blog di luciano

Gli amichetti di Hamas

Già avevamo i filorussi d’accatto, che solo in Italia conquistano spazi in Televisione senza logica alcuna. Spicca purtroppo nella categoria la 7 di Urbano Cairo (per fortuna non con i telegiornali di Enrico Mentana), cui si aggiunge la Rai in campo nello sdoganare personaggi putiniani che paiono grotteschi. Per non dire di un giornale militante come il Fatto Quotidiano dell’inqualificabile Marco Travaglio, anche lui nel contempo invitato televisivo a gettone, di cui sfuggono i meriti.
Ora capita nelle vicende israelo-palestinesi nello stesso filone di disinformazione sistematica chi difende Hamas senza scrupolo alcuno con logiche giustificazioniste che fanno accapponare la pelle e spesso guardacaso sono gli stessi amici di Mosca che si riciclano sulla nuova emergenza internazionale.
Consiglio per contestare questa deriva la lettura del settimanale Le Point in edicola con apposito dossier.
Illuminante e condivisibile l’editoriale di apertura a firma di Étienne Gernelle, di cui condivido la vigorosa indignazione sin dall’incipit: “Sommes-nous stupides, pleutres ou suicidaires ? Ils sont certes terrifiants, les éradicateurs islamistes, avec leurs roquettes et leurs couteaux, que ce soit à Kfar Aza, à Arras ou à Bruxelles. Mais le plus inquiétant est peut-être le spectacle de ces flageolements dans les rangs des démocraties libérales. « Dans ce moment de panique, je n’ai peur que de ceux qui ont peur », écrivait Victor Hugo dans Choses vues. Et cela tremblote, en Occident. On entend claquer des genoux de partout.
Certains, n’écoutant que leur instinct de collaboration – pardon, de survie – ont même déjà choisi le camp d’en face. En témoigne la veulerie de La France insoumise, qui pense miser sur le cheval gagnant, et celle du Britannique Jeremy Corbyn, qui lui non plus n’arrive pas à appeler le Hamas mouvement terroriste. Ceux-là, on avait l’habitude. Plus accablant est ce qui se passe aux États-Unis, où les grandes universités, tenues par une gauche adepte d’un galimatias victimaire tous azimuts, semblent cette fois-ci avares de leur compassion, puisqu’elles peinent à condamner les pogroms perpétrés par le Hamas en Israël. On les pensait idiots, ce sont des salauds…”.
Idem come sopra esponenti politici italiani ambigui e viscidi e studenti delle Superiori e delle Università italiane che non solo giustificano gli assassini ma li esaltano in un afflato masochista fra ignoranza e stupidità.
Ancora l’editoriale su questo rimbambimento in Occidente: ”Les complices intellectuels ou les compagnons de route de l’islamisme ne se donnent même plus la peine de se camoufler. Et cela en désinhibe d’autres. Les drapeaux du Hamas, brandis à Londres ou à New York, sont une tache. Les images, à Berlin, de maisons marquées d’une étoile de David font frémir. La peur a changé de camp. En France, les suppôts du Hamas ne demandent qu’à se montrer, alors que des milliers de professeurs doivent redoubler de prudence avant d’aborder certains sujets… Si les choses tournent mal, il faudra se souvenir que tout cela, malgré de réconfortantes réactions n’a pas soulevé, en réponse, de foules à la hauteur de l’ignominie qui se manifeste.
Et, au milieu de tout cela, ces numéros de contorsionnistes de moins en moins supportables réalisés par les spécialistes du relativisme…”.
Già è sarebbe ora che i complici dell’islamismi radicale, nella loro foga di difesa, pagassero queste posizioni non tanto a colpi di codice penale, quanto con un isolamento morale.
Ancora il giornalista francese: “Car la vérité est que l’islamisme est une idéologie éradicatrice et qu’il ne connaît pas de frontières. Ses disciples pourchassent dès qu’ils le peuvent tout ce qui bouge et ose encore défendre la liberté d’expression comme celle des femmes, les livres, lorsqu’ils s’écrivent au pluriel, l’Occident et les Lumières. Avec une place toute particulière pour les Juifs, leur cible préférée.
Dans leur système de pensée, personne n’est à l’abri nulle part. Souvenons-nous des menaces contre le journal danois Jyllands-Posten, qui avait publié les « premières » caricatures de Mahomet en 2005, et dont l’audience au Moyen-Orient était pourtant plutôt confidentielle… Le Hamas, à l’époque, avait d’ailleurs lui aussi réagi. Évidemment, c’était là un sujet essentiel pour le bien-être des habitants de Gaza… L’islamisme, répétons-le, n’est pas une réaction défensive. Ni Samuel Paty, de Conflans-Sainte-Honorine, ni Dominique Bernard, de son lycée d’Arras, n’avaient affamé Gaza !”.
Sono questi i professori trucidati in Francia dalla follia amicizia islamista!
E ancora: “Quant aux centaines de milliers de personnes massacrées par Daech en Irak ou en Syrie, de quel crime étaient-elles coupables ? On remarquera que nos relativistes ne pleurent pas souvent les musulmans assassinés par les islamistes. Ou alors moins fort.
La tartuferie, d’ordinaire, est simplement énervante. Dans ce moment précis, elle devient odieuse. Et déprimante. Les démocraties libérales n’ont évidemment pas dit leur dernier mot, mais il serait temps, au moins, de regarder les choses en face et de soigner cette maladive poltronnerie”.
Bella definizione quest’ultima: malata vigliaccheria! Così come i poco prima “tartuferie”, che trovo bellissimo, viene da una commedia di Molière “Personnage qui, sous couvert de religion, affecte une dévotion et une vertu profondes, dans le but de séduire son entourage et d'en tirer profit”. Un falsone…

