blog di luciano

Dal paradigma alla suggestione

Capisco che talvolta - sarà l’età? - rischio di essere ripetitivo. Ma torno tambour battant sulle parole.
Mario Postizzi, che scrive aforismi, ha detto: ”Nel vocabolario le parole sono allineate, stanno sull’attenti, hanno la faccia pulita. Appena si incrostano di realtà, rompono le righe e si liberano disordinatamente nelle piazze: allentano cintura e cravatta, mostrano la lingua e si sporcano le mani”.
Già, le mani! Mi viene in mente quando da deputato partecipavo alle assemblee dei sordomuti e ce n’erano che, grazie ad apposita formazione, riuscivano comunque a parlare ed altri - affascinanti i loro movimenti delle mani - comunicavano con la lingua dei disegni, disegnando appunto nell’aria i loro discorsi.
Più volte mi sono occupato della parole e della loro parabola discendente nell’uso comune. Leggevo di 250 mila unità lessicali della lingua italiana, senza contare le flessioni dei verbi e dei sostantivi: nel 2004, infatti, ammontavano a circa 2 milioni. Il livello più basso nell’uso personale sarebbe 6500, che crollano per alcuni con un vocabolario poverissimo a 2000.
Ma soprattutto ci sono delle parole star che brillano e poi, come le stelle, si trasformano e collassano.
Ha scritto sul Corriere Paolo Di Stefano: “Ecco un’altra parola che piace molto con «narrazione» e «storytelling». La parola è: «paradigma». E le espressioni più frequenti sono: «cambio di paradigma» e «nuovo paradigma». Che promettono molto senza precisare (e mantenere) niente. Si richiede ovunque un cambio di paradigma: nella salute, nella politica, nell’informazione, nel food. Il declino demografico impone un nuovo paradigma, l’educazione idem, alla difesa dei Paesi europei si impone un cambio di paradigma, così come al fisco, alle emozioni e alla psicologia. E figurarsi se l’intelligenza artificiale non obbliga a un cambio di paradigma. Persino la Pontificia Accademia di Teologia auspica un «cambio di paradigma», chiamando, come vuole il Papa, a una «coraggiosa rivoluzione culturale» verso una teologia meno astratta e più vicina ai contesti sociali. Non c’è nessuno in nessun settore pubblico e privato che non invochi un nuovo paradigma. Uno storico della scienza americano, Thomas Samuel Kuhn, elaborò nei primi anni 60 il concetto di «cambiamento di paradigma» come «rivoluzione scientifica» che supera i modelli precedenti, ormai desueti se non errati. L’uso vulgato attuale di «paradigma» non ha nulla a che fare con la scienza e ne fa piuttosto una parolina vuota e plurivalente: l’importante è affermare di volerlo cambiare, il paradigma, non importa quale, come e perché”.
Annoto che anche storytelling mi pare finito abbastanza nel dimenticatoio.
In Valle d’Aosta - e chi segue il Consiglio regionale lo sa bene - è invece esploso l’uso della parola “suggestione” come se si trattasse di “suggerimento”. È un uso che personalmente considero improprio.
La Treccani propone tre definizioni. La prima: “Fenomeno della coscienza per cui un’idea, una convinzione, un desiderio, un comportamento sono imposti dall’esterno, da altre persone (la forma estrema è la suggestione ipnotica”. La seconda: “Con significato più generico e attenuato (vicino a quello di suggestività, fascino)”. La terza testimonia l’uso che a me non piace: “Termine usato talora impropriamente con il significato. di «suggerimento» (per influenza dell’inglese suggestion, che ha questo come significato principale)”.
Nel caso valdostano è probabile che possa derivare più dall’uso simile che si fa in francese. Il fenomeno linguistico è interessante e si chiama “calco semantico”, vale a dire il caso di una parola che, avendo un suo significato in una lingua, per analogia con una parola di forma simile di un'altra lingua ne acquista un altro (che in alcuni casi finisce col soppiantare il primo).
Per cui questa spiegazione mi porterà a sopportare con pazienza la…suggestione.

