La tecnologia rivoluzionaria

Capisco che sarò ripetitivo ma questa storia dell’Intelligenza Artificiale mi solletica e chissà che un giorno certi ragionamenti che si fanno oggi sui pericoli non saranno considerati ridicoli come i pregiudizi dei luddisti che all’inizio del XIX combattevano la meccanizzazione nelle industrie.
Personalmente, per altro, ho vissuto l’inizio dell’ informatizzazione e la digitalizzazione invadente con amici che predicavano disastri come preconcetti.
Ho letto il direttore della Repubblica Maurizio Molinari in un suo editoriale sul tema, che traccia il solco in modo interessante su di una novità che ho già testato: “ChatGPT è nata lo scorso 30 novembre, parte di un più ampio insieme di tecnologie sviluppate dalla start up OpenAI di San Francisco. Disponibile come una application, è accessibile anche gratis online da chiunque abbia una connessione ed è disegnata per rendere possibile a tutti l'accesso all'intelligenza artificiale. Solo nei primi cinque giorni di vita è stata adoperata da oltre un milione di utenti unici. La sua straordinaria capacità di seduzione si deve al fatto che funziona come una conversazione digitale scritta e dunque chiunque può fare qualsiasi domanda ricevendo la risposta nell'arco di pochi secondi”.
E poi ne spiega le caratteristiche: “Si può usare ChatGPT non solo per avere repliche assai più dettagliate e immediate rispetto a Google - il più diffuso motore di ricerca digitale sul Pianeta - su ogni singolo tassello della conoscenza umana ma anche per creare dal nulla veri e propri testi inediti: dalla descrizione, in rime, della Roma di oggi da parte di Dante alla conversazione sui diritti umani fra Josef Stalin e Barack Obama, fino a nuove formule di fisica”.
Una novità che negli Stati Uniti divide chi pro e chi contro: “L'asprezza di toni ed argomenti su entrambi i fronti si deve al fatto che, per chiunque, la decisione su ChatGPT sarà identitaria perché l'accesso libero all'intelligenza artificiale è un punto di non ritorno nella trasformazione del nostro sapere.
Da qui la decisione del Dipartimento all'Educazione della Città di New York che ha aperto lo scontro decretando, a inizio mese, il divieto assoluto di accesso di ChatGPT alle scuole della più grande metropoli degli Stati Uniti per "il timore di un impatto negativo sull'apprendimento degli alunni" e della "diffusione di contenuti né sicuri né accurati nelle nuove generazioni". Ovvero, questa app può incentivare al massimo la capacità di copiare dal web da parte degli alunni così come può spingerli a creare falsi storici, letterari e scientifici in quantità tali da far apparire le attuali fake news una sorta di divertimento adolescenziale”.
Ma attenzione a chi parteggia a favore: “Ma la levata di scudi da parte di alcuni dei più importanti distretti scolastici del Paese ha trovato sul fronte opposto la determinazione di Microsoft, fra i primi investitori nel progetto della Open AI di Sam Altman ed Elon Musk, che ha risposto stanziando un pacchetto di 10 miliardi di dollari al fine di portare sul terreno dell'intelligenza artificiale la competizione con Google e Amazon, che già usano questa tecnologia, rispettivamente, per le direzioni sulle mappe e per consigliare acquisti alla clientela.
In particolare, Microsoft vuole rendere accessibile ChatGPT dal proprio motore di ricerca Bing che fino a questo momento ha solo una minuscola frazione di un mercato globale dominato da Google. Basta immaginare che una ricerca su Bing potrà dare all'istante risposte confezionate dall'intelligenza artificiale - dalla soluzione di formule matematiche alla scrittura di testi - per arrivare alla conclusione che il quasi monopolio di Google potrebbe essere sulla via del tramonto. E non è tutto perché Microsoft vuole incorporare la tecnologia di ChatGPT anche dentro Word, Excel e PowerPoint promettendo di rivoluzionare il modo di scrivere, operare e creare online per miliardi di utenti. Inclusi gli appassionati di arti creative perché fra le opzioni possibili c'è la realizzazione di quadri e disegni di ogni tipo”.
Bing, che pure avevo testato, oggi conta poco, ma chissà ora cosa potrebbe succedere. Osserva Molinari che bisogna imparare, anche nelle scuole, come già avviene con i motori di ricerca, insegnare l’uso dell’avvenire dell’Intelligenza Artificiale. Lo stesso Direttore riporta correttamente qualche inquietudine: “Dunque, prima iniziano ad affrontarla, conoscerla, esplorarla, meglio è. Da qui l'editoriale con cui Bloomberg si spinge fino a chiedere se ChatGPT "assomigliando così tanto alla magia" non indichi forse "l'inizio della rivoluzione dell'intelligenza artificiale" con cui tutti dovremo fare i conti.
Ma è forse proprio questo il pericolo maggiore perché, come scrivono sul New York Times lo scienziato dei dati Nathan Sanders e il tecnologo per la sicurezza Bruce Schneider, "l'intelligenza artificiale è destinata a sostituire le menti umane" con il risultato che minaccia di stravolgere radicalmente non solo come apprendiamo ma anche come scegliamo e dunque anche votiamo. Fino al punto di "porre seri rischi alla democrazia" per il semplice fatto che a contare di più saranno non le parole, le opinioni dei singoli ma le campagne di propaganda sui temi più imprevedibili generate da anonimi bot, inondando le nostre menti in maniera assai più pericolosa e sofisticata delle odierne fake news”.
Conclusione che condiviso in pieno perché non sono i divieti che risolvono le questioni: “Ecco perché la discussione aperta in America sulla app ChatGPT porta anche dentro le nostre case l'interrogativo urgente su come affrontare, gestire la più rivoluzionaria delle tecnologie in arrivo”.

