denti.
Questo per dire quanto mi abbiano stufato gli estremismi e i suoi fratelli, che siano il massimalismo, il radicalismo, l’oltranzismo, il fanatismo, il giacobinismo, il fondamentalismo, l’integralismo, il manicheismo, l’eversione e forse la lista potrebbero essere completata da altri vicoli ciechi della razionalità.
Ha scritto Edgard Morin: ”Che cos’è la razionalità? È il modo in cui lo spirito umano si sforza di associare i sistemi di idee logiche, coerenti, che edifica con i fenomeni della realtà sui quali li appoggia”.
Questo logicamente non vuol dire affatto costruzione del pensiero - nel mio caso le molte varianti del federalismo - ma senza farne un fideismo cieco e senza accompagnare ogni pensiero con sentimenti e passioni. Non siamo robottini o meglio Intelligenza Artificiale che tratta dati senza quel contesto di cultura e di esperienze, speranze e propositi che fa parte del bagaglio che ci portiamo sulla schiena.
Ha scritto Alessandro D’Avenia: ”La parola “intelligente” deriva dal latino, viene da “intus” più “legere”: “leggere dentro”. La persona intelligente è quella che sa guardare dentro le cose, dentro le persone, dentro i fatti”.
Questo vuol dire evitare, come avviene con certi algoritmi dei Social, non chiudersi nel recinto di chi la pensa solo come noi - e questo crea il rischio della conventicola chiusa - mentre bisogna conoscere gli altri, quelli che sanno confrontarsi e discutere a mente aperta. E chi è prigioniero dell’ideologia non ti ascolta, perché convinto di essere depositario delle sue intoccabili verità. Capita spesso di incontrarne in politica: neanche loro ti ascoltano mentre spieghi le tue ragioni, loro sono fermi nel ”sanno” e non hanno bisogno di altro. Chiusi, sono chiusi, prigionieri delle convinzioni che diventano come catene.

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