La forza della condivisione

Scrivere di politica significa esporsi, dicendo qual è il proprio pensiero. Diverso è chi non lo fa e in modo spregiudicato si adegua ad un costume molto italiano, il camaleontismo. Si tratta, come noto, dell’atteggiamento mutevole e ipocrita di chi, per opportunismo e per restare a galla, muta facilmente opinioni in politica, secondo le circostanze alla ricerca di un posizionamento vantaggioso, così come fa il camaleonte nel mutare colore con una scelta di autodifesa in quel caso non deprecabile.
Avevo detto che non avrei più scritto della famosa réunion, réunification, recomposition, reconstruction o come diavolo la si voglia chiamare sinché non ci fosse stata una tappa finale del processo che tanto attendevo. Ora penso che neppure il più scettico avrebbe ragioni per tornare indietro e certo per chi scegliesse nell’ultimo miglio di trovare delle argomentazioni per farlo dovrebbe davvero arrampicarsi sui vetri e credo che ne pagherebbe un conto salato.
Per cui ora posso scriverne con chiarezza e senza infingimenti. E senza che si pensi che faccia tutto questo per interessi di bottega. Sarebbe triste che si pensasse che questa storia risultasse una specie di pantomima e non una volontà sincera.
Una delle mie speranze nel cammino per avere una sola grande casa autonomista sotto il simbolo dell’Union Valdôtaine è che si faccia questa scelta in una logica di concordia, parola che va immaginata - e lasciatemi usare un’attitudine retorica - di cuori che battono all’unisono.
Ha scritto Dante Alighieri: ”La concordia è uniforme movimento di più volontà”. Già, questo significa uno sforzo comune, che non va troppo enfatizzato, quando si tratta di raggiungere un risultato che è necessario e doveroso.
Viviamo in un mondo difficile ed è bene averne consapevolezza. Non per spaventarci di fronte a questa condizione umana purtroppo per nulla straordinaria.
La Valle d’Aosta è piccola e si sta pure restringendo con meno nati e immigrati più o meno recenti che se ne vanno. È chiaro poi come gli elementi identitari debbano fare i conti con un mondo che ci entra in casa e modifica i modi di essere.
Il teologo Ermes Maria Ronchi ha scritto: “La mia identità è in divenire perenne. Non ho un'identità da proteggere, ho un'identità da realizzare, un'identità che avanza, che cresce, che evolve. La mia identità di oggi non è più quella di ieri. Chi sono io? Sono le mie idee che ho cambiato, le emozioni che ho avuto, belle o brutte, sono la mia volontà. La mia identità è il comporsi di tutte queste cose, per cui sono braccia che si stendono, non sono radici immobili”.
Questo vale anche per una comunità e chi la vorrebbe musealizzare o farne un archetipo intoccabile è realista. Questo vale anche per un movimento politico: chi guarda a modellistiche valide in un passato assai diverso dall’oggi è destinato a perdere il contatto con la realtà. Bisogna essere contemporanei e non nostalgici, oltreché saldamente all’interno del recinto della democrazia.
Lo scrittore Raffaele La Capria esprime bene il concetto: “Un'identità forte è una finestra sul mondo, capace di includere in sé anche le altre. Se è debole, invece, si limita a glorificare se stessa, rinchiudendosi nei confini del localismo”.
Il localismo è un modo per stare chiusi come prigionieri, situazione neppure tanto rassicurante. Chi mantiene un’identità, pur cangiante nel tempo ma salda, si mostra senza complessi attento al confronto e al dialogo, fiero della propria cultura nell’interesse di conoscere quella degli altri per evitare di diventare un ramo secco.

Uomini con le mani sporche di sangue

Di questa giovane ventiduenne, Giulia Cecchettin, picchiata e uccisa a coltellate da un ex fidanzato che diceva di amarla, sappiamo ormai tutto. In particolare i contenitori tv e i telegiornali, ma pure i giornali non si sono risparmiati, e - sulla tragedia ancora in corso - sono stati intervistati parenti e amici in ore di trasmissione che cavalcavano l’emotività di un ricerca finita come sappiamo.
Come vecchio giornalista so bene che si trattava di una notizia trainante, ma c’è stata una totale mancanza di equilibrio, di deontologia e di tatto, per altro ben sapendo chiunque, dopo poco tempo, che l’epilogo sarebbe stato terribile. Invece sono stati spesi fiumi di parole con il solito triste fil rouge del “bravo ragazzo” diventato assassino e lei, la ragazza, radiografata sin nei risvolti più privati della sua vita.
Gli orrori piacciono, le vicende torve incuriosiscono, le mostruosità catturano le aperture dei Tg e le prime pagine. Un voyeurismo che ha le sue ragioni, perché informare è un dovere e lo è la cronaca nera censurata nelle dittature, ma il troppo stroppia quando si guarda dal buco della serratura, si mostrano foto e immagini personali tratte dai social, si intervista chiunque capiti a tiro per cercare scoop improbabili e guadagnare qualche punto di share.
Ho già detto che questa esaltazione di fatti che riguardano uccisioni di donne innesca - e lo dicono i numeri - processi imitativi che non sono sanabili a colpi di codice penale. Esiste qualcosa di profondo, al di là della banalità che la follia resta fra noi e non è sparita con la chiusura dei manicomi mai sostituiti da servizi efficaci e civili. Mi riferisco alla presenza crescente di uomini che perdono la ragione e questo fenomeno va indagato in profondità.
Provo un dolore profondo nel pensare a queste donne dalla vita spezzata e a leggere che la giovane laureanda uccisa subiva da tempo angherie e minacce, avvolte dall’ambigua carta regalo come alibi del grande amore. Questo ennesimo espiatorio ci porta a chiederci se questi parenti affranti e gli amici partecipi post mortem non avessero qualcosa da dire prima! I genitori del ragazzo parimenti non avevano visto in questo suo amore malato, nel carattere ombroso ora descritto un seme di una malattia evidente che forse poteva essere curata?
So quanto sia facile fare certi ragionamenti ex post, ma il numero crescente di delitti ci interroga tutti e, passato anche questo delitto in attesa di nuove vicende sanguinarie, è ora di mobilitarci ancora di più - e senza divisioni ideologiche - su quali alert mettere in campo nella quotidianità. Per evitare il triste rosario di morte per violenze che fanno orrore e di fronte alla quali ci si sente tristemente impotenti.
Ha detto lo psichiatra Paolo Crepet: "Dietro a ogni assassino c’è spesso una donna, sua madre. Un uomo che disprezza le donne è stato mal educato nella relazione con l’altro sesso dalla propria famiglia. Il contesto di provenienza è quello in cui si crede che se la donna viene trattata male, è giusto. Non si comincia a essere assassini il giorno in cui si compie il delitto, qualcosa c’è già dietro. Sono certo che se avessi modo di parlare con le ex di un giovane killer, troverei spunti di aggressività in tante altre storie".
Il suo collega Umberto Galimberti sostiene: “Gli attacchi alle donne sono spesso atroci perché gli uomini vogliono cancellare qualcosa che sentono non appartenergli più, che non comprendono e ritengono un pericolo. Contro la violenza di genere bisogna educare fin dall’asilo a passare dalla fase pulsionale, naturale e senza linguaggio, a quella sentimentale”.
Bisogna - questa la tesi - capire di più le donne e i loro sentimenti ed è - giusto ammetterlo - un percorso difficile per noi uomini e io stesso nella vita ho dovuto migliorarmi su questo terreno.
Sia chiaro, però che chi uccide o compie atti violenti, con buona pace degli avvocati difensori che spesso riversano fiotti di veleni, non potrà mai accampare neppure una briciola di giustificazione.