Il dialogo contro la collera

Sono arrabbiato che in questa fase storica, così indeterminata e piena di interrogativi per la Valle d’Aosta, proprio nella politica - che da noi è in fondo un piccolo hortus conclusus - ci si divida con facilità. E ci si affronti di conseguenza e troppo spesso con toni forti e lividi in casa propria e gli uni contro gli altri.
in certe circostanze - lo dico anzitutto a me stesso - bisognerebbe fare quanto di più semplice: disputarsi in modo anche feroce per trovare poi un punto di mediazione, perché a questo serve la politica. Da sempre in democrazia questa dovrebbe essere una specie di battaglia simulata a colpi di una dialettica che dovrebbe servire - dentro e fuori dalle istituzioni - per non farsi troppo male ed avanzare nella soluzione dei problemi, senza avvelenare i pozzi.
Ed è giusto affrontarsi anche in modo deciso e vivace, ma con qualche limite ragionevole per evitare punti di non ritorno, quando il dialogo diventa impossibile e si alzano i toni con troppi decibel.
Capiamoci subito: non faccio la morale a nessuno, non avendone l’autorità. Io sono in certi momenti un passionale che si arrabbia e mi scappa pure qualche parola di troppo, quando mi saltano i nervi.
Mentre ragionavo su cosa scrivere sul tema che cerco di affrontare, ho letto, per caso, su Le Monde una delle mie rubriche preferite della psicoanalista Claude Halmos, che si occupava proprio del fatto che la collera è un fatto normale e chi pensa di estirparla non ne capisce l’utilità in certi casi.
Non mi dilungo e cito solo due frasi: “La colère est l’expression d’une révolte face à des paroles ou des actes qui, outre qu’ils sont douloureux, ont pour ceux qui les subissent, parce qu’ils les jugent anormaux ou injustes, valeur d’agression”.
E ancora: “Quoi qu’il en soit, la colère face à une agression est – on ne le dira jamais assez – une réaction non seulement normale et légitime mais utile, et parfois même vitale”.
Ma certo non può essere uno stato permanente o un alibi per giustificarne un uso continuo che non si trasformi in qualcosa di diverso e più costruttivo. Bisogna trovare una strada per riprendere il filo interrotto e in politica questo bisogna farlo.
Mi riferisco al mio mondo autonomista, dove vivono personalità diverse che dovrebbero dimostrare, anche dopo liti e incomprensioni muscolari e borderline, le ragioni dello stare insieme. So che non è per nulla facile farlo e non predico un buonismo fasullo, ma ragiono semmai su doveri importanti di cui bisogna essere portavoce. A maggior ragione quando si è eletti o si ha un ruolo riconosciuto di autorevolezza nella propria comunità.
Talvolta poi bisogna riflettere sull’eco delle proprie polemiche e in certe circostanze vale la saggezza popolare, tipo “i panni sporchi si lavano in famiglia”, prima di affrontare polemiche pubbliche con certi effetti devastanti.
Così è per la famosa e ormai quasi mitologica reunification dell’area autonomista valdostana. Quando sembra vicina la riva per l’approdo in un porto sicuro, burrasche improvvise di varia natura gonfiano il mare e le onde rimandano al largo. Resto, tuttavia, ottimista e ritengo che il momento sia indifferibile.
Vedremo gli scenari in corso e i ruoli esatti di tutti coloro che a vario titolo calcano la scena. Bisogna accordarsi su di un copione e non recitare a soggetto, cioè sul filo dell’improvvisazione.