Alpini e reines

Non so per quale combinazione oggi ad Aosta si incrocino due fenomeni - alpini e reines - che caratterizzano la valdostanità, che sarà pure un neologismo, ma riassume in sé molti aspetti singolari del popolo valdostano.
Il primo è il raduno del 1° Raggruppamento (Sezioni del Piemonte, della Liguria, Aosta e Francia), che si accompagna al centenario di fondazione della Sezione di Aosta. Le “penne nere” in questo finesettimana occupano pacificamente la città e la sfilata sarà il momento clou della manifestazione.
Il grande scrittore veneto Andrea Zanzotto aveva scritto degli alpini: n "Stelle alpine e profumo di montagna": «Senso dell’onore e coraggio, saldezza morale e capacità di resistere, tradizioni generose e sano amor di patria. Mi sembra si fondi soprattutto su questi valori il mito degli alpini, ed è sempre stato così forte da far loro vincere le infinite guerre della memoria sulle quali ancora si dividono gli italiani, a centocinquant'anni dall'unità. Un patrimonio di umanità che ha ispirato straordinarie pagine di letteratura (dall'Hemingway di "Addio alle armi" ai reportage dal fronte di Kipling, dal "Diario di Russia" di Rigoni Stern ai racconti di Bedeschi) e che li vede ancora adesso pronti ad accorrere nelle ricorrenti catastrofi naturali e nelle emergenze umanitarie (dal terremoto del Friuli a quelli dell'Irpinia e dell'Abruzzo), all’insegna del motto "onorare i morti aiutando i vivi". Sono tratti del modo d'essere degli alpini, ai quali si somma l'amore per la natura e specialmente per la montagna, che deriva loro dalla conoscenza nativa del territorio e dal legame che mantengono con esso».
Fa impressione, nel rievocare come i valdostani siano legati agli alpini e alla naia, pensare alle conseguenze ineluttabili che stanno derivando dall’abolizione della leva obbligatoria stabilita dal 1° gennaio del 2005 sul futuro dell’identità degli alpini. Questo porterà nel tempo alla lenta e ineluttabile scomparsa, per esaurimento dei suoi membri, di quel collante sul nostro territorio che sono le sezioni dell'ANA (Associazione Nazionale Alpini). E già oggi, rispetto al passato, la presenza in Valle d’Aosta di alpini in servizio si è ristretta rispetto al passato e mi vengono in mente i giuramenti con centinaia di ragazzi nel cortile della Caserma Testa Fochi o le strade di Aosta piene di alpini in libera uscita.
Mentre la sfilata attraverserà Aosta, pian piano a poca distanza si riempierà di persone l’arena della Croix Noire per la finalissima delle “Batailles de reines”, lo scontro delle bovine che mi fa tornare ragazzo, quando fui il primo telecronista a raccontare in diretta sui canali Rai le gesta delle nostre mucche combattenti. Potevo contare in quegli anni Ottanta sui preziosi consigli di Sandro, mio papà veterinario, che le reines le curava, specie di quelle patologie ovariche che spesso le tormentano. Ripenso con nostalgia a quei tempi e segnalo la vitalità di questi combattimenti (combats), che rappresentano in maniera fisica e suggestiva le radici antiche dell’allevamento del bestiame. Una sorta di sopravvivenza etnografica che illustra in maniera magistrale il legame fra il montanaro, il suo territorio e quel passaggio decisivo che fu l’addomesticamento degli animali.
È sempre avvincente vedere le bestie si studiano, persino facendo finta di niente, ma proprio le telecamere delle mie dirette consentivano di svelare particolari di nervosismi e quegli occhi - ingiustamente definiti "bovini" - che si scrutano di sottecchi in un gioco di impercettibili di segnali reciproci, forse anche di odori che sfuggono alle nostre narici ma non alle loro, che possono, in certi casi, far decidere ad una delle due contendenti ad abbandonare il campo persino senza scontro diretto. In altre occasioni, invece, questa staticità è interrotta dall'inizio dello scontro, che può essere rapidisssimo come un "k.o." oppure protrarsi a lungo come una sorta di tango drammatico in cui le mucche interpretano delle vere e proprie figure, nel gioco dell'incrociarsi delle corna con i corpi frementi. Ma, come in una plaza de toros ma con logiche incruente, bisogna non solo guardare all'angolo di prato dove si svolge il combattimento, ma è bene allargare lo sguardo ai proprietari ed alla loro postura, mentre seguono le sorti della propria beniamina e lo stesso vale per il pubblico che passa dal silenzio all'acclamazione, soggiogato in momenti topici da quel magnetismo che viene dagli antichi gesti di scontri che richiamano un passato remoto,