Sostenibilità e buonsenso

Le parole vanno e vengono e bisogna farsene una ragione. Pensiamo a “resilienza”, che è stata così abusata da finire con grande rapidità nel dimenticatoio.
Ora è subentrata la sorellastra “sostenibilità”, adoperata in tutti i contesti possibili. Nasce in quel lessico dei documenti internazionali, che poi si impone per un generale martellamento. Se si deve essere precisi spunta dall’inglese “sustainability”, ma con quarti nobili dal latino “sustinere”, che significa sostenere, difendere, favorire, conservare, prendersi cura. L’attuale concetto di sostenibilità cominciò a diffondersi negli anni ‘80 e venne adottato ufficialmente a Stoccolma, in Svezia, nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente e poi rimbalza sino al successo odierno in Conferenze analoghe da Stoccolma a Rio de Janeiro. E proprio in Brasile l’abbraccio con “sviluppo”, che sortisce “sviluppo sostenibile” nella ben nota Agenda 21. Una definizione facile a dirsi, ma difficile a farsi. Sarebbe: “Uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.
Dieci anni dopo il Summinit di Rio de Janeiro, le azioni dell’Agenda 21 si sono rafforzate in occasione del vertice della Terra sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg con l’ambizione di mettere assieme le dimensioni sociale, economica e ambientale.
Da allora, in modo invasivo, il termine sostenibilità è stato incorporato e utilizzato dalla politica, dalla finanza, dai mass media sino a calarsi - come il prezzemolo - nell’uso comune e lo si vede bene da come la pubblicità di qualunque prodotto usi la parola in modo ossessivo e talvolta grottesco. Quanto durerà? Il tempo che un nuovo termine chiave si affermi, ma nel frattempo - per fare un esempio - con il “bilancio di sostenibilità” ne vedremo delle belle!
Ragionavo in giorni sulla grande dispersione di temi che la sostenibilità e i suoi principi impongono ad una piccola comunità come la nostra. Sicuramente il settore energetico è un elemento cardine e abbiamo certo la possibilità di lavorarci attraverso la strategia che la Valle d’Aosta scelse anni fa. Ne ricordo gli elementi essenziali tratti dalla premessa ai documenti ufficiali: “Con l'ambizioso obiettivo di rendere il proprio territorio "Fossil Fuel Free" entro il 2040 e di pervenire così a un nuovo modello di sostenibilità ambientale ed energetica, la Regione Autonoma Valle d'Aosta ha deciso, con un ordine del giorno approvato all'unanimità dal Consiglio regionale nella seduta del 18 dicembre 2018, di redigere una specifica Roadmap che indicasse le linee di azione da perseguire per il raggiungimento di tale risultato.
La realtà valdostana, caratterizzata da un'importante produzione di energia idroelettrica e da un ricco patrimonio forestale, si presta allo sviluppo e alla sperimentazione di politiche innovative volte a un utilizzo sempre maggiore delle fonti energetiche rinnovabili, associate però, in via prioritaria, all'efficientamento e alla riduzione dei consumi energetici in tutti i settori.
Al contempo sono diversi i fattori - ambientali e antropici - caratterizzanti il territorio regionale che rendono più difficoltoso tale percorso. L'ambiente montano, il clima alpino, un abitato poco concentrato, ma molto sparso e diffuso, incidono in maniera rilevante sui fabbisogni di energia per il riscaldamento e la mobilita.
Il percorso di decarbonizzazione del territorio, declinato attraverso la certificazione delle emissioni e la Roadmap "Fossil Fuel Free 2040", oltre a indubbi effetti positivi sull'ambiente, potrà essere volano di significative ricadute economiche e turistiche, confermando la Valle d'Aosta come una Regione dalla vocazione "Green".
Un percorso sfidante, che intende anticipare i recenti obiettivi UE di completa decarbonizzazione dell'economia al 2050, e difficoltoso, soprattutto in quei settori storicamente caratterizzati da una penetrazione più lenta degli interventi e da necessità alle volte contrastanti con gli obiettivi della Roadmap. Un cammino che richiederà una forte sinergia tra indirizzi pubblici e volontà private e il dispiegamento di considerevoli investimenti, da attuarsi ottimizzando e facendo leva sulle risorse a disposizione dell'Amministrazione regionale in coordinamento con i fondi statali ed europei”.
Molte cose sono state fatte, ma oggettivamente ci sono delle riflessioni ulteriori da fare, anche perché é già trascorso del tempo.
Ad esempio bene sta facendo la società elettrica CVA, preziosa risorsa per i valdostani, ad espandersi nel mercato delle rinnovabili. La diminuzione del peso dell’idroelettrico, a causa del cambiamento climatico e del diminuire delle risorse dell’acqua con la crisi profonda delle aree glaciali, deve giustamente essere controbilanciata da un’azione di espansione fuori Valle con investimenti nel fotovoltaico e nell’eolico. In più bisogna essere pronti - e progetti del PNRR vanno in questo senso - al vettore idrogeno verde che avrà il pregio di raccogliere quell’energia che oggi si perde nelle rinnovabili per il mancato assorbimento nelle rete elettrica nazionale. Idem la strategia, su cui esiste la collaborazione fra Comuni e CVA, sulle comunità energetiche, che rappresentano, pur senza mitizzarle, una possibilità interessante per avere una rete locale assai diffusa e solidale in realtà più piccole rispetto ai grandi complessi strategici di energia.
In termini più complessivi sarebbe bene seguire la pista dell’ efficientamento energetico su cui non caso sono stati messi fondi cospicui, utili anche dopo la fine del boom dovuto al 110 superbonus (salasso per le casse dello Stato!), e che rappresenta un elemento capitale nella lotta ai meccanismi perversi che oggi aumentano la temperatura sul Pianeta con ricadute reali anche nei nostri territori montani.
Insomma: tante cose assieme, che sono così concrete da rendere la sostenibilità qualcosa di vero e non, come purtroppo oggi appare, una moda cui ci deve attenere.