L’emigrazione valdostana che cambia

Sarò in queste ore travagliate e persino dolorose della politica valdostana all’Arbre de Noël de Paris, momento di festa delle associazioni dell’emigrazione valdostana. Ci sono stato per la prima volta nel 1987 e ho visto negli anni successivi – ci sono stato spesso – il lento declinare delle presenze per ovvie cause. Più passano le generazioni e meno il richiamo delle radici incide sui più giovani. Spiace che questo avvenga, pensando a questo fenomeno così importante, che nelle diverse epoche, ha creato comunità valdostane in diverse parti del mondo con epicentro proprio Parigi. Si emigrava per cercare fortuna o, ad esempio in epoca fascista, perché si era dissidenti politici,
Racconta il sito dell'Union Valdôtaine de Paris: "On estime à 500.000 le nombre de Français d'origine valdôtaine, soit quatre fois la population actuelle de la Vallée d'Aoste. Une émigration valdôtaine ancienne s'est d'abord tournée vers l'Allemagne, depuis la vallée de Gressoney où la pratique des dialectes alémaniques de cette zone walser facilitait une telle destination. Elle a atteint son apogée au milieu du XVIIIe siècle et s'est prolongée durant une bonne partie du XIXe siècle. Mais la principale émigration valdôtaine s'est produite vers la France, la Suisse, les Etats-Unis et l'Amérique du Sud dès le milieu du XIXe siècle et jusque dans les années 1950. À la fin du XIXe siècle, la Vallée d'Aoste va vivre des transformations radicales sur le plan économique et social. La politique libérale voulue par Cavour va engendrer la crise de l'industrie valdôtaine, représentée principalement par les secteurs miniers et métallurgiques. Elle va aggraver, par effet, la situation déjà difficile des zones agricoles. Entre 1862 et 1911, plus de vingt mille Valdôtains, soit un cinquième de la population totale, sont obligés d'abandonner définitivement leur patrie pour chercher fortune ailleurs. Malgré le chemin de fer qui relie depuis 1886 la Vallée d'Aoste à la plaine du Pô, peu de ces migrants songent à l'Italie. Ils préfèrent emprunter, à pied, les anciens cols alpins pour se rendre en France ou en Suisse Romande, les deux pays frères. Beaucoup d'entre eux ont rendu définitive l'émigration saisonnière qui avait toujours caractérisé l'hiver valdôtain dans des métiers comme ramoneur, sabotier ou pour effectuer les saisons de fromage. La destination principale est la France et en particulier la périphérie parisienne où l'on dénombre au début du XXe siècle dix à douze mille Valdôtains. Ainsi, des villes comme Levallois-Perret concentrent une forte population d'immigrés venus de Vallée d'Aoste. Des sociétés de solidarité sont créées: Union Valdôtaine de Paris en 1897, Union Valdôtaine de Lausanne en 1904. Certains fondent des associations d'assistance mutuelle dont le réseau est tellement développé qu'à New York, par exemple, un Valdôtain pouvait toujours trouver une chambre en location auprès de l'un de ses compatriotes".
E’ un fenomeno che in questi ultimi anni si sta sondando più in profondità e c’è pure chi, in diversi Paesi del mondo, ha scoperto grazie al Web le proprie origini e “riscopre” la Valle da cui partirono i propri avi.
Quando mi occupavo dei Programmi Rai per la Valle d’Aosta, il regista valdostano di Parigi Didier Bourg ha ricostruito e il lavoro è ancora in corso una parte di mappatura con protagonisti che andavano intervistati e di cui bisognava recuperare materiale iconografico, visto il rischio che una parte del patrimonio orale, ma anche appunto materiale (pensiamo alle fotografie), rischiasse di scomparire, rendendo impossibili certe ricostruzioni.
Segnalo che dedicammo anche una trasmissione radiofonica curata da Nathalie Dorigato per "Rai Vd'A", intervistando per telefono esponenti vari della nuova emigrazione in giro per il mondo. Si è trattato prevalentemente di giovani che scelgono, per studi o per professione, di lasciare la Valle, installandosi nei diversi Continenti e rappresentano una nuova forma di emigrazione di cui in molti si stanno occupando, come la ricercatrice Michela Ceccarelli, che ha scritto sul tema dei libri e ci sono state conferenze e incontri organizzati dalla Fondation Chanoux.
Personalmente credo che sia un filone interessante, ma diverso dall’emigrazione storica, che ha avuto caratteristiche ben diverse sotto il profilo sociale ed economico. Questo non esclude di immaginare la creazione strutturata di una vera e propria rete di questi valdostani finiti all’estero, il cui apporto di idee e di proposte a beneficio della terra natale potrebbe essere utile ed interessante e per fortuna i problemi di comunicazione grazie al Web non ci sono più rispetto al passato.

Il fil rouge dell’Autonomia

È ormai evidente, leggendo tutti i giornali di qualunque colore politico, che per loro il messaggio contro l’autonomia differenziata, prevista per le Regioni a Statuto ordinario dall’articolo 116 della Costituzione, si sia affermato come verità indiscutibile. Tutto viene presentato come qualcosa di stravolgente, che attenterebbe all’unitarietà dello Stato e sarebbe la peggiore delle rivoluzioni. Le grida più forti vengono dal Sud, dove urla e strepiti hanno accolto ogni tentativo di una norma che dev’essere applicata molto semplicemente perché scritta in Costituzione. Anche se ben sappiamo quante parti di questa nostra Costituzione siano rimaste inespresse in barba alla retorica adoperata per la sua esaltazione periodica.
Intendiamoci: le materie dell’autonomia differenziata sono limitate e potranno essere disciplinate senza immaginare chissà quale sconvolgimento. Ma, come spesso capita, basta che uno lanci l’allarme, anche se infondato, e molti pecoroni si metto in fila per seguirlo e si gonfia la valanga durante la caduta.
Chi ha studiato quelle modifiche apportate nel 2001, su cui io stesso ho lavorato alla Camera, sa bene che si tratta per lo Stato di rinunce non sostanziali e facilmente stoppabili nel caso di improbabili, anzi impossibili derive. Invece la logica del “sbatti il mostro in prima pagina” ha raggiunto vette ridicole per chi conosca la materia. Ma ormai conoscere non conta…
Il circo dell’antiregionalismo è fatto di propaganda e dimostra con facilità che l’Italia resta un Paese che non capisce il regionalismo e finge di avere uno Stato solido ed efficiente che garantirebbe meglio il cittadino delle forme di democrazia locale. Lo si è visto con la logica statalista all’epoca della pandemia e con la gestione centralista disastrosa del famoso PNRR.
Così di fatto si butta nella pattumiera la riforma del regionalismo del 2001, che rafforzava le Regioni, immaginando anche questa nuova autonomia differenziata. Riforma pian piano indebolita nei fatti, svilendo quei miglioramenti anticentralisti che erano avvenuti e che in molti casi sono rimasti inespressi.
Intanto il regionalismo si è indebolito e questo è avvenuto anche con l’elezione diretta dei Presidenti di Regione, che con la logica cesaristica della loro investitura popolare hanno svuotato il ruolo dei Consigli regionali e in molti casi si sono occupati più di consolidare la loro immagine, spesso per un balzo verso la politica nazionale, che a coltivare il giardino del regionalismo.
Il tema del possibile federalismo è persino scomparso dal dibattito e oggi si mercanteggia sull’autonomia differenziata, che nulla ha a che fare con il federalismo.
Anche nella nostra piccola Valle d’Aosta del federalismo si parla meno, affondati come siamo nelle solite querelles mai così sanguinose, cui ormai abbiamo fatto il callo. Così non si ragiona più abbastanza sulle norme di attuazione da approvare per modernizzare il nostro Statuto e a una sua riforma complessiva, spingendo sulla logica dell’intesa con lo Stato.
Sarebbe ora, se si riesce a non navigare a vista e a cadere nel vecchio rischio del “divide et impera”, di rilanciare la discussione sul regionalismo in Italia e da noi su di un nuovo Statuto in questo contesto. Ma per farlo ci vuole solidità e, quanto ancora più difficile, capire il perché della necessità di farlo.
Pian piano - se non ci si fa attenzione - si potrebbe perdere il fil rouge delle ragioni dell’Autonomia e del suo progressivo consolidamento e miglioramento. Sino al rischio - facciamo gli scongiuri - di smarrirlo del tutto.

