Il virus della litigiosità

Viviamo in un mondo litigioso nel piccolo e nel grande. Nulla di nuovo sotto il sole dai tempi delle caverne.
La mia impressione, tuttavia, è che stiamo persino peggiorando, come se un continuo nervosismo attraversasse tutti noi e ci rendesse aggressivi.
A me capita di litigare e posso accendermi come un cerino, ma mi spengo in fretta e non porto rancore e certe volte bisognerebbe aggiungere: purtroppo!
Mi ha molto interessato l’intelligente riflessione di Ferruccio De Bortoli su Oggi: “Il cattolico apostolico romano Giulio Andreotti diceva che a pensar male si fa peccato ma ci si avvicina più facilmente alla realtà. È fonte di grande amarezza, non solo per i cattolici, rendersi conto di quanto la Chiesa sia divisa e percorsa da vanità e rancori. Nella nostra modesta quotidianità, per la stragrande maggioranza dei casi, la morte di una persona cara placa, pur con qualche ipocrisia, ogni polemica. Silenzio. La scomparsa di Benedetto XVI, anziché rappresentare solo un momento di raccoglimento nel dolore per la perdita di un grande pastore e intellettuale, ha sprigionato distinguo e interpretazioni sulla qualità e sulla durata del pontificato di Francesco. All’interno della Chiesa, non fuori”.
Insomma: c’è chi predica bene e razzola male e questa non è polemica, ma la constatazione dei limiti della nostra umanità.
Certo questo dimostra - lo dico a difesa della categoria - che il veleno della litigiosità non riguarda solo il mondo della politica che ben conosco e che mai si è fatto mancare il peggio. Il celebre Ministro socialista Rino Formica ricordò come la politica fosse “sangue e merda”. Definizione poco elegante, ma tristemente veritiera.
Poi De Bortoli, con interessante discontinuità, passa dalle stelle alle stalle, anche se…reali.
Si occupa infatti si un tema che ha spopolato sui Social: i dissidi all’interno della Corona inglese con una disputa a distanza fra la famiglia reale e Harry, il fratello del re. Ciò avviene con un singolare parallelo: “Che cosa significa aver un buon ghost writer, un autore ombra. Chi ha scritto veramente l’autobiografia di Harry, il duca di Sussex, Harry (Spare, il minore, edito in Italia da Mondadori) è il premio Pulitzer J.R. Moehringher, già autore di Open ,la confessione di Andre Agassi. Un successo planetario. Come il tennista - che fu schiavizzato sui campi da tennis dal padre - anche Moehringher visse un doloroso rapporto familiare. Il padre lo abbandonò quand’era piccolo, affidandolo allo zio che aveva un bar. Harry ha scelto il suo ghost writer anche per condividere il disagio di una relazione conflittuale con il padre. Il futuro re Carlo III gli comunicò la morte della madre Diana «senza nemmeno un abbraccio». Ed è forse questa la chiave interpretativa più sottile di un’autobiografia che fa scandalo. Il dolore interiore di un figlio è lo stesso: provato nel retro di un bar, su un campo da tennis e persino nell’agio di un palazzo reale”.
Mi sembra, dovendo commentare gli eventi britannici, che De Bortoli abbia ragione a segnalare i dolori del giovane Harry. Ma non sarà che non è detto che la notorietà per semplici ragioni ereditarie debba corrispondere all’intelligenza? E poi vale ancora il vecchio detto “Cherchez la femme”. La Treccani così ricorda: “Frase che si legge, in questa forma, in un dramma di Alexandre Dumas padre, Les Mohicans de Paris (1864), ma che ha certamente origini molto più antiche, comunemente usata per affermare che le donne sono causa diretta o indiretta di molti avvenimenti (o di particolari avvenimenti), anche se questi apparentemente non hanno nulla a che vedere con esse”.
Ma è meglio che mi taccia per evitare il rischio di bisticciare per la possibile accusa di misoginia, che respingerei con grande facilità.