I catalani ago della bilancia

I paradossi della Storia sanno stupire. È di ieri la notizia finale dopo lunghe trattative: Pedro Sanchez è diventato Presidente del Governo spagnolo per la terza volta. Con 179 voti a favore e 171 contrari il Parlamento ha concesso la fiducia al leader socialista. Un voto che conferma l’intesa sull’amnistia tra il Psoe e gli indipendentisti catalani. A favore del nuovo mandato per Sanchez hanno votato sette forze politiche oltre al suo Psoe: la coalizione di sinistra Sumar, i partiti indipendentisti catalani Erc e Junts, quelli baschi Bildu e Pnv, il partito galiziano Bng e quello delle Canarie CC.
Il paradosso sta nel fatto che gli indipendentisti catalani sono risultati indispensabili per dare un Governo alla Spagna, dopo essere stati perseguitati in Tribunale, come conseguenza del referendum pacifico del 2017 per la legittima richiesta di autodeterminazione.
Sono contento di questo ribaltamento in atto per l’amicizia e l’affezione che ho verso la Catalogna, basata su di un antico rapporto con noi autonomisti valdostani,
Spero che un articolo pubblicato su Internazionale, tratto da Ctxt, del giurista, Jesus López-Medel, da cui traggo qualche passaggio, possa essere utile per smontare molte sciocchezze, di cui ho sentito eco sulla stampa italiana.
Sostiene l’autore: “In Spagna è sempre complicato parlare di una convivenza senza tensioni, e ancora di più costruirla. Soprattutto quando bisogna trovare (e quasi sempre è necessario) formule innovative, capaci di guardare al futuro senza nostalgia per il passato.
La costituzione del 1978 è stata un momento eccezionale (il passaggio dalla dittatura franchista alla monarchia costituzionale) e un passo avanti coraggioso che ha posto le basi di questa convivenza nel segno della libertà e della democrazia. Ma da allora sono successe tante cose, e nonostante la rapida e profonda evoluzione della società spagnola c’è chi – paradossalmente proprio le persone che all’epoca non appoggiarono la costituzione – vorrebbe rendere quel testo immodificabile. Queste persone non solo se ne appropriano indebitamente, ma sfruttano indegnamente il concetto stesso di Spagna. Loro sono “la Spagna”, mentre ciò che non gli piace è “un attacco al paese”. Questo pensiero conservatore e passatista oggi è molto forte. Dovremmo invece concentrarci tutti sull’evoluzione di quel testo, perché intorno a noi tutto cambia”.
Tema giuridico su cui concentrarsi: “La costituzione del 1978 fu approvata con un sostegno pubblico travolgente, ma solo con la metà dei voti dei deputati di Alianza popular (la formazione da cui è nato il Partito popular, Pp). L’altra metà votò contro o si astenne. All’epoca il futuro premier José María Aznar, allora giovane militante di Ap, scriveva articoli che attaccavano la costituzione. Un anno prima era stata votata la Ley de amnistía (l’amnistia) per i franchisti.
Il patto costituzionale era concepito per essere in armonia con lo statuto di autonomia della Catalogna approvato nel 1979. E in effetti i due documenti hanno convissuto per trent’anni, finché quel meccanismo istituzionale non è invecchiato e la Catalogna ha cominciato a chiedere un nuovo statuto (Estatut in catalano), anche perché nel frattempo a diverse altre regioni (Cantabria, Murcia, Rioja, per esempio) era stata concessa un’autonomia simile a quella catalana. Molti hanno dimenticato un aspetto importante della fase costituente: la Catalogna era un soggetto nazionale, come il Paese Basco e la Galizia, e come tale avrebbe dovuto essere trattata”.
Aggiunge con lucidità López-Medel: ”Davanti al tentativo di riformare l’Estatut, i conservatori hanno alimentato una catalanofobia che ha finito per mettere in moto quel fenomeno che più tardi si sarebbe trasformato in indipendentismo. Nonostante la promessa del premier socialista dell’epoca, José Luis Rodríguez Zapatero, in parlamento l’Estatut ha subìto numerose modifiche. Eppure, anche depotenziato, è stato approvato attraverso un referendum che ha dimostrato il buon senso degli elettori catalani, ovviamente delusi dal testo votato.
È stato a quel punto che l’irresponsabile premier popolare Mariano Rajoy ha deciso di presentare un ricorso durissimo alla corte costituzionale e, quel che è peggio, alimentare un clima di accesa ostilità nei confronti di tutto ciò che era catalano, creando una frattura sociale tra questa comunità e il resto della Spagna. Poi è arrivata la pessima sentenza della corte, che ha dichiarato incostituzionali 14 articoli dello statuto, mutilandolo ulteriormente e facendo sentire la Catalogna umiliata e penalizzata, dato che era stata privata di competenze ottenute senza problemi da altre comunità autonome, come l’Andalusia e il Paese Basco.
Nel frattempo i popolari continuavano a gettare benzina sul fuoco del catalanismo, anche più moderato, accelerando la sua trasformazione in un indipendentismo fortemente emotivo”.
Vado più avanti nell’articolo: “Mentre il Pp alimentava in questo modo l’indipendentismo, la Generalitat catalana ne ha approfittato per organizzare, il 1 ottobre 2017, un referendum senza alcuna base legale. Invece di ignorarlo o cercare di fermarlo attraverso il dialogo politico, il governo ha inviato a Barcellona un gran numero di poliziotti che hanno caricato chiunque fosse nei paraggi di un’urna elettorale. Quella reazione ha inasprito ancora di più il conflitto.
Con la situazione sempre più tesa e lo scontro ormai aperto, il 27 ottobre il presidente della Generalitat catalana, Carles Puigdemont, ha detto davanti al parlamento catalano che il “risultato” del referendum era “un mandato per trasformare la Catalogna in uno stato indipendente sotto forma di repubblica”. Quelle parole sono state accolte e applaudite come una dichiarazione d’indipendenza solo da due gruppi parlamentari. Riprendendo il discorso, Puigdemont ha poi annunciato al parlamento la sospensione dell’indipendenza, “affinché nelle prossime settimane si possa avviare un dialogo, senza il quale non è possibile arrivare a una soluzione concordata”. In totale lo spettacolo è durato 56 secondi.
Ma il governo del Pp ha ritenuto comunque di dover applicare per la prima volta l’articolo 155 della costituzione, sospendendo l’autonomia della Catalogna”.
La Spagna picchia dura, come ricorda l’articolo: “Le autorità hanno quindi inventato un presunto reato di “ribellione” che nessun giurista sensato riterrebbe congruo, a meno che non sia animato da motivazioni politiche. Così facendo hanno privato delle sue prerogative il Tribunal superior de justicia de Cataluña, cioè l’autorità competente sul caso. Durante le deposizioni sono stati convocati come testimoni dell’accusa gli esponenti delle forze di sicurezza che avevano represso quella parvenza di referendum.
Costretto ad assolvere gli accusati da un reato inesistente, il tribunale in compenso ha inasprito al massimo le pene per quello di sedizione, un reato anacronistico che non esiste in nessun paese europeo e che in Spagna non era mai stato punito. (…)
La sentenza del tribunale supremo di Madrid, nel 2019, è stata una chiara distorsione del diritto, operata per ottenere pene pesantissime e demonizzare gli accusati. E il Psoe ha continuato a non battere ciglio. “Non concederemo mai l’amnistia”, ha dichiarato allora Sánchez. Tuttavia, l’aritmetica della politica e una certa audacia alla fine l’hanno convinto a farlo due anni dopo. In pochi l’hanno applaudito, perché era un rischio. In seguito Sánchez ha preso un’altra decisione corretta: ha cancellato l’anacronistico reato di sedizione.
Dopo i risultati incerti delle elezioni dello scorso luglio (vinte dal Pp, che però non ha i numeri per formare un governo), Sánchez ha modificato le sue idee sull’amnistia, proponendo una legge per discolpare gli attivisti coinvolti nel referendum catalano del 2017”.
Una Realpolitik che serve ora per governare e si apre una stagione nuova per il futuro della Catalogna, che va seguita per l’influenza che potrà avere in Europa. Ricordo il legittimo slogan: “Catalunya, nou estat d'Europa”.