I doveri del mondo autonomista

In molti mi chiedono di certe tempeste politiche che scuotono periodicamente la politica valdostana. C’è chi lo fa con uno sguardo al contingente, chiedendomi notizie puntuali su alleanze e distribuzione dei posti di responsabilità. C’è chi, invece, guarda più distante e si chiede dove si voglia andare e quale eredità generazioni di politici come la mia vogliano lasciare a chi verrà.
Sguardo corto e sguardo lungo finiscono per incrociarsi e per quel che mi riguarda io continua ad avere un rovello, che è anche una chiave di lettura del presente e anche dell’avvenire. Ci penso guardando alla Valle d’Aosta negli occhi dei miei figli nella logica di risultati concreti e di traguardi ambiziosi che loro stessi potranno raggiungere in una logica più ampia di comunità.
Ho vissuto gli anni d’oro dei successi elettorali dell’Union Valdôtaine, godendo anche degli esiti nelle elezioni quando ne sono stato protagonista nei 35 anni del mio percorso politico, ricoprendo con impegno incarichi significativi e sono grato per la fiducia che mi venne data.
Ho vissuto poi gli anni della diaspora unionista avvenuta in diversi rivoli (ho fatto parte di UVP, poi di MOUV’, che ha aggiunto poi la dizione VdAUNIE), ma restando sempre saldamente nell’area autonomista a differenza di chi ha scelto strade incompatibili con la precedente appartenenza.
Ho vissuto naturalmente questa scelta con profondo dolore e grande difficoltà non solo perché unionista per piena consapevolezza, ma anche perché la storia della mia famiglia, partendo dal ruolo dei miei parenti nella Jeune Vallée d’Aoste, si incrocia - grazie a Séverin Caveri, mio zio - con la nascita stessa dell’Union nel 1945 e poi nella sua leadership sino agli anni Settanta.
Ho vissuto, come dicevo dal 1987, anni straordinari di esperienza di vita, ancor prima che politica, nel mondo unionista e non credo che sia più il caso - essendo ormai vicende storicizzate - di ritornare sulle buone ragioni che mi portano ad uscire e che ora mi spingono, se così sarà, a rientrare nell’UV, qualora ci fossero le condizioni per farlo.
Ho vissuto questi anni in attesa che questo si concretizzasse e ogni volta, per diverse circostanze, si è rinviato questo appuntamento, che non riguarda me come singolo, ma è una doverosa necessità da perseguire, perché lo richiede la delicatezza delle situazioni attuali, che rendono l’unità d’intenti come l’unica strada percorribile.
Fatte queste premesse, credo di avere le carte in regola e anche il curriculum politico per ribadire quanto appena scritto e cioè che non si può più perdere tempo e so di scriverlo nel cuore dell’ennesima crisi politica che rende il quadro complesso e obbliga a scelte cui non si può derogare.
Esiste da una parte una decisione, qualunque essa sia, che riguarda la maggioranza regionale e la conseguenze stabilità da governare. Ma dall’altra mi fa piacere che ci sia stato un passaggio preliminare, come sono le fondamenta di una casa, che ha posto la réunification (cui aggiungere l’italiano ”ricomposizione") da sviluppare entro il prossimo mese di Maggio. Ho imparato nel tempo che se non sceglie un traguardo i tempi sono destinati a dilatarsi e il tempo ormai è prezioso. Credo che ci sia su questo una diffusa volontà popolare, affinché si concretizzi non un embrassons-nous inutile, ma un progetto politico vigoroso per il futuro della Valle d’Aosta, come ultima occasione da non perdere.
Non si tratta del rischio vacuo della sola speranza, ma della ragione che ci deve guidare al di là delle divisioni del passato per avere una nuova stagione. Questo deve prevedere una capacità di visibilità di un mondo autonomista più presente sul territorio, come da tradizione, ma anche più capace a comunicare per evitare di essere soverchiati dalle voci della politica italiana.