Profumo di tartufo

Confesso le mie colpe: nelle scorse ore ho mangiato del tartufo e quindi, come da post stagionale, non posso che decantarne la bontà e gli effluvi. Possiamo farlo, partendo da distante. Perché il tartufo risulti, ab origine, così terribilmente e amabilmente profumato è un segno ben noto della necessità di perpetuare la propria specie, attirando quegli animali, come cinghiali, volpi o ghiri, che - allettati dall'odore penetrante (in frigo va imprigionato in una "burnìa" con il riso, che poi potete cucinare e magari metteteci delle uova, perché a contatto si aromatizzano anch'esse) - trovano il fungo sottoterra e se lo mangiano. Poi, con le loro deiezioni, spargono le spore: potenza del mondo vegetale, che noi umani sottostimiamo, non comprendendo i sottili fili che ci tendono per imprigionarci, fatti di colori, forme e sapori. Noi pensiamo di "catturarli", mentre le prede siamo noi.
Gli antichi pensavano, invece, come Giovenale, che il "tuber terrae" nascesse per via di un fulmine di Giove, noto tombeur de femmes, posizione nota che serviva anche a propagare la notizia che il tartufo avesse preziose qualità afrodisiache. Provare per credere. Per molto tempo i linguisti, nello studiare l'etimologia della parola, partivano dal tardo latino "terrae tufer", mentre oggi pare certo che la parola viene dalla somiglianza - notata in epoca medioevale - fra il tubero e il tufo, la ben nota pietra porosa, da cui la catalogazione naturalistica "terra tufule tubera". Da lì anche il piemontese "trifula" e il cercatore "trifulau" con il suo indispensabile cane da ricerca. Parola poi emigrata in Francia con "truffe" ed in Inghilterra con "truffle". Faccio notare, a proposito dei cani, che il naso dei cani viene chiamato "tartufo". Non mi si dica che è un caso...
Ma un minimo di esperienza da gourmet mi ha confortato sul fatto che la vera valorizzazione del prodotto come eccellenza gastronomica è recente e riguarda - almeno nel mio gusto personale - anzitutto il tartufo bianco piemontese e svetta fra i territori quello d'Alba. È in questa cittadina che inizio la storia più recente. Così la racconta il sito del "Centro Studi Beppe Fenoglio": «Nel corso della Festa vendemmiale del 1928, commissario prefettizio il commissario avvocato Francesco Viglino che era anche presidente del Comitato organizzatore di cui era segretario tesoriere Vittorio Paganelli, ebbe un grande successo, fra le varie mostre, quella dei tartufi, proposta da Giacomo Morra (1889 - 1963); era il primo tentativo di valorizzare un prodotto già conosciuto e largamente diffuso come simbolo di prestigio fra i contadini che omaggiavano di preziosi tartufi il medico di famiglia, il veterinario, il notaio, il farmacista, la maestra del paese e quanti ai quali, in qualche modo, si voleva rendere un doveroso atto di ossequio e riconoscenza. La mostra dei tartufi suscitò così tanto interesse che si decise di trasformare l'esposizione in mostra permanente con premi ai migliori pezzi presentati da trifolao e commercianti così, nel 1929, inserita nei festeggiamenti della Festa vendemmiale, si organizzò la "Fiera mostra campionaria a premi dei rinomati Tartufi delle Langhe". Si scelse come periodo il tardo autunno per cogliere il momento in cui il prezioso fungo sviluppava il massimo del profumo e del sapore».
In meno di un secolo il fenomeno è esploso e oggi fa impressione constatare quanto business ruoti attorno alla "trifola", come si dice in piemontese e come non evocare l'eco di "trifolla", la patata in francoprovenzale. Da questo punto di vista confesso, avendo