I pensionati non sono umarell

“Pensionato” è una parola triste, anche se è allegro pensare che ci si è arrivati vivi.
So bene di come questo status sia agognato, specie con le giravolte delle regole, che come la risacca nei pressi della riva spesso allontanano al largo chi l’aspettava da tempo. Il famoso concetto di “diritti acquisiti” in Italia diventa ondivago e spezza certezze e attese.
Io sono pensionato da qualche tempo e quando ci sono arrivato - lasciata “mamma Rai”, da cui per altro ero stato a lungo in aspettativa - mi ha fatto impressione, trattandosi di segno indelebile del tempo che passa.
La nozione di pensionato, per fortuna, sta cambiando nel tempo. Traggo dalla Treccani una delle più proverbiali prese in giro: “Come viene definito l’anziano che osserva gli operai al lavoro nei cantieri, con l’aria di quello che la sa lunga? Oggi la maggior parte della gente ha la risposta pronta: umarèll (con due L finali), come se si chiamasse così da sempre. In realtà la parola ha visto la luce appena 17 anni fa. Ed è emblematica della capacità del Web di moltiplicare esponenzialmente l’uso di certe espressioni nel nostro lessico. Infatti quel termine è stato inventato di sana pianta nel 2005 per essere usato in un blog, poi è diventato il titolo e il tema di un primo libro (seguito da altri).
La nascita è dovuta alla mutazione premeditata di una parola dialettale bolognese, usata originariamente in modo dispregiativo: umarèl (con una sola L), indicante un ometto dall’aria dimessa e anonima che vaga per la città; espressione a sua volta nata nel Novecento, considerando che è assente nei vari dedicati al dialetto bolognese, dove semmai compaiono, con lo stesso significato diminutivo, termini come umêtt, umarêtt, umein, umarein e uminein. Comunque umarèll si è poi trasformato – cambiando in buona parte la connotazione linguistica e semantica – in un “bolognesismo” usato quasi ovunque, a livello nazionale e talvolta anche all’estero”.
Vorrei dire che la fotografia umoristica del pensionato di fronte al cantiere è davvero una caricatura, almeno per noi baby boomers (1945-1964), la cui coda dei più “giovani” si avvia ormai alla pensione. Appartengo - ahimè- a questo gruppone, assai cospicuo in termini demografici - e sono difensore di noi “pantere grigie”. Anche se mi piace di più il mondo in cui le persone con i capelli bianchi (per chi li ha…) venivano chiamate nel Bourg di Aosta, vale a dire affettuosamente “grisonniers” (con i capelli grigi…).
Credo, infatti, che - qualunque lavoro si sia fatto - questa nostra generazione abbia avuto un’etica del lavoro molto forte e, nel limite del possibile, non si fermi affatto e in vario modo si tenga ben in piedi in attività varie, sin che la salute tiene.
Ci tengo a dirlo, guardandomi attorno, perché troppo spesso c’è chi considera i pensionati un peso e la loro esperienza un vuoto a perdere. Combatto con convinzione una battaglia contro certi luoghi comuni e non defletto.
Certi equilibri restano sempre delicati e li descrive bene Umberto Galimberti e bisogna comunque annotarne i contenuti: ”Questa mentalità che, connettendo la vecchiaia all'improduttività, all'emarginazione sociale e all'insignificanza, rende in Occidente la vecchiaia terribile, non solo per il singolo individuo, ma anche per la società che, non meno del singolo individuo, si dà da fare per ridurre le cause dell'invecchiamento o ritardarne perlomeno l'arrivo. I costi sociali, dalle pensioni all'assistenza, sovvertono il ritmo produttivo delle società avanzate che, impreparate, si trovano di fronte a una lotta di classe imprevista. Non più tra poveri e ricchi, ma tra vecchi che non vogliono lasciare e giovani che non sanno come cominciare”.