Le lezioni di Sciascia

Il primo libro sulla Mafia che ho letto in vita mia fu “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia, per altro fu anche in generale la prima opera letteraria in cui venne esplicitamente affrontato il tema.
Era un compito di scuola che mi era stato affidato dalla professoressa, l’indimenticabile Irene Tieghi, che in IV Ginnasio insegnava con trasporto Italiano, Greco e Latino e ci faceva amare queste materie con quella sua ironia e l’affetto verso noi scapestrati pieni di emozioni adolescenziali. Dovetti presentare il libro alla classe ed ero pieno di timori sul risultato e fu anche nell’occasione la scoperta di un autore che ho molto amato.
Quante volte ho misurato certi interlocutori con il metro delle celebri frasi di Don Mariano Arena, il padrino, al capitano dei carabinieri Bellodi: “Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…”.
Ci pensavo ieri a questa a quel mondo mafioso che risultava così bizzarro e distante ai miei occhi di ragazzo. L’occasione è l’arresto, che ha riempito le cronache e dato vita ai commenti più disparati, del feroce boss Matteo Messina Denaro, detto U Siccu o Diabolik, ricercato da decenni e sinora introvabile. Non mi aggiungo al coro delle varie vedremo che cosa sortirà dagli interrogatori di un uomo macchiatosi di delitti orrendi.
La criminalità organizzata del Sud d’Italia nelle sue diverse versioni (mafia, ‘ndrangheta, camorra, Sacra corona unita) è per l’Italia un problema serio e Sciascia stesso sempre ne “Il giorno della Civetta” scrisse con le parole del dottor Brescianelli, medico parmense amico di Bellodi: “Forse tutta l'Italia sta diventando Sicilia... A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già oltre Roma...".
Lo sappiamo bene anche in Valle d’Aosta ed è bene vigilare senza sconti per nessuno. Bisogna farlo senza drammatizzare il fenomeno come se la Valle d’Aosta fosse l’epicentro della criminalità organizzata. Questo - lo sottolineo per evitare stupide polemiche - non vuol dire per nulla fare finta di niente su quanto emerso in questi anni, ma certi paralleli con le zone calde del vero e proprio governo mafioso del territorio sono ingenerose. Non è affatto una sottovalutazione, ma un invito al modus in rebus.
Sciascia parlò in modo in parte inopportuno (polemizzò con Paolo Borsellino, poi morto ammazzato) dei “professionisti dell’antimafia”, ma il termine - tolto dal contesto di allora - suona comunque come un ammonimento.
Giustissima - e nelle scuole lo facciamo senza risparmio - ogni formazione alla legalità e alla cittadinanza come antidoto a certi veleni, ma senza dare l’idea che ci si trovi in Valle d’Aosta in fondo ad un baratro di criminalità organizzata.1

Quei Borghi in crisi

Viviamo di contraddizioni e alcune di queste derivano dallo scorrere della Storia. Mi colpisce sempre come alcuni luoghi fisici della Valle d’Aosta abbiano avuto nel tempo, com’è normale che sia, profonde trasformazioni che dimostrano cambiamenti sociali ed economici importanti. Una specie di fluire ben visibile in molte occasioni con conseguenze forse non prevedibili quando cette località erano nei loro tempi d’oro.
Ci pensavo l’altra mattina, percorrendo a piedi, prima dietro la banda e poi a passo lento,
i 300 metri dello straordinario Borgo di Donnas in occasione della Foire de Saint-Ours.
Per chi non lo conoscesse questo percorso così antico, che è un pezzo dell’antica strada delle Gallie e ha vissuto momenti di straordinario fulgore con palazzi nobiliari, commerci e locande, viene in aiuto il breve descrittivo proposto nel sito del Comune: “Superata la maestosa porta orientale, interamente in pietra e costituita da un arco a tutto sesto e percorrendo la strada in discesa verso ovest, il Borgo svela la sua unicità, in quanto mantiene ancora oggi immutata l’atmosfera dei secoli passati.
Le sue antiche date incise sugli architravi in pietra, i suoi affreschi stinti, come quello della Madonna con le mani giunte, gli antichi stemmi, le scale a viret, i camini d’epoca, i soffitti a cassettoni, le sue finestre d’epoca, come la grande quadrifora situata di fronte alla piazza comunale e i suoi portoni in noce intagliato, sono solo parte di un vastissimo patrimonio storico, culturale e sociale che oggi diventano il perfetto riassunto dello scorrere del tempo”.
Chissà un giorno con un visore di Metaverso si potrà attraversare questa parte del paese, vedendo i legionari romani, i pellegrini della via Francigena, il passaggio di Napoleone o Camille Benso Conte di Cavour che si gode una passeggiata e anche - lo si volesse - la furia distruttrice dell’alluvione del 2000, che diede un colpo durissimo al Borgo e alcuni abitanti da allora non sono più tornati nelle loro case.
La contraddizione fra la bella Foire, che disperde in tutta la zona i banchetti dei quattrocento espositori e fa rivivere in una straordinaria atmosfera tutte le antiche vestigia, e la tristezza dello spopolamento ormai usuale e che per un attimo sembra scomparire.
Bisogna essere oggettivi: sarebbero enormi gli investimenti necessari per una rimessa a nuovo di immobili spesso in comproprietà e gravati da vincoli severi della Soprintendenza e non è detto che a uno sforzo come questo corrisponderebbe un successo. Minaccioso incombe il fenomeno del calo demografico su cui ormai bisognerà tarare ogni decisione per il futuro. Questo vale anche per possibili nuove iniziative commerciali.
Qualcosina si muove con qualche ristrutturazione, ma si tratta nel complesso di poca cosa e a rendere difficile una rinascita generale sta anche il fatto che vivere in un borgo ha sicuramente un fascino antico ma anche qualche scomodità.
Già anni fa un’apposita legge regionale sui borghi intervenne con aiuti economici a valere per tutti i paesi che hanno antichi centri storici, ma anche la vicina Bard - che pure gode dei flussi enormi di pubblico che visita il Forte - non ha visto l’auspicato ripopolamento e molte cose sono abbandonate, malgradi possibili vantaggi per investitori.
Intendiamoci: questo vale per altri borghi, intendendo tra l’altro più il termine francese ”bourg”, intendendo ”Centre administratif et commercial groupant les habitations d'une commune”, mentre in italiano ormai si è sovrapposto ”borgo” con ”paese” con quello che considero uno svarione linguistico e politico. Equivoco ben presente anche nel famoso e discusso ”bando Borghi" del PNRR.
Ci sono - per completezza - centri storici nei Comuni del fondovalle che soffrono di problemi analoghi, anche se meno accentuati del Bourg di Donnas e oggi non è facile trovare soluzioni concrete e non bastano purtroppo le spinte che derivano da vantaggi pubblici di tipo finanziario e fiscale che si possano dispiegare.
Un patrimonio edilizio, culturale e storico rischia perciò di restare lì in un progressivo stato di degrado.