Perché il referendum era sbagliato

È vero che il Consiglio Valle - come per me va chiamato giustamente il Consiglio regionale della Valle d’Aosta - dovrà necessariamente decidere sulla modifica della forma di governo in vigore e ciò in stretta connessione con la legge elettorale che ne consegue.
Lo si deve fare perché è oggettivo come in questi anni si sia manifestata una difficoltà di avere maggioranze forti che diano una durata sicura alle Legislature e che consentano così quella stabilità o meglio quella governabilità, che permetta di avere la tranquillità di cinque anni senza scossoni necessaria per essere efficaci nel miglior modo possibile.
Si tratta di tenere conto dell’articolo 15 dello Statuto, che offre un campo largo nelle decisioni che possono essere assunte in materia. Evito i tecnicismi e cerco di riassumere quanto successo nel corso della storia della nostra autonomia contemporanea.
Sino ad una riforma costituzionale avvenuta nel 1989 e di cui fui autore, la legge elettorale che fondava la forma di governo - con un Presidente “primus inter pares” eletto fra i consiglieri - era purtroppo statale e dunque fu di fatto imposta alla Valle d’Aosta. Prima fu, per breve tempo, maggioritario, poi proporzionale. Poi, come dicevo, la competenza in materia passò finalmente nelle mani dello stesso Consiglio. Che si tratti di meglio adoperare questa possibilità è indubbio, essendo oggettivo che bisogna rendere più stabili i governi regionali e anche più efficace il lavoro del Consiglio.
La rivoluzione che consente di poterlo fare - torno alla storia - avvenne nella temperie politica a cavallo fra anni Novanta e Duemila. Sulle ceneri delle Bicamerali per le riforme a Roma, mi ritrovai ad occuparmi, nel cuore dei lavori della Commissione Affari Costituzionali della Camera di cui facevo parte, sia della riforma complessiva del regionalismo (Titolo V della Costituzione) che della della riforma degli Statuti speciali in tema di forma di governo.
Per questo ho scritto di mio pugno e discusso con tutta la veemenza necessaria sino all’approdo in aula il già citato articolo 15, escludendo con una battaglia politica motivata che si imponesse alla Valle d’Aosta l’elezione diretta del Presidente, senza escluderla a priori.
Per questo ho contestato il tentativo di una congerie di forze politiche, prima con l’uso strumentale, respinto in punta di diritto, della richiesta di un referendum propositivo e successivamente con l’uso distorto del referendum consultivo, di imporre in qualche modo la scelta presidenzialista al Consiglio Valle, che sarebbe diventato ostaggio di fatto di una logica populista. Scelta che lascia abbacinati da parte di movimenti di estrema sinistra da sempre ostili al presidenzialismo e lo sono ancora in modo feroce, quando si ipotizza a Roma questa modellistica per le istituzioni nazionali. Dove sta la coerenza?
Insomma: per respingere spinte demagogiche e distruttive bisogna affrontare la riforma in tempo utile rispetto alla scadenza della Legislatura che avverrà nel 2025.
Il resto è propaganda dei soliti noti che si sono precipitati a comando di una congerie di vari movimenti e partiti che hanno poco in comune, se non che contano due consiglieri su 35…
Insomma: per reagire a logiche strampalate sotto il profilo giuridico e politico bisogna agire, come dicevo, mettendosi al lavoro. Certo nel migliore dei mondi possibili bisognerebbe mettere mano non solo a questa parte di legislazione con leggi statutarie, ma bisognerebbe riavviare la revisione profonda del nostro Statuto d’autonomia nelle parti ormai obsolete e non modernizzabili con le sole norme di attuazione. Per farlo, tuttavia, bisogna avere la garanzia dell’intesa, senza la quale una proposta di revisione dello Statuto di fonte regionale mandata in Parlamento potrebbe essere stravolta dalle Camere con i meccanismi, senza garanzie, dell’articolo 138 della Costituzione.
Chi piange e sbraita sul referendum mancato o non ha capito in buona fede le norme statutarie o è semplicemente in malafede, cercando di manipolare l’opinione pubblica e qualcuno ci casca.

Le bande che uccidono il Calcio

Per salvare le società calcistiche dalla bancarotta c’è stata persino una norma nella legge Finanziaria, che prevede di spalmare in 60 rate nei prossimi 5 anni i debiti dovuti ai mancati pagamenti Irpef rimasti in sospeso a causa della pandemia di Covid. Si tratta complessivamente di 889 milioni di euro!
Questo dimostra il baratro in cui è precipitato lo sport nazionale per eccellenza, dopo anni di spendere e spandere, intervallati da scandali vari sulle partite truccate per il business delle scommesse.
Questa zona grigia vale anche in…trasferta e mi riferisco al calcio mondiale, finito in Qatar a disputare i Mondiali. Una scelta imbarazzante e ben pilotata in favore di un Paese liberticida e avvezzo a intrallazzare con parlamentari europei per avere amici nei posti che contano, come emerso - pensa la sfortuna - proprio mentre si disputavano le partite dei Mondiali.
Per questo insieme poco edificante da anni non seguo il calcio, non ho guardato le partite mondiali come gesto di protesta civile e mi arrabbio quando sento di ingaggi milionari per le star del calcio, avendo l’impressione che si sia letteralmente perso la testa.
Rispetto chi digerisce tutto e segue la squadra del cuore in modo urbano e appassionato, ma si tratta di una maggioranza silente, perché purtroppo ad occupare la scena c’è chi, con i suoi i comportamenti, ha scelto di diventare un hooligan.
Sono i tifosi teppisti, in un degrado crescente che crea imbarazzo, perché ormai le attività violente non si svolgono più solo negli stadi, ma con regolamenti di conti da Far West.
Sulle recenti imprese ha scritto Daniele Dallera sul Corriere: ”Il pestaggio di domenica tra romanisti e napoletani, in un autogrill dell’autostrada A1, non è una novità, anche per la sede, visto che nel 2007 proprio lì fu ucciso Gabriele Sandri. Ma sposta il raggio dell’azione violenta: al centro non c’è più lo stadio, ma il luogo e l’agguato vengono scelti, studiati e pianificati. Non si viaggia più in pullman, facilmente controllabili dalle forze dell’ordine, facevano troppo gita sociale, ma su van, macchine private, veri e propri cortei della violenza, con bauli che diventano delle armerie, dove sono custoditi e nascosti bastoni, spranghe, coltelli, pistole e bombe carta. Pronte all’uso. C’è la sensazione che regni quasi un’immunità per i violenti, allo stadio e fuori: meglio smetterla, passare dalle parole ai fatti, per esempio che lo sportivo venga tutelato, non può più succedere che debba lasciare il suo posto allo stadio per l’ordine, per l’alzata di sopracciglio del capo branco che deve e vuole onorare il boss freddato in un agguato, come è successo tempo fa a San Siro durante un banale Inter-Sampdoria. Una scena da saloon, entra il cattivo, escono i buoni. Il teppista deve trovare vita dura, scomoda, e in particolare fare posto all’ultrà che vive il calcio e i suoi campioni con passione. Si può fare, basta volerlo”.
Più che di immunità parlerei di impunità e per certe tifoserie emerge anche un credo politico che consente loro di ottenere ”sconti”. Passato il clamore, tutto torna come prima e i provvedimenti già assunti in passato sembrano non fermare la corsa di questa gentaglia.
Ha scritto sul tema Aldo Cazzullo nella pagina a fianco dello stesso Corriere: ”Domenica ho percorso l’Autostrada del Sole, per fortuna lungo la carreggiata opposta rispetto a quella bloccata dagli ultrà. Non ho avuto disagi, ma ho visto migliaia di auto bloccate in una coda interminabile, gente che usciva dalle macchine e si avviava a piedi per rendersi conto di quel che stava accadendo, bambini in lacrime, anziani stupefatti. Quel che è accaduto — teppisti che usano un’arteria di scorrimento vitale per i loro regolamenti di conti — è gravissimo, e mi piacerebbe vedere nel governo la stessa reazione grintosa mostrata verso i ragazzi dei rave party”.
Per me, sia per gli uni che per gli altri, non ci possono essere giustificazioni se violano la legge. Chi viola le libertà altrui non ha alibi da esibire.