Nervi saldi sul cambiamento climatico

Chiaro ormai che il cambiamento climatico c’è e che la responsabilità umana esiste. Ciò detto per chiarezza, resta la questione del da farsi. Ridurre le emissioni di CO2 é il giusto mantra, cui si aggiunge l’evidente e densa operatività su come farlo, cambiando tutto ciò che accelera, come conseguenza, l’aumento della temperatura sul Pianeta.
Per ora i governanti del mondo giochicchiano e va dato atto all’Europa del fatto che si è attivata, mentre altri Paesi se ne fanno un baffo.
Fummo - con un gruppuscolo di amici che già sia occupavano della montagna e dei rischi futuri - i primi a riuscire a far inserire un cenno alle conseguenze climatiche possibili sulla e montagne del Mondo nel documento finale del Summit della Terra, tenutosi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992, che fu di fatto la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull'Ambiente.
Ora, invece, più di 30 anni dopo, l’emergenza incombe di brutto e la percezione dei famosi cambiamenti allarmano e di sicuro si è perso del tempo, mentre per invertire la situazione ci vogliono decisioni globali che tardano a venire. Quel che è certo è che cresce una preoccupazione generale e esiste persino un velo di angoscia che spinge ad una sorta di cupa rassegnazione che non giova e i catastrofisti tristi o i protestatari chiassosi non aiutano affatto.
È evidente e lo ricorda l’Agenzia europea per l’ambiente che ci sono due parole chiave che qui ricordo.
La prima: «Adattamento» significa anticipare gli effetti avversi dei cambiamenti climatici e adottare misure adeguate per prevenire o ridurre al minimo i danni che possono causare oppure sfruttare le opportunità che possono presentarsi. Esempi di misure di adattamento sono modifiche infrastrutturali su larga scala, come la costruzione di difese per proteggere dall’innalzamento del livello del mare, e cambiamenti comportamentali, come la riduzione degli sprechi alimentari da parte dei singoli. In sostanza, l’adattamento può essere inteso come il processo di adeguamento agli effetti attuali e futuri dei cambiamenti climatici. 
La seconda: «Mitigazione» significa rendere meno gravi gli impatti dei cambiamenti climatici prevenendo o diminuendo l’emissione di gas a effetto serra (GES) nell’atmosfera. La mitigazione si ottiene riducendo le fonti di questi gas (ad esempio mediante l’incremento della quota di energie rinnovabili o la creazione di un sistema di mobilità più pulito) oppure potenziandone lo stoccaggio (ad esempio attraverso l’aumento delle dimensioni delle foreste). In breve, la mitigazione è un intervento umano che riduce le fonti delle emissioni di gas a effetto serra e/o rafforza i pozzi di assorbimento ».
Dove c’è scritto ”mare” dobbiamo legittimamente scrivere "montagna” in una santa alleanza con tutte le montagne del mondo, iniziando realisticamente dalle Alpi e di questi temi, per fortuna, si parla nella macroregione alpina. Ne sono testimone perché ho partecipato alla recente assemblea di Eusalp,che conta 48 Regioni di 7 Paesi dell’Arco Alpino, svoltasi nel Cantone di San Gallo. Questa istanza europeista è una chiave di volta per avere strategie comuni e scambi di buone pratiche. Penso ad azioni concrete e a campagne informative, che sono indispensabili, così come la formazione al tema dei decisori e delle popolazioni.
Per capirci meglio, ad esempio nel caso della Valle d’Aosta, penso sia giunta l’ora di pensare al coordinamento delle troppe iniziative convegniste o simili che spesso si ripetono e si sovrappongono senza una ratio comune. Questo vale ad esempio sul susseguirsi di diagnosi e previsioni sui nostri grandi malati, i ghiacciai, senza scendere invece a valle e a fondo sulle conseguenze più propriamente umane dell’insieme dei cambiamenti. Mi riferisco alle ricadute concrete sulle vite delle persone, sulle attività economiche, sui territori. Un adattamento che obbliga a prendere coscienza con logica scientifica e con quadro giuridico e di conseguenza a pianificare gli interventi necessari, affinché le emergenze siano già comprese prima che avvengano. Necessita - senza creare ansie nocive e inutili - un’educazione al cambiamento climatico e ci vogliono le cospicue risorse da spendere per tutto quel che necessita.
Il resto è a rischio ripetitività degli allarmi, retorica dell’ ambientalismo ultra, sottostima dei negazionisti e via di questo passo.
Nervi saldi, please!

Se l’Ucraina avesse ceduto?