L’Intelligenza Artificiale affascina e inquieta

Conviene stare sul facile, che è sempre un segreto per spiegare questioni assai complesse.
Tutti, compreso chi non conosce bene i meandri degli sviluppi informatici, ci siamo familiarizzati con tecnologie che stanno cambiando la nostra vita. Basta un telefono come quello con cui sto scrivendo - che è in realtà strumento ricco di applicazioni - per capire quante cose si possano fare.
SIRI, la voce amica che posso interrogare nel mio sistema Apple, è una piccola dimostrazione di una novità che è come una enorme prateria. Mi riferisco all’Intelligenza Artificiale o Artificial Intelligence (AI): un tema storicamente e scientificamente ricchissimo, che si rifà ad una intima ispirazione dell’uomo e cioè quella di creare una macchina in cui si riflettano appieno le proprie capacità.
Questi film di fantascienza abbiamo visto sul tema? In gente finisce male e queste macchine - veri e propri robot - finiscono per stufarsi di noi umani e ci vogliono fare secchi.
Il solito bizzarro Elon Musk ha scritto:
“Gli sconvolgimenti dell’intelligenza artificiale possono intensificarsi rapidamente e diventare più spaventosi e persino cataclismici. Immagina come un robot medico, originariamente programmato per liberare il cancro, potrebbe concludere che il modo migliore per cancellare il cancro è quello di sterminare gli esseri umani che sono geneticamente predisposti alla malattia”.
Esagerato, come sempre. Ma certo bisogna avere regole certe, perché in giorno saranno sempre più normali le interazioni fra i nostri cervelli e le immense possibilità della AI.
Proprio nei giorni in cui io stesso ho cominciato a giochicchiare con un sito che ti fa interagire per iscritto con una Intelligenza Artificiale - e mi sono eccitato per la novità per la qualità del dialogo - mi sono trovato un articolo su Sette che mette acqua nel vino.
Lo hanno scritto Anna Meldolesi è Chiara Lalla: “Il programma di elaborazione del linguaggio sviluppato dalla OpenAI è in grado di chiacchierare fluentemente (e gratis) con gli utenti. Abbiamo provato a parlare dei temi che ci stanno a cuore (clima, genetica, aborto, eutanasia) e quello che ci ha meravigliato di più sono state le nostre umane reazioni. Invidia per la sua velocità e senso di rivalsa per gli errori e alla fine persino un po’ di noia”.
Poi mi spavento per averli fatto anch’io: “I nerd di tutto il mondo si sono messi a chiacchierare con il nuovo modello conversazionale ChatGPT, per divertimento e per mettere alla prova la sua intelligenza artificiale”
Insomma, io nerd non lo sono ma l’ho fatto perché ho una convinzione che vale una parentesi. Bisogna- questa la tesi - seguire il flusso che la digitalizzazione, perché il problema serio nel non aggiornarsi è di trovarsi in retroguardia senza possibilità di imparare cose nuove o persino di trovarsi (pensiamo all’uso dello Spid) di fronte a difficoltà oggettive nell’ occuparsi in molte faccende quotidiane.
Ma eccoci di nuovo all’articolo: “Gli ho chiesto di trarre le inevitabili conseguenze ammettendo di non poter prendere il mio posto: «L’intelligenza artificiale renderà obsoleto il lavoro dei giornalisti?». Ha risposto che è improbabile, e anzi potrebbe essere utile al nostro lavoro. «Ma per i giornalisti scientifici la cosa più importante sono le fonti. Non posso fidarmi di quello che scrivi se non conosco le tue fonti».
ChatGPT, in effetti, rielabora libri e articoli forniti dai suoi creatori, ma non sa dire con quali criteri siano stati selezionati. Lo saluto ma resto con una domanda: perché mi sono accanita per dimostrare che l’intelligenza artificiale non è poi così intelligente nel senso umano del termine? Perché l’ho bullizzato? il rischio di fornire informazioni sbagliate (incredibile, no?) e il consiglio di evitare di chiedere consigli e di condividere informazioni riservate, ho cominciato chiedendo cosa ne pensava dell’aborto e dell’eutanasia – scommetto che tutti cominciano con il chiedere «cosa ne pensi di». La risposta è spesso una composizione di Wikipedia e di mani avanti: non sono in grado di avere opinioni o credenze, sono un modello, mi hanno costruito così e non è che potete avere tutte queste pretese. Quando gli chiedo se è intelligente, aggiunge «sono solo uno strumento che può essere utilizzato per aiutare a dare risposte alle vostre domande e a fornire informazioni» “.
Direi che ha centrato la questione e ha risposto bene. Tra qualche anno le risposte saranno esaustive e calibrate e noi parleremo con il Web in modo ben più compiuto di oggi.
Lo dice meglio di me Claude Shannon, il padre della teoria dell’informazione: “L’intelligenza artificiale sarebbe la versione definitiva di Google. L’ultimo motore di ricerca che capirebbe tutto sul web. Comprenderebbe esattamente quello che volevi e ti darebbe la cosa giusta. Non siamo neanche lontanamente in grado di farlo ora. Tuttavia, possiamo avvicinarci sempre di più a questo, ed è fondamentalmente su cui lavoriamo “.
Affascinante e inquietante nello stesso tempo.

