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31 mag 2022

Siamo tutti ragazzi…

di Luciano Caveri

E' interessante la rappresentazione che ciascuno ha di sé e pure quella che di ognuno di noi hanno gli altri. Per esempio a me diverte molto che la gran parte delle persone adulte che incontro nel mio ruolo pubblico mi chiamino direttamente «Luciano», senza adoperare chissà quale titolo, di cui non c'è bisogno. Immagino che sia una sorta di familiarità, perché dopo tanti anni in cui uno ha incarichi noti finisci per essere una presenza conosciuta e direi "domestica" con cui avere un approccio colloquiale e non formale. C'è in generale un'evoluzione dei costumi con aspetti positivi come questo, mentre mi pare non altrettanto condivisibile l'abuso del «tu» e pure lo straordinario utilizzo del termine «ragazzo». Certo, fa piacere quando si è già vecchiotti sentirsi apostrofare, specie se in un gruppo di "attempati", con «cosa volete bere, ragazzi?».

Siamo in un mondo in cui si abusa di giovanilismo, rasentando spesso il ridicolo perché - per uomini o donne - ci vorrebbe un bon ton legato alla propria generazione per non apparire patetici o almeno inappropriati. Giuseppe Antonelli, linguista ed accademico, su "Sette" illumina la scena dal punto di vista linguistico: «L'altro giorno sono passato davanti a due signori di mezza età (più o meno la mia) mentre uno diceva all'altro "Quanti anni ha questo ragazzo?" e l'altro rispondeva "58". Il dialogo era neutro, nel senso che mancava - nella domanda e nella risposta - qualunque intenzione ironica. Negli ultimi anni, d'altronde, anche a me (che appunto ne sto per compiere 52) è capitato più di una volta di sentirmi apostrofare come ragazzo. Tipicamente, in fila al banco di un negozio o nella sala d'attesa del medico di famiglia: "A chi tocca ora?", "Al ragazzo"; "Chi è l'ultimo?", "Il ragazzo"». Mio esatto stato d'animo con cui prosegue il linguista: «Consapevole di non avere affatto l'aspetto del ragazzo, mi guardavo un po' intorno finché non capivo che si riferivano a me. Ogni tanto non resistevo ed esordivo: "Grazie per il ragazzo: vorrei sei panini…"». Sarà perché ormai "signore" e "signora" non si usano quasi più, ma l'estensione del significato di "ragazzo" e "ragazza" sembra essersi spinta fin quasi ai confini della senilità. Con evidenti conseguenze, oltre che linguistiche, psicologiche e sociologiche». Si entra poi nel campo della semantica: «Perché considerarsi o essere considerati giovani ad oltranza implica una serie di atteggiamenti e comportamenti che rinviano sempre un po' di più il passaggio a quella che è stata chiamata (dal 1946) "adultità". E infatti già dai primi anni Duemila si sente parlare di "adultescenza" (dall'inglese "adultescence"), parola che però - alludendo al prolungarsi dell'adolescenza - indicherebbe propriamente una fascia tra i 25 e i 35 anni». «Un riflesso di questa percezione dilatata dell'età a cui si può riferire la parola "ragazzo" - prosegue Antonelli - è il fatto che siano diventate usuali formulazioni come "un giovane ragazzo" o "un ragazzo giovane". Se si va a verificare con gli strumenti di ricerca che offre Google, si vede che la loro frequenza nei testi a stampa in italiano si è impennata soprattutto a partire dall'ultimo decennio del Novecento (con una maggiore ricorrenza delle espressioni al femminile). Ai primi del Duemila, Luca Serianni ne parlava nella sua "Prima lezione di grammatica": "un giovane ragazzo, è difficile incontrare ragazzi vecchi; tutto torna a posto collocando l'aggettivo dopo il sostantivo, cioè in posizione distintiva, un ragazzo giovane; in tal caso, ovviando all'attuale dilatazione semantica del vocabolo, si vuole alludere a un adolescente, cioè a un "vero" ragazzo, non a un trentenne". O a un cinquantenne, si potrebbe aggiungere oggi. E pensare che il significato generico di "ragazzo" nel senso di "giovane" ha cominciato a diffondersi solo dal Seicento. Nell'italiano antico il vocabolo indicava soltanto chi faceva lavori umili come il mozzo di stalla, maneggiando la striglia per il suo signore ("e non vidi già mai menare stregghia / a ragazzo aspettato dal segnorso" scrive Dante nell'Inferno). Secondo l'etimo più accreditato - in effetti - la parola deriva dall'arabo "raqqas", in origine "danzatore", che nel Medioevo era usata nel Maghreb per indicare i giovani corrieri che portavano le lettere da un ufficio all'altro. Da garzone a signore, da adolescente a simil-giovane: un significato davvero ballerino!». Roba da mettersi le mani nei capelli, per chi ce li ha!