C’è qualcosa di terribile nella capacità del sistema ormai vastissimo dei media di passare da una tragedia ad un’altra con la stessa sveltezza con cui i trapezisti passano svolazzando da una barra metallica ad un’altra.
Oggi - e certo ne si capisce bene la ragione - tutto si concentra nelle informazioni, per altro difficili da dare nella delicatezza degli equilibri fra vero e falso che fanno parte della logica bellica, su quanto sta accadendo fra Israele e Gaza. Certo non solo in quel lembo di terra, ma più in generale in un’area geografica, il Medio Oriente, che è una polveriera che incide su equilibri globali. La stessa Europa trema perché gli islamisti sono radicati anche sul Vecchio Continente e bisogna prepararsi purtroppo ad una recrudescenza di atti terroristici e affrontare anche il tema di certe tendenze giustificatorie dimostratesi virulente nel caso di Hamas non solo nel seno dell’immigrazione araba, ma anche in parti della politica e della cosiddetta società civile, che purtroppo sa dimostrarsi incivile.
Ma questa sovraesposizione vera e propria, resa tale da un continuo susseguirsi di notizie, di immagini e di commenti, ha oscurato quasi del tutto l’altra guerra, quella davvero vicina a noi, fra Russia che ha invaso e Ucraina che si difende a denti stretti. Anche in questo caso, per lungo tempo, in maniera parossistica, siamo stati letteralmente colpiti da un susseguirsi di notizie nel terribile linguaggio bellico.
Ora, però, dell’Ucraina si parla poco e si rischia di passare da un eccesso ad un giornalismo che ha messo la sordina e questo lo ritengo profondamente ingiusto. Lo è perché quanto sta accadendo non cambia di una virgola la posta in gioco: le mire espansionistiche della Russia, la deriva più che autoritaria di Putin, le complicità che si manifestano nel cuore dell’Occidente sono il segno tangibile del fatto che non ci si può permettere di far cadere nell’ oblio quanto sta avvenendo.
Chiunque abbia a cuore la democrazia e i valori europeisti non può per nulla permettersi dei distinguo rispetto alla posizione da tenere. Stiamo vivendo un autunno che anticipa un inverno che risulterà decisivo e se il fronte di appoggio agli ucraini verrà scalfito potrebbero essere guai seri per l’Europa in primis e per le democrazie occidentali tutte.
Già oggi - lo scrivo con enorme dispiacere - ci troviamo di fronte ad una democrazia che nel mondo, dati alla mano, diminuisce il proprio peso a vantaggio di regimi che vanno dall’autoritarismo alla dittatura. Un fenomeno che vediamo in corso anche in alcuni Paesi dell’Unione europea - pensiamo a Ungheria e Slovacchia - e anche nelle democrazie più vecchie lo scollamento verso certi principi cardine preoccupa e la Storia insegna (e gli anni Venti del secolo passato ammoniscono, pur con scenari differenti) che il peggio può sempre arrivare con una velocità inimmaginabile.
Per questo l’Ucraina, con questo esercito popolare e di leva, finisce per essere il nostro esercito, che combatte palmo a palmo una guerra violenta e senza sbocchi apparenti con diplomazie impotenti e un diritto internazionale sempre più incapace di reggere le sorti dell’umanità.
Una debolezza terribile.
A ragionare più a fondo basta un pezzo di intervista dell’Express a Olena Zelenska, moglie del Presidente ucraino: “Il est primordial de ne pas laisser l’attention du monde se détourner de l’Ukraine. Nous constatons déjà que l’aide militaire en direction de notre pays arrive trop lentement pour permettre un changement positif sur la ligne de front. Cette aide est trop lente, trop tranquille. On dirait que l’Europe reste placide et ne semble pas trop effrayée par la perspective du rapprochement des frontières russes dans sa direction. Cette perspective est pourtant bien réelle ! Réfléchissons à ce qui se passerait si l’Ukraine n’avait pas tenu”.

Il dialogo sulla montagna

Capita sempre così dovunque io vada. L’ultima esperienza a Premia in Val Formazza, paesino vicino alla più nota Crodo, località del celebre Crodino, che adesso una multinazionale produrrà altrove.
Zona di comuni walser e lo si vede subito dalle case. Attorno le loro montagne, che ricordano alcune zone valdostane di media montagna.
Ci sono stato per parlare di come vedo il futuro delle nostre Alpi. L’ho fatto di fronte ad un pubblico attento con la sensazione lì ed altrove, lungo tutto l’Arco alpino, di essere a casa. Sensazione forte che ho avuto anche in altri massicci montani, che mostrano le analogie derivanti dagli ambienti naturali e dalle culture nate in ambienti simili e questo l’ho visto non solo in Europa, ma anche in altri Continenti. Dico sempre, scherzando ma non troppo, che esiste una specie di Internazionale dei montanari, che naturalmente si declina a seconda dei gradi di sviluppo e le Alpi (come mostra la parola alpinismo che si pratica non solo da noi) sono da sempre un punto di riferimento.
Parlare dei problemi della montagna vuol dire anzitutto, nel caso delle nostre vallate della macroregione alpina (che deve essere sempre più istanza politica), avere consapevolezza della profondità storica e del fatto che si tratta di una realtà forgiata dalla presenza umana. Il popolamento delle Alpi è tema davvero antico e lo chiarisce in modo evidente quel luogo misterioso che è l’area megalitica di Saint-Martin de Corléans, che ci parla attraverso 6000 anni di storia.
Chi si occupa dei problemi della montagna deve sentirla questa eredità e di chi nelle diverse epoche ha interpretato i modi di viverci. Oggi, ad esempio, a parlare delle montagne sono spesso gli alpinisti e la loro visione è interessante, ma il fenomeno di cui sono interpreti è nato due secoli e mezzo fa e dunque vedono solo un piccolo pezzo di uno scenario più vasto e ci vuole cautela quando alcuni si ritengono interpreti di un tutto ben più complesso.
Per questo bisogna dialogare sul futuro, perché nessuno ha la verità in tasca. Men che meno la verità ce l’ha certo ambientalismo da conventicola che aborro, perché vorrebbe tornare ad un mitico passato di montagne selvagge con l’uomo messo in un cantuccio in una vita parca, quasi monastica, sfuggendo alla modernità consumista e…capitalista. Lo stesso che in queste ore plaude con grande godimento al cattivo tempo che ha impedito le due gare di Coppa del mondo fra Zermatt e Cervinia sul ghiacciaio della Valtournenche.
Gli argomenti di confronto da esaminare sono tanti e li ho ricordati. Il cambiamento climatico da affrontare senza chiudersi in eremi pensosi, la digitalizzazione che è una finestra sul mondo e non una diavoleria, la crisi demografica da affrontare senza pensare a donne fattrici per forza, l’immigrazione da regolare ma priva dell’illusione che qualunque cultura possa attecchire, il tema dei grandi predatori che rischiano di espandersi senza fine, l’idroelettrico come ricchezza che può figliare il vettore idrogeno, l’agricoltura di nicchia che può crescere, il turismo che resta una ricchezza e prevede clientele di vario genere e lo sci resta per ora non sostituibile e chi ne predica la morte subitanea è un bugiardo.
Certo bisogna organizzarsi bene nella discussione complessiva e in democrazia lo devono fare soprattutto gli eletti e non i gruppuscoli tipo autocoscienza e chi decide lo deve fare in connessione con quella parte di società che vuole crescere e migliorarsi e non con chi fa della critica perenne la noiosa colonna musicale della propria vita.