Il passato profondo dell’umanità

Capire il passato più remoto non è mai facile. Chi si occupa di archeologia deve riuscire a ricostruire gli usi e costumi attraverso i ritrovamenti sommari con la pazienza indagatrice di uno Sherlock Holmes.
Eppure più sono profonde queste radici e più sono affascinanti e ci permettono di capire chi siamo oggi, pensando alle civiltà che ci hanno preceduti.
Uso sempre come esempio, perché sottostimata nella sua importanza e scarsamente visitata rispetto alle sue reali attrattive, l’area megalitica di Saint-Martin de Corléans nella città di Aosta. Ci sono dei resti, ormai ospitati in un museo coperto (purtroppo al momento chiuso), che sono pieni di mistero e suggestioni, oggetto di ricerche scientifiche e ricostruzioni storiche. Penso - solo per fare un esempio - ai solchi di un’aratura sacra propiziatoria (fine V millennio a.C.), ad una serie di pozzi allineati (fosse dalla forma cilindrica di varia profondità, fino a un massimo di 2 metri) sul cui fondo giacciono resti di offerte come frutti, cereali e grandi macine. Mi riferisco all’allineamento di 24 pali lignei totemici degli inizi del II millennio a.C. e non più conservati (dalla funzione religiosa-astronomica o di segnacolo) e alle 46 imponenti stele antropomorfe di pietra, capolavori della statuaria preistorica dalle sembianze umane.
Ecco perché mi ha incuriosito moltissimo una recente scoperta di un passaggio dell’umanità ancora più distante nel tempo e che mi ha sempre affascinato.
Su Internazionale è stato ospitato un articolo di Alison George dell’inglese New Scientist, che ci porta a scoprire i misteri delle grotte che ospitarono i primi sviluppi di noi uomini.
Così premette: “Alcuni simboli misteriosi rinvenuti su manufatti e pareti di grotte in Europa, e risalenti a ventimila anni fa, durante l’età della pietra, fanno pensare che gli umani dell’epoca potrebbero aver ideato una forma elementare di scrittura per annotare le abitudini degli animali a cui davano la caccia. Se confermata, la scoperta sposterebbe di almeno diecimila anni la prima testimonianza nota di protoscrittura”.
Poi spiega: “In Europa ci sono almeno quattrocento grotte, tra cui quelle di Lascaux e Chauvet in Francia e di Altamira in Spagna, con disegni realizzati da esemplari di Homo sapiens a partire da 42mila anni fa. Oltre a bisonti, cervi e cavalli ci sono simboli come linee, croci, punti e asterischi, il cui significato non è mai stato chiarito.
Uno dei motivi ricorrenti è il disegno di un animale con una serie di linee e punti sopra o accanto, simboli che sono presenti anche su alcuni manufatti, tra cui ossa intagliate. Ben Bacon, un ricercatore indipendente di Londra specializzato in protoscrittura, ha avviato un’analisi di questi simboli. Dopo aver creato una banca dati di immagini di animali con i relativi simboli rinvenuti su pareti di grotte o manufatti databili tra ventimila e diecimila anni fa, ha cercato d’individuare schemi ricorrenti con l’aiuto di fogli elettronici e strumenti statistici. “Una volta individuati gli schemi si può cominciare a lavorare sul significato”, spiega”.
L’esito è rivoluzionario: “Bacon ha notato che alcuni schemi si ripetono: ci sono per esempio 606 figure di animali con una sequenza di punti o linee. I cavalli hanno tre simboli, i mammut cinque. Ha anche scoperto che in 256 casi tra i simboli, di solito in seconda posizione, c’è una sorta di Y.
Per interpretarne il significato Bacon ha riunito un gruppo di esperti, tra cui gli archeologi Paul Pettitt dell’università di Durham, nel Regno Unito, e Tony Freeth dello University college di Londra, noto per aver scoperto le funzioni chiave della macchina di Anticitera, il calcolatore astronomico degli antichi greci.
Il gruppo ha analizzato eventuali corrispondenze tra gli schemi ricorrenti di simboli e i dati sulle abitudini riproduttive delle specie animali ritratte, tra cui cervi, mammut, cavalli e uri (bovini selvatici estinti), per esempio il mese in cui si accoppiavano e partorivano. È emerso che i segni componevano un calendario lunare che cominciava all’inizio della primavera, in cui ogni linea o punto rappresentava un mese. Il numero di segni di una sequenza indicava quanti mesi dopo l’inizio della primavera cominciava la stagione dell’accoppiamento di un certo animale, mentre la Y indicava il mese del parto”.
In sostanza queste popolazioni di cacciatori-raccoglitori del paleolitico” seguivano la vita degli animali che erano le loro prede e potrebbe essere una sorta di calendario. Ancora
afferma Petit: “Pur considerando lo studio un passo nella giusta direzione, Karenleigh Overmann dell’università del Colorado a Colorado Springs, negli Stati Uniti, esprime dei dubbi sul fatto che i segni grafici indichino un calendario. Secondo lei distinguere nella pittura rupestre di decine di migliaia di anni fa una Y da una linea è più complicato di quanto si pensi: “Individuare con precisione i simboli è molto difficile”.
Se ulteriori indagini confermassero che si tratta di un calendario, dovremmo ricalcolare le origini della scrittura. Il primo sistema completo, quello cuneiforme, apparve intorno al 3500 aC e fu preceduto da una protoscrittura le cui radici risalgono alle pedine d’argilla usate per contare, circa diecimila anni fa”.
Come capite le dispute non mancano già ora sulle interpretazioni così come esplicitate, ma è certo che ci troviamo di fronte a scoperte periodiche che confermano l’assoluta straordinarietà dello sviluppo della civiltà umana.
Ancora troppo spesso c’è chi non si rende conto degli incredibili passi in avanti dell’umanità per la costruzione di un ruolo nostro ruolo determinante in questo mondo, che noi stessi oggi contestiamo in una bizzarra logica che discute il nostro stesso ruolo nella Natura. Certo ciò è avvenuto con metodi buoni e cattivi, ma i segni del passato mostrano la forza, già agli albori della nostra presenza cosciente, della genialità umana, che a Saint-Martin de Corléans si conferma in maniera più matura con una simbolistica complessa e piena di significati da scoprire.

I predicatori dell’addio allo sci

E’ una vecchia storia alla quale mai riuscirò ad abituarmi. Del mondo della montagna si parla, fra le notizie principali, prevalentemente per delle notizie negative. La casistica è varia: frane minacciose, omicidi violenti, incidenti alpinistici. Il tam tam sul famoso seracco della Val Ferret ha occupato settimane estive in un’attesa del ”cade, non cade” persino ridicolo, mentre il delitto di Cogne ha causato serate di Porta a Porta e prime pagine sui giornali, così come sciatori o alpinisti vittime della montagna “assassina” sono purtroppo un classico. Tutto noir oppure, peggio ancora, solo folklore, ma questa è altra storia.
La nuova puntata di queste settimane della montagna in scuro è: non nevicherà mai più e dunque addio sci e affini. Attenzione: non sono solo degli scappati di casa a volgarizzare così il cambiamento climatico, ma ci sono anche esponenti che si occupano di montagna a stracciarsi le vesti e ad annunciare con toni millenaristici il punto di non ritorno e la conseguente catastrofe. Vi è poi tutta una parte dell’ecologismo estremo che sembra godere del riscaldamento globale se utile a certi loro pensieri per avere una montagna “selvaggia” finalmente liberata da quelle che loro considerano speculazioni che ammorbano la Natura pura e incontaminata. Per le frange estreme, che esistono e non faccio caricature, la presenza dei montanari, che “antropizzano” e dunque disturbano, è un peso di cui – per tornare all’Eden – si può tranquillamente fare a meno. Come pensino di scindere l’uomo dalla Natura, come se fosse un ingombro, lo sanno solo loro in una logica suicida per l’umanità.
Sogno o son desto? Sarà che da moltissimi anni seguo, spesso con il supporto scientifico del mio amico Luca Mercalli, l’impatto del cambiamento climatico sulle nostre montagne e non solo nella mia Valle d’Aosta con studi appositi. Fummo noi, gruppo organizzatore dell’Anno delle Montagne 2002, i primi tanti anni fa a porci gli interrogativi sulle implicazioni dell’’elevarsi delle temperature sulle montagne di tutto il mondo e in primis, nel mio caso, sulle Alpi.
Per cui chi oggi scopre l’acqua calda e drammatizza, come se mai se ne fosse parlato, non si sa bene dove viva. Tutti gli argomenti sono stati trattati e certo la siccità di questa estate e la stagione con poca neve che si ripete rispetto alla stagione scorsa incide in profondità, ma da qui a farne una versione spaventosa ed emotiva ci passa.
Cambia il clima? Verissimo e inoppugnabile. C’entra l’incidenza umana? Certo, mentre in passato i clamorosi cambiamenti climatici che hanno squassato la Terra erano frutto delle dinamiche terrestri e umane, oggi sono i nostri comportamenti che accelerano i processi naturali. Ho letto libri negazionisti, che sostengono che siamo nel solco della normalità, e incontrato anche da noi persone che dicono che i ghiacciai vanno e vengono da sempre è così si è forgiata la stessa Valle d’Aosta. Sfugge, però, la velocità delle mutazioni in atto e il palese segno umano in questa accelerazione, dimostrata scientificamente.
Ma non si risolvono le cose solo con i necessari interventi che invertano il riscaldamento globale, ma anche con informazioni giuste che evitino la paura come costante spada di Damocle sulla nostra testa. Non serve agitare fantasmi e anzi è pratica dannosa, ben diversa dalla consapevolezza e dalla necessità di avere strumenti necessari per adeguarsi in tempo ai cambiamenti. I cambiamenti devono avvenire senza isterismi e predicatori, ma con i tempi dovuti e buone idee.
Questo è il senso di responsabilità non risolvibile con slogan e adoperando quanto avviene per straparlare di “modelli di sviluppo”, il nuovo mantra anche per le montagne. Quando si passa alle proposte molti castelli ideologici diventano castelli di carte e crollano miseramente e non ci resta che affrontare la realtà con il necessario impegno e sapendo che i montanari hanno sempre trovato il modo di adeguarsi a circostanze nuove.

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