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16 apr 2021

Lavare la testa all'asino

di Luciano Caveri

Sono un inguaribile ingenuo e credo che mai ne guarirò. Quando ho cominciato a far politica pensavo di poter essere seduttivo o meglio in grado di operare quella che si definisce moral suasion verso le persone che su certi argomenti la pensavano diversamente da me. Ritenevo insomma che mettere sul tavolo buone ragioni o idee convincenti potesse permettere di superare divisioni e incomprensioni nel solco di scelte che consideravo valide e intelligenti. Nella pratica ho poi scoperto che in politica ci sono quelli che vivono di ideologismi e preconcetti e sono legati a visioni intoccabili e granitiche, oltre ogni logica di confronto o buonsenso. In molti casi ho capito che perdevo tempo ed energie ed era inutile, come diceva il mio papà, come «lavare la testa agli asini», che ho poi scoperto essere così nella sua versione completa «A lavare la testa all'asino si perde il tempo, l'acqua e il sapone».

Nella sua dizione popolare mostra quanto sia inutile, ragionare, discutere, con chi è ignorante e cocciuto. In politica con chi, soldatino delle sue convinzioni intoccabili, discute senza voler trovare mediazioni, considerando solo la sua la strada buona. Questo è figlio dell'integralismo, altrimenti detto estremismo, massimalismo, radicalismo. Ne conosco e ne frequento. Sono come robot e se provi un'opera di convincimento scopri con orrore che con loro non si batte chiodo. Tornano anche dopo dibattiti lunghi ed articolati al loro stesso punto di partenza e il fatto di essere così chiusi e impermeabili a qualunque idea diversa dalla loro finisce per essere per loro stessi un motivo di vanto. Si sentono bravi nel "tenere duro". Il mio amato Bertrand Russel, lettura giovanile, mi aveva ammonito: «Il problema dell'umanità è che gli sciocchi e i fanatici sono estremamente sicuri di loro stessi, mentre le persone più sagge sono piene di dubbi». Eppure resto uno zuccone e di fronte al post pandemia, che sarà momento difficilissimo ma pieno di possibilità se sapremo cogliere, mi piacerebbe davvero provare ancora a mettere in campo la mia ingenuità. Auspicherei infatti un periodo in politica di vera sospensione di estremismi e intransigenze, definendo alcuni precisi punti su cui sforzarsi di convergere, ciascuno rinunciando a qualcosa nel nome del bene pubblico, oggi con il vestito del bene comune, che è più di moda. Ha scritto Salvatore Settis: «"Bene comune" vuol dire coltivare una visione lungimirante, vuol dire investire sul futuro, vuol dire preoccuparsi della comunità dei cittadini, vuol dire anteporre l'interesse a lungo termine di tutti all'immediato profitto dei pochi, vuol dire prestare prioritaria attenzione ai giovani, alla loro formazione e alle loro necessità. Vuol dire anteporre l'eredità che dobbiamo consegnare alle generazioni future all'istinto primordiale di divorare tutto e subito». Per ripartire dopo il buco nero in cui siamo caduti mi sembra un bello spunto. Non è consociativismo o il terribile "Franza o Spagna, purché se magna", come ammoniva il Guicciardini più di quattrocento anni fa. Si tratta in momenti difficili di ergersi "au-dessus de la mêlée" cioè sospendere per un attimo guerre e guerricciole, tenendosi fuori dalla lotta o dai litigi, dalle competizioni, giudicando con serena obiettività un periodo eccezionale che richiede, pur adeguato ai tempi, quel "idem sentire de republica" (alla lettera, "avere lo stesso concetto dello stato") concetto romano della necessità di un'omogeneità culturale e nel caso che pongo anche politica almeno per le questioni veramente di fondo di una comunità sociale. Cosa c'è di più di un post pandemia che somiglierà ad un dopoguerra?