Il timbro della faziosità

Che le ali estreme della politica si estremizzino sempre più l’ho detto più volte e il caso italiano e persino quello valdostano ne sono un segno tangibile piuttosto deprimente.
Spiace, però, che si estremizzino anche associazioni umanitarie come Medici senza frontiere (in Italia ormai costantemente presente nelle polemiche politiche) o la più nota a favore dei diritti civili come Amnesty International, verso le quali ho sempre provato viva simpatia e ho persino sostenuto.
Il caso più evidente è certa ambiguità rispetto alle vicende di Israele e di Gaza, dove l’equilibrio è crollato e questo è valso anche sull’aggressione all’Ucraina. Ci sono temi su cui l’ambiguità oscura la credibilità e svela una militanza rispettabile in sé, se non fosse stata forgiata in una area progressista vasta che invece è diventata faziosa scelta di campo in vicende complesse e con intromissioni politiche troppo di parte.
Ne scrive autorevolmente Éric Chol, direttore della Redazione, su l’Express con un titolo che dice tutto “Quand Am­nes­ty In­ter­na­tio­nal ne sait pas ap­pe­ler un chat un chat”.
Così scrive: “Longtemps, le mot humanitaire faisait naître chez chacun de nous une part de rêve. L’idée du dépassement de soi, de l’altruisme, de l’ouverture au monde, surtout lointain – on ne calculait pas encore le coût carbone des voyages en Afrique ou en Asie… Des clichés ? Sans doute, mais partagés par des générations à la fin du xxe siècle.(…) Le mur de Berlin tombait, on chantait pour les Ethiopiens qui crevaient de faim, on creusait des puits au Soudan, on déminait les rizières du Cambodge… C’est ainsi que la planète ONG a longtemps prospéré, avec ses armées de bénévoles, ses parkings de 4x4 garées dans les capitales de ce qu’on appelait à l’époque le tiers-monde, ses tombereaux de donations et de subventions, ses rites, ses injonctions. C’était des gens de bien, répétant, tel un mantra, la célèbre citation d’Henry Dunant, fondateur de la CroixRouge : « Seuls ceux qui sont assez fous pour penser qu’ils peuvent changer le monde y parviennent. » Leurs franchises s’appelaient Oxfam, Amnesty International, Médecins sans frontières…”.
Poi la triste trasformazione: ”C’était le monde d’autrefois. Celui où les ONG prenaient le parti des faibles et des victimes, sans choisir leur camp. Sans tomber dans le panneau de l’idéologisation à outrance, de l’anticapitalisme forcené (un peu quand même) ou de l’antisionisme exacerbé. On appelait alors un chat un chat. Un terroriste un terroriste. Sans avoir recours à mille circonvolutions pour éviter d’utiliser ce qualificatif pour désigner le Hamas, responsable de la tuerie de 1 400 personnes le 7 octobre dernier. C’est pourtant ce que vient de faire le président d’Amnesty International France, qui, en en se réfugiant derrière une argutie juridique calamiteuse, a refusé d’employer ce terme. A-t-il au moins regardé les images de cette boucherie nauséabonde, à laquelle se sont livrées ces hordes d’assassins, assoiffés de sang ? Ou préfère-t-il s’en tenir aux éléments de langage, diffusés depuis des mois par une ONG devenue monolithique, à l’instar de ce rapport publié l’an passé : « L’apartheid commis par Israël contre les Palestiniens : un système cruel de domination et un crime contre l’humanité ». Cachez donc ce 7 octobre que je ne saurais voir…
En matière d’interprétation de l’histoire, Amnesty International a déjà un lourd passif. N’a-t-elle pas, en août 2022, renvoyé dos à dos Ukrainiens et Russes dans un rapport scandaleux ? Celle qui dirige l’organisation au niveau mondial, la Française Agnès Callamard, expliquait sans ciller : « Nous avons documenté une tendance des forces ukrainiennes à mettre en danger les civils et à violer les lois de la guerre lorsqu’elles opèrent dans des zones peuplées. » Quelques mois plus tard, une enquête interne mettra en cause les conclusions de ce rapport. Mais en refusant d’appliquer le mot terroriste au Hamas, le président d’Amnesty International France apporte la preuve que son ONG est devenue le petit télégraphiste de Poutine et du Hamas”.
Uguale storia in Italia con un certo Riccardo Noury di Amnesty che ormai milita palesemente nella sinistra più estrema a nome dell’associazione e chi segue i Social ha letto in quanti hanno annunciato che cesseranno le donazioni sia ad Amnesty sia a Medici senza Frontiere, che su Gaza ha scritto cose infondate su fatti precisi, dimostrando una mancanza di equilibrio.

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