Il populismo eversivo

Ricorderete bene il clamoroso avvenimento di due anni fa, quando miliziani trumpiani, all’indomani delle elezioni perse dal loro beniamino, attaccarono e occuparono Capitol Hill, uno dei simboli più importanti della democrazia occidentale. Donald Trump, assai probabilmente, perderà la possibilità di candidarsi alle prossime presidenziali per la sua complicità in quella sorta di golpe farsesco, che si tinse purtroppo di sangue. Esempio tragico du un terreno fertile per teorie complottiste, che si propagano con troppa facilità a causa del numero di gonzi che ci cascano e che pare essere in crescita ovunque.
Due anni dopo, nel medesimo periodo e dopo un’analoga sconfitta elettorale, in Brasile i fans di Jair Bolsonaro hanno ricopiato, nella medicina logica di populismo eversivo, quanto avvenuto negli Stati Uniti, attaccando i palazzi del potere nelle capitale Brasilia. E’ evidente l’analogia e anche in questo caso l’ispirazione politica, se non organizzativa, avvenuta da parte del Presidente uscente, nel frattempo riparato negli Stati Uniti. Anche se ha detto di essere rispettoso del risultato del voto, risulta palese dai fatti l’esatto contrario.
Trump e Bolsonaro: chi si somiglia, si piglia…Le analogie riguardano anche l’incapacità, forse anche in parte la complicità, delle rispettive forze dell’ordine, letteralmente travolte dai manifestanti con punte di ambiguità da parte di chi doveva per tempo assicurare le necessarie misure di sicurezza.
Nessun dubbio naturalmente che quanto visto in entrambi i casi sia sul terreno dell’illegalità manifesta e in Brasile, come già avvenuto in America, saranno le autorità giudiziarie a condannare i tentati golpisti per la violenza delle loro azioni.
Resta la preoccupazione, visto che certi avvenimenti diventano in qualche modo virali e si prestano a ricopiature, la necessità di riflettere su quanto avvenuto e soprattutto su quanto potrebbe avvenire. L’idea di un assalto al Potere costituito, attraverso quelli che vanno considerati dei simboli costituzionali, andrà presa molto sul serio in tutte le democrazie occidentali.
Tutto ciò si inserisce in un tema sempre più serio che riguarda uno dei fondamenti, proprio di carattere costituzionale, che riguarda la libertà di manifestazione nelle diverse forme possibili, che sostanziano quegli elementi fondativi della democrazia stessa. Troppo spesso ormai ci si accorge di come le pacifiche, legittime, importanti manifestazioni a qualunque titolo organizzate, nel quadro delle norme che le consentono, finiscono poi per essere infiltrate da elementi violenti e provocatori che si insinuano con forza dentro cortei di vario tipo e tutto degenera.
Vecchia storia – potrebbe dire qualcuno – e non è un caso che nel tempo si siano organizzate forme di controllo interno di certe manifestazioni, come il servizio d’ordine, proprio per isolare coloro che scientemente partecipano per approfittare delle circostanze per danneggiamenti e altri atti violenti. La casistica è ampia e purtroppo in continuo peggioramento e lo dimostra la clamorosa “militarizzazione” di chi si occupa dell’ordine pubblico. Ora, anche se spero di sbagliarmi, siamo ad un possibile salto di qualità da “presa della Bastiglia” con il rischio di un processo imitativo che personalmente mi preoccupa.
Esiste, purtroppo, un crescente analfabetismo rispetto agli elementi di base della democrazia e del suo funzionamento. In questa ignoranza cresce di tutto, comprese teorie strampalate e idee ossessive che conquistano pubblico e adepti. Non ci vorrebbe molto a capire la pericolosità di questa deriva individuale che diventa forza organizzata nella quale i fautori di forme varie di regimi illiberali trovano un fertile terreno di coltura. In questi anni personalmente trovo insopportabile l’accentuarsi di estremismi violenti, visibili sempre di più in situazioni non solo politiche, come dimostra l’orrore delle bande organizzate dei sedicenti tifosi di calcio e delle guerre che si sviluppano fra di loro.

Il criminologo, ricordando Lombroso

È così invasiva la loro presenza in televisione che non sarebbe da stupirsi se, opportunamente interrogato su che cosa vorrebbe fare da grande, un bambino di oggi rispondesse: “il criminologo!”.
In effetti, se vi capita di seguire qualche trasmissione che sguazza nella cronaca nera, troverete - come ospite fisso - un/a criminologo/a, che anche a cadavere ancora caldo ricostruisce con facilità intrecci e moventi di un delitto. Il filone è quello ignobile dei processi in televisione, che - anche a fronte di fatti appena capitati e mentre gli inquirenti sono al lavoro - allestiscono per i telespettatori “giurie” di esperti (più bisticciano fra loro e più fanno audience) che “cotto e mangiato” decidono con sentenze improvvisate i destini dei colpevoli veri e presunti.
Si butta via come se nulla fosse qualunque presunzione di innocenza e si due piedi si dispensano condanne o assoluzioni.
Roba da far arrabbiare i criminologi seri - e alcuni di loro vanno anche con cognizione di causa in TV! - che si applicano in una scienza in continua evoluzione, che è in grado oggi davvero di aiutare nei casi più diversi ad avanzare con le indagini. E roba da far impallidire uno dei papà della criminologia, che ha vissuto una vita - pur prendendo strade dimostratesi sbagliate - a suon di ricerca scientifica.
Mi riferisco a Cesare Lombroso, che è possibile incontrare a Torino nel museo a lui dedicato, che ho di recente visitato spinto dalla curiosità.
Lui (1835-1909), medico, antropologo, filosofo, giurista e appunto criminologo italiano lo incontri, come dicevo, di persona poco dopo l’ingresso. A dire il vero è il suo scheletro, visibile dietro un vetro in entrambi i lati. Fu lui a dare questa disposizione di donare il suo corpo alla scienza. D’altra parte era del mestiere e da lì in poi, nelle altre sale, non manca quel materiale su cui lavorò, in particolare numerosissimi crani e le apparecchiature con cui li
misurava per dare concretezza alle sue teorie sui criminali, oltre a foto, disegni e oggetti vari corpi del reato. Nell’ultima sala, dove si ricostruisce il suo studio, una voce narrante racconta con Lombroso in prima persona la sua vita con garbo e modestia e questo, anche se le sue principali teorie sono risultate senza condanne, dimostra la sua personalità di studioso.
Per chi non lo conoscesse come riassumere le sue teorie? Ho trovato uno scritto assai interessante e colto dell’avvocato Mario Pavone su Diritto.net, che anzitutto nobilita la criminologia: ”La criminologia appare oggi come una scienza complessa in quanto è sia teorica (attività speculativa, sistematica e controllabile) che pratica, in quanto tesa a limitare i danni sociali del crimine. Essa include le scienze criminali che studiano i fatti delittuosi dai vari punti di vista (la vittimologia, la politica criminale, il diritto penale, il diritto penitenziario, la psicologia giudiziaria e giuridica, la criminalistica) ed integra molte scienze umane nella propria attività (sociologia, medicina e in specie la psichiatria, pedagogia, psicologia, statistica, ecc.)”.
Dopo un’accurata ricostruzione storica, l’autore di occupa delle scienze ”applicate nello studio dei volti dei criminali vivi o morti in un tentativo di spiegare l’inclinazione al crimine attraverso la lettura di caratteristiche somatiche ataviche” e ovviamente di Lombroso: ”La sublimazione della fisiognomica allo studio della criminalità avvenne, tuttavia, d opera di Cesare Lombroso. Nella sua opera principale, “L’Uomo Delinquente”, Lombroso distinse diversi tipi di criminali: il delinquente nato, nel quale si assommano le ricordate anomalie regressive e per il quale la criminalità è insita nella propria natura, e che è considerato soggetto non recuperabile, da sopprimere o da rinchiudere, in nome del diritto della difesa della società che in questi casi si sostituisce al diritto di punizione.
La quintessenza di questa teoria, quale egli la ha esposta e modificata, è che una certa percentuale di criminali, dal 35 al 40% sono nati con disposizioni criminali e che in essi si possono constatare caratteristiche anatomiche e fisiologiche particolari”.
Ricostruzioni smentite nei decenni successivi, ma Pavone sottolinea più avanti: ”Il Lombroso usò proprio la fisiognomica, scienza antica che aveva sempre nutrito l’arte ed il mito, per mettere in rilievo la diversità di chi era stato già dichiarato reo, per catalogare le stigmate della diversità colpevole, per certificare scientificamente le differenze.
La dottrina lombrosiana attualmente è stata relegata allo stato di mito e può essere messa, senza esitazioni, assieme a quelle dei suoi precursori, nell’archivio stesso della criminologia.
E’ oggi facile deridere il Lombroso con il suo “uomo delinquente” degenerato – naso schiacciato, barba rada, cranio deforme – benché lo stesso studioso, negli anni successivi, ridusse progressivamente il ruolo che il “delinquente nato” identificabile in presenza di almeno cinque anomalie fisiche aveva avuto nella sua versione originaria.
La fisiognomica, che ebbe quindi nel Lombroso il suo principale assertore, sembrerebbe anch’essa avere fatto il suo corso.
Nondimeno va ricordato che la scuola di criminologia che ebbe origine dalla dottrina del Lombroso, prese il nome di Scuola Positiva, per dare importanza alla propria adesione ai metodi sperimentale ed induttivo, quali quelli utilizzati nelle scienze naturali e sociali, contro quelli del ragionamento giuridico e deduttivo”.
Insomma, certi semi hanno comunque fruttato una progressiva crescita della criminologia ed è interessante, come ricorda l’autore, che certe tracce restino ancora nel settore penitenziario.
Così osserva Pavone: ”Come ogni indagine scientifica, anche l’indagine criminologica è soggetta al circolo di teoria ed empiria, per cui le teorie vanno dimostrate empiricamente e viceversa. Inoltre, essa non può che restare alla superficie di una dimensione scientificamente irraggiungibile, un fondo oscuro dell’Io, je grazie al quale ciascuno è libero e dunque suscettibile di imputazione morale e giuridica. Questo fondo dell’Io è da sempre oggetto e soggetto della ricerca filosofica”.
E la genetica chissà quali strade aprirà e Lombroso, che studiò con vivida curiosità darwinismo, spiritismo, psicoanalisi, ne sarebbe interessatissimo.

Auguri e buoni propositi…

Esiste alla fine delle feste natalizie un certo sfinimento. Ci sono momenti in questo periodo che fanno riflettere.
Alcuni sono problemi davvero classici e perlopiù insoluti, come il rapporto con i parenti con cui ci si ritrova tra molte contraddizioni che infrangono certe retoriche sulla famiglia. Si affianca la constatazione che si mangia e si beve troppo e, finita la festa, ci si sente pronti per un periodo di penitenziate e un pelo ipocrita remise en forme.
Ci si porta poi dietro una certa pesantezza da auguri, nel senso che si viene come travolti da questa bulimia di scambi di vario genere scritti e orali, spesso stucchevoli, così come dal rito improbabile dei buoni propositi per il nuovo anno che si spalanca sotto i nostri piedi.
Illuminante - e ogni tanto la cito - la psicoanalista Claude Halmos su Le Monde,cominciando dagli auguri: “Le fait que cette inflation de bons sentiments soit peu crédible explique sans doute que résolutions et vœux soient devenus des exercices artificiels, et un peu vides de sens, auxquels on peut se soumettre sans pour autant leur accorder d’importance”.
Risponde poi ad una domanda topica ”Faudrait-il supprimer les vœux?”: ”Bien sûr que non! D’autant que l’époque nous donne plus que jamais matière à nous souhaiter bien des choses, et d’abord une capacité accrue de résistance aux difficultés et d’adaptation aux changements. Il faut au contraire leur redonner du sens et en faire l’occasion d’un échange avec l’autre, qui, même très court, puisse être chaleureux et vrai. Et il suffit pour cela de prendre les mots au sérieux.
Dire à quelqu’un « Je vous souhaite une bonne année » – ou du moins la meilleure année possible – suppose qu’à défaut de savoir ce qu’il vit (ce que l’on ignore, s’il n’est pas un proche), on ait présent à l’esprit la réalité, forcément complexe, de sa vie. Et dans ce cas, l’autre le sent, parce qu’un être humain perçoit toujours la vérité d’un regard, d’une parole, d’un geste ou d’un sourire”.
Ci sono poi i buoni propositi su cui la dottoressa Halmos parte anche qui da un interrogativo, che risponde al rischio che poi non si concretizzino ”Faudrait-il donc proscrire les « bonnes résolutions: ”Mais non ! Il peut être très utile de profiter du début de l’année pour établir, entre soi et soi, un plan de bataille contre ce qui, dans notre vie, nous fait – physiquement ou psychologiquement – du mal. Mais il faut savoir comment on le fait.
L’important est d’abord de donner à ce que l’on veut changer un autre statut que celui – dévalorisant – de choses que l’on se reproche, voire dont on a honte, car rien ne le justifie. La façon dont nous vivons est toujours, sans que nous le sachions, le produit de notre histoire. Il ne s’agit donc pas de penser qu’il faudrait faire vingt-cinq ans d’analyse pour ne plus se jeter sur toutes les tablettes de chocolat que l’on rencontre, mais de cesser de se considérer comme un coupable.
Ensuite, il faut établir une stratégie que l’on pense juste, et surtout vivable pour soi, et la mettre en œuvre. Non pas en se coupant en deux pour qu’une partie de soi représente le parent – forcément bon – qui va surveiller l’enfant – forcément mauvais – incarné par l’autre partie. Mais en se faisant, avec affection et respect, le compagnon de soi-même ; un compagnon capable de soutenir et d’aider, sans pour autant juger, humilier, condamner ou rejeter. Parce qu’il sait que la tâche est difficile, qu’échouer n’est pas un crime ; et pas non plus un drame, car on pourra toujours tirer, de cet échec, des leçons qui permettront de continuer à avancer.
En fait, il faut transformer les résolutions en souhaits : se souhaiter de réussir, sans se condamner si l’on échoue. Et ainsi mettre en place un rapport plus humanisé avec soi-même”.
Un proposito…augurale condivisibile!
Poi: chi vivrà vedrà.

Gli agit prop

"Ne pas céder aux professionnels de la peur". Questa espressione di Emanuel Macron, Presidente della Repubblica francese, mi è molto piaciuta ed era riferita a certe furiose polemiche scaturite dalla riforma pensionistica in discussione in questi giorni in Francia.
Questa evocazione dei “professionisti della paura” è del tutto convincente. Ne incontro tutti i giorni: sono i catastrofisti che vedono il male dovunque, senza distinzioni. E questo non ha nulla a che fare con le critiche giuste o le denunce fondate. Anche in Valle d’Aosta non viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Ogni giorni io stesso cerco, nei campi di cui mi occupo, di mettere a posto cose che non funzionano o fare in modo che si rivolvano bene certi problemi.
Incontrando cittadini che abbiano ragioni di protesta o preoccupazioni fondate, aumenta la consapevolezza di chi ha responsabilità e non deve nascondere come uno struzzo la testa sotto la sabbia o difendere l’indifendibile.
Ma questo non ha nulla a che fare con chi le proteste le crea e le alimenta in modo pretestuoso e ripetitivo, occupandosi di tutto lo scibile umano con una militanza ossessiva e compulsiva. Chi così si comporta, per partito preso e nella spasmodica logica di occupazione di spazi, merita disistima e compatimento, per non dire di peggio.
Già viviamo in un mondo difficile in un periodo complesso e se ci aggiungiamo chi complica lo scenario e strumentalizza le situazioni non facciamo altro che peggiorare la situazione. Spunta così dal passato una vecchia definizione sempreverde, così riassunta da Treccani: “aġ’ìt pròp: locuz. russa [abbreviazione del sostantivo agitacija «agitazione» e propaganda, con il significato di «sezione per l’agitazione e la propaganda» (nei Comitati del partito comunista sovietico)”.
In italiano è diventato àǧit pròp›) e cioè agitatore e propagandista politico.
Tutto, insomma, viene piegato da costoro a logiche di parte e ad una visione ideologica che serve a proprio uso per caricare i propri militanti e creare sacche di protesta da attrarre nella propria area politica. Si perde la logica democratica del confronto, cavalcando qualunque tipo di protesta e anzi gettando benzina sul fuoco piuttosto che cercando soluzioni o mediazioni alle questioni.
Diceva George Orwell: “La propaganda è veramente un’arma, come i cannoni o le bombe, e imparare a difendersene è importante come trovare riparo durante un attacco aereo”.
Mentre Simone Weil aggiungeva: “Lo scopo manifesto della propaganda è la persuasione, non la comunicazione della luce”.
Naturalmente, ma questo l’ho detto mille volte, i Social peggiorano la situazione, consentendo spazi di manovra e di amplificazione un tempo impensabili. Di conseguenza agguerrite minoranze fanno squadrismo e gonfiano le loro truppe in modo organizzato e mirato. Ci vuole poco a fare tendenza e a costruire castelli in aria o ad artefare la realtà, naturalmente ergendosi come paladini della libertà di opinione e atteggiandosi a coraggiosi fustigatori di qualunque cosa capiti loro a tiro.
In democrazia vanno isolati per l’intrinseca pericolosità e per le loro azioni distorsive che nuocciono e per la zizzania che seminano a piene mani.
Specie in momenti che già di per sé stessi obbligherebbero a cercare più ciò che unisce rispetto a quel che divide: si tratta dunque di un’inutile complicazione, che fa perdere tempo ed energie.

Befana e Re Magi!

Sparisce dalla casa l’albero di Natale e ci si accorge come l’attesa spasmodica per il 25 dicembre scompaia con impressionante sveltezza. Arriva tuttavia in coda e a soccorso l’Epifania che tutte le feste le porta via, anche se già rimbombano in certe zone della Valle d’Aosta i rumori carnevaleschi. La ruota gira…
Da me ci sono due manovre. La prima profana: appare - a riempire le calze d’ordinanza - la Befana, personaggio adoperato dal fascismo per la creazione di un immaginario culturale, nutrito appunto da figure aggreganti, a favore del processo di identità nazionale, in quella logica laica nazionalpopolare che aveva in fondo una venatura anticristiana, presente nel confuso background politico di Benito Mussolini, che aveva messo nel suo progetto, frutto di un caso sfortunato per
l'Italia, mille cose confuse come lo era lui. Chi ne prova nostalgia merita di ricevere il carbone, non a caso nero…
"Befana" deriva da leggende degli Appennini e la definizione nasce, nella solita confusione del sovrapporsi delle tradizioni, da una storpiatura di "Epifania". Parola che, a sua volta, passa dal greco al latino "epiphanīa", appunto "manifestazione di Gesù ai Re Magi", derivata appunto dal greco "epipháneia, manifestazione, apparizione", derivazione a sua volta di "epiphaínomai, mostrarsi, apparire". Vogliamo pensare che dedichiamo la Befana 2023, in modo beneaugurante in quanto donna di carattere, alle donne iraniane che con coraggio hanno acceso una miccia contro il potere teocratico degli Ayatollah?
La seconda manovra è l’apparizione, anche nel mio presepe, proprio dei Magi, personaggi invero piuttosto misteriosi, ma - pensate alla combinazione - che secondo la tradizione partirono dalla PERSIA, odierno IRAN, teatro oggi di violenze gravi e tetre del regime al potere.
In verità nei Vangeli sinottici, quelli "ufficiali", solo quello di Matteo afferma che «Gesù nacque a Betlemme di Giudea al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandarono...». Il plurale adoperato chiarisce che fossero più di uno, ma senza precisarne il numero e non si dice altro.
Qualcosina di più emerge nei Vangeli apocrifi, dove i Magi appunto sono tre e portano i celebri doni: oro, incenso e mirra e spunta la questione, ricca di misteri scientifici, della stella cometa che annunciò loro la Natività. E spuntano pure i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre (quello di colore), anche se i milanesi li chiamavano - a complicare la storia - con i nomi di Rustico, Eleuterio e Dionigio.
Cosa c'entra Milano? Nel 325 dopo Cristo a Costantinopoli, Eustorgio, quando venne nominato vescovo di Milano, ricevette le reliquie dei Magi dall'imperatore Costantino e queste reliquie - improbabili come buona parte dei "resti" dei Santi - furono oggetto nella città meneghina di grande devozione, fino a quando nel 1162 Federico Barbarossa, come bottino di guerra, decise di spostare a Colonia i resti mortali dei Magi.
Reliquie che scomparvero dopo i bombardamenti alleati su Colonia alla fine della seconda guerra mondiale, che investirono anche il duomo della città. Un tassello nel puzzle dei misteri e della difficile simbolistica legata ai Magi.
Oggi ci serve a rievocare gli orrori delle guerre del passato, senza dimenticare la guerra attuale in Ucraina con l’ipocrisia del dittatore Putin, assalitore e invasore di uno Stato sovrano, che in queste ore aveva lanciato la proposta beffarda di una tregua dalle 12 del 6 gennaio alle 24 del 7 per il Natale ortodosso, dicendosi ispirato dal suo degno compare, il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill, che in questo anno ha assecondato il folle progetto del dittatore russo, sporcandosi le mani di sangue. Che non abbiano il coraggio di parlare di Pace!

Casinò: soddisfazione e prudenza

Il buon risultato economico per il Casino de la Vallée nel 2022 è incoraggiante per il suo futuro. Lo accolgo, avendone seguito da vicino le vicende per la delega che ho avuto sulle Partecipate, con soddisfazione, pur mantenendo la prudenza necessaria.
Nel 2024 scadrà il concordato, che si ottenne con qualche difficoltà, e che ha condizioni finanziarie nella sua applicazione molto pesanti e da qui ad allora bisognerà mantenere tutte le attenzioni necessarie, senza sbandamenti, per restare in carreggiata.
Il periodo pandemico aveva creato enormi apprensioni e oggi i costi energetici restano una grave minaccia e ed è bene tenere conto sempre sotto controllo il costo del lavoro. Ci vorrà da parte di tutti senso di responsabilità, facendo tesoro degli errori del passato, che portarono ad un pelo dal fallimento, avendo qualcuno scelto consapevolmente di non raccontare la verità sullo stato di difficoltà del Casinò.
Credo di essere fra coloro che conoscono meglio l’ormai lunga storia della Casa da gioco dal 1947 ad oggi. Un percorso costellato da momenti gloriosi e da grandi risultati, ma anche da periodi complessi in gran parte legati a vicende giudiziarie con coinvolgimento della politica con esiti spesso ben diversi dalle prime prospettazioni accusatorie con clamore mediatico.
Intendiamoci: un Casinò non è un convento delle orsoline e bisogna giustamente sempre mantenere tutte le attenzioni necessarie. Il gioco d’azzardo, ormai base importante delle finanze italiane (lo scrivo contro certe ipocrisie), è attività da vigilare e un Casinò, con la sua rete di controlli, è certo più sicuro di altre attività.
Certo nel tempo molto è cambiato anche a Saint-Vincent. Sono stato testimone di questi cambiamenti, soprattutto di clientela (dal lusso alla massa), e ho conosciuto i diversi protagonisti delle differenti stagioni, cominciando dai ricordi di bambino del conte Gabriele Cotta, figura carismatica della prima e lunga gestione privata. Sono poi sfilate molte altre personalità, che ho conosciuto, nel bene e nel male, prima come giornalista e poi come politico.
Oggi la gestione è pubblica e venne decisa a tutela del futuro del Casinò. Ho già detto - e figura nei documenti di programmazione approvati dal Consiglio Valle - che è ora di esaminare, in coerenza con certi ragionamenti della sezione di controllo della Corte dei Conti in una sua recente relazione, possibili strade diverse dal pubblico. Va fatto con opportuni approfondimenti giuridici e economici, che consentano scelte oculate.
Per Saint-Vincent e per la Valle il Casinò, con buona pace di chi in passato ne predicò la chiusura e ben ricordo chi lo disse, resta una risorsa importante, a condizione che ci sia una gestione sana e si allontanino logiche clientelari che mai fanno del bene dovunque si manifestino.
Vorrei anche segnalare lo spirito di sacrificio dei dipendenti, che hanno dovuto rivedere i loro stipendi, e questo è avvenuto grazie all’atteggiamento collaborativo dei Sindacati, che sono stati informati per filo e per segno sulle prospettive future.
Aggiungerei ancora due questioni. La prima: sarebbe bene, al di là della legittima concorrenza fra di loro, che le quattro Case da gioco facessero un’azione comune per ricordare il loro ruolo ad uno Stato abnorme biscazziere del gioco d'azzardo. Un esempio concreto: togliere il divieto di pubblicità oggi vigente per le Case da gioco, quando si consente a tutte le altre forme di organizzazione del gioco di poterlo fare.
Secondo tema: cresce una consapevolezza di un rischio di invecchiamento dei giochi offerti dalla Casa da gioco e la necessità di capire cosa vogliano i giovani, ipnotizzati dai videogiochi. Oggi bisogna trovare strade nuove e più appetibili, lavorando anche con Saint-Vincent e Comuni limitrofi per ridare brio all’offerta del territorio che attiri la clientela, al di là delle sale da gioco. Non si può vivere di nostalgie dei tempi d’oro, ma bisogna trovare nuovi equilibri per rinnovare, partendo da una situazione solida.

Addio alla conversazione

Conversare è un piacere della vita. Certo dipende dalle situazioni e dagli interlocutori. Diceva lo scrittore André Maurois: “La conversazione è un edificio al quale si lavora in comune. Gli interlocutori devono sistemare le loro frasi pensando all'effetto d'insieme, come fanno i muratori con le pietre.”
Esisteva un tempo e io l’ho vissuto in un viaggio in aereo o in treno parlando con chi mi era vicino, piuttosto che in una sala d’attesa di un medico o in un pranzo conviviale. Parlare con altre persone era l’assoluta normalità e faceva parte della normalità. Un piacere, che creava persino amicizie inaspettate.
Oggi non è più così e si perde di conseguenza uno degli aspetti fondativi dei rapporti umani e sociali.
David Le Breton, sociologo e antropologo, ne ha scritto su Le Monde.
Così inizia: “Dans le monde contemporain de l’hyperconnexion, les conversations qui sollicitent un face-à-face ou plutôt un visage-à-visage, une écoute, une attention à l’autre, à ses expressions, deviennent rares, de même le tact qui les nourrissait. Souvent, en effet, elles sont rompues par des interlocuteurs toujours là physiquement, mais qui disparaissent soudain après l’audition d’une sonnerie de leur portable ou dans le geste addictif de retirer ce dernier de leur poche dans la quête lancinante d’un message quelconque qui rend secondaire la présence bien réelle de leur vis-à-vis.
Ils regardent ailleurs et quittent l’interaction, abandonnant là leur interlocuteur qui reste les bras ballants, en se demandant que faire de ce temps d’effacement de la présence, ce moment pénible où on l’a éteint en appuyant sur la touche « pause » de l’existence“.
Questa sparizione vera e propria ha implicazioni familiari che emergono in modo macroscopico in periodo festivo, quando le occasioni mondane sono superiori e si riflette anche nella sfera più intima.
Ancora Le Breton: ”Même le repas de famille, autrefois haut lieu de transmission et de retrouvailles, tend à disparaître. Chacun arrive à son heure et va chercher à la cuisine les plats achetés tout prêts au supermarché avant de s’abandonner à son écran personnel. Dans nombre de familles, le repas est une assemblée cordiale de zombies qui mangent d’une bouche distraite, peu attentifs au goût des aliments, dans l’indifférence à la proximité des autres, tous absorbés par leur cellulaire ou leurs écrans divers”.
Non solo adulti, ma anche bambini che non giocano più fra loro, vittime di una sorta di spegnimento legato all’uso di un telefonino o di un tablet, alienante baby sitter del nuovo millennio.
Guardate coppie o gruppi di amici o colleghi a tavola, chiusi nella loro dimensione virtuale: ”Les restaurants renvoient la même image d’hommes ou de femmes qui, après de brèves minutes de congratulations mutuelles, disparaissent rapidement derrière leur portable. Ils sont autour de la même table, mais seuls, les yeux captifs de leur écran, dans l’oubli de ce qu’ils mangent et du fait qu’ils sont censés être entre amis ou collègues. La conversation est en voie de disparition, vestige archaïque d’un temps révolu ».
Siamo zombie anche per strada e ci stupisce l’interruzione di chi ci domandi un’informazione o un amico che ci fermi per salutarci, mentre siamo immersi nello schermo del nostro apparato.
Ancora Le Breton: ”Nous entrons en ce sens dans une société fantomatique où, même dans les rues, les yeux sont baissés sur l’écran dans un geste d’adoration perpétuelle, et non plus ouverts sur le monde environnant. La plupart de nos contemporains sont aujourd’hui presque en permanence prosternés devant leur portable qui les pousse en avant ou les maintient dans une sorte d’hypnose sans fin qui les coupe de leur environnement immédiat. Ils parlent seuls, commentant souvent leurs faits et gestes. Ce qu’ils disent importe finalement peu”.
Siamo ad una trasformazione fisica e mentale con cui il sociologo chiude la sua riflessione: ”Le portable est devenu partout autour de nous un cinquième membre, encore plus ou moins détachable avant qu’il ne soit greffé à une main ou à une oreille. On n’a jamais autant communiqué, mais jamais aussi peu parlé ensemble.(…) Ce recours hypnotique au portable ajoute encore à l’hyperindividualisation de nos sociétés, il renforce l’indifférence aux autres autour de soi que l’on heurte parfois sur le trottoir tant l’attention est captive de l’écran. Chacun désormais tend à faire un monde à lui tout seul. La réciprocité du visage-à-visage dans la respiration de l’échange devient une exception”.
Infine, come non condividere? ”Avant l’arrivée des techniques modernes de communication, et notamment le téléphone cellulaire ou Internet, les gens se parlaient à la table familiale, au travail lors des pauses, au restaurant, dans les cafés, les transports en commun, sur le chemin du travail ou du domicile. Souvent, aujourd’hui, le téléphone en main, chacun, autour de la table ou en marchant avec les autres, consulte ses mails ou envoie un SMS, en distribuant les miettes de quelques mots de temps en temps comme pour rappeler aux autres qu’ils existent quand même malgré la parenthèse, mais ils pourraient très bien ne pas être là. La connexion prend le pas sur une conversation renvoyée à un anachronisme”.
Triste destino e sfuggono, senza fare troppi piagnistei, le soluzioni concrete per spezzare la bolla dentro cui siamo spesso prigionieri per nostra stessa responsabilità.

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