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22 mar 2020

Tamponi a caccia degli asintomatici?

di Luciano Caveri

Incalzato dall'attualità, vorrei capire se esiste una sensibilità rispetto ad un dibattito che si sta sviluppando in queste ore in molte Regioni italiane. Una premessa: non invidio affatto le autorità politiche che devono assumere decisioni importanti per fermare l'epidemia da "coronavirus". So bene quanto sia più facile criticare che fare e quanto sia difficile avere in certi frangenti le energie necessarie per reggere momenti di stress e reagire con equilibrio e lucidità alle avversità. Mi pare - per essere concreto - che nel caso valdostano, dove il virus sta colpendo duro e siamo la seconda Regione dopo la Lombardia comparando il diverso numero di abitanti ed i casi registrati, ci siano scelte da fare significative, sapendo che le risposte non sono un automatismo, ma devono tener conto della particolarità di ogni zona infettata.

Partirei da un assunto: «La grande maggioranza delle persone infettate da "covid-19", tra il cinquanta e il 75 per cento, è completamente asintomatica ma rappresenta una formidabile fonte di contagio». L'affermazione si deve al professore ordinario di Immunologia clinica dell'Università di Firenze, Sergio Romagnani, sulla base dello studio sugli abitanti di Vo' Euganeo, uno dei primi focolai in Veneto, dove i tremila abitanti del paese sono stati sottoposti tutti al tampone che accerta la presenza della malattia. Prosegue il medico: «La percentuale delle persone infette, anche se asintomatiche, nella popolazione è altissima e rappresenta la maggioranza dei casi soprattutto, ma non solo, tra i giovani; e l'isolamento degli asintomatici è essenziale per riuscire a controllare la diffusione del virus e la gravità della malattia». Per Romagnani bisogna «cercare di scovare le persone asintomatiche ma comunque già infettate perché nessuno le teme o le isola. Questo è particolarmente vero per categorie come i medici e gli infermieri che sviluppano frequentemente un'infezione asintomatica continuando a veicolare l'infezione tra loro e ai loro pazienti». E ancora: «Si sta decidendo di non fare più il tampone ai medici e agli infermieri a meno che non sviluppino sintomi. Ma alla luce dei risultati dello studio di Vo', questa decisione può essere estremamente pericolosa; gli ospedali rischiano di diventare zone ad alta prevalenza di infettati in cui nessun infetto è isolato». «A Vo' - sottolinea ancora Romagnani - con l'isolamento dei soggetti infettati il numero totale dei malati è scesa da 88 a sette (almeno dieci volte meno) nel giro di 7-10 giorni. L'isolamento dei contagiati (sintomatici o non sintomatici) non solo risultava capace di proteggere dal contagio altre persone, ma appariva in grado di proteggere anche dalla evoluzione grave della malattia nei soggetti contagiati perché il tasso di guarigione nei pazienti infettati, se isolati, era nel sessanta per cento dei casi pari a soli otto giorni». Anche Massimo Galli, responsabile di Malattie infettive all'ospedale "Sacco" di Milano, in prima linea contro l'emergenza "covid-19", e professore ordinario dell'Università Statale del capoluogo lombardo sostiene che bisogna fare più tamponi. Si chiama "sorveglianza attiva massiva". In questo modo è possibile - lo ripeto - scovare gli asintomatici, che sono una fonte di malattia. Ho letto e ribadisco che per ogni caso confermato, ci sono probabilmente altre 5-10 persone con infezioni non rilevate. Questi casi spesso più lievi sono, in media, infettivi per circa la metà rispetto a quelli confermati, ma sarebbero responsabili di circa l'ottanta per cento dei nuovi casi. Conosco le due obiezioni principali, che non sono i costi, che ritengo sopportabili sul piano finanziario (ricordo che per i Comuni gli avanzi di amministrazione possono essere spesi per il "coronavirus"), quanto la difficoltà di dispiegare sul territorio personale e mezzi per farlo, oltretutto in piena ascesa del virus e dunque in emergenza. Vi sarebbe più da superare l'imbuto attuale della sola apparecchiatura di analisi, di recente acquisita, che processa per ora una sessantina di tamponi per arrivare ad una novantina e dunque un sistema massivo di prelievi crollerebbe per l'attesa dei responsi. E' chiaro che ci vorrebbe uno sforzo corale per un lavoro così complesso, concepibile solo con un aiuto esterno (la sanità militare, una collaborazione europea?) per fare della Valle d'Aosta un'area test che possa diventare utile per uno studio epidemiologico su vasta scala, impossibile in regioni con milioni di abitanti. La stessa scelta di accertamenti massicci in Veneto toccherà proprio per questo solo alcune zone più colpite di altre non potendo toccare la totalità degli abitanti. Altra strada forse percorribile è «contattate le aziende biotecnologiche che stanno lavorando per realizzare test rapidi, più economici e comunque affidabili per verificarne l'efficacia sul campo». Sono idee che butto lì, pur non avendo competenze specifiche, ma credo che si debba rispondere in modo concreto ad una situazione che anche da noi peggiora e sinora non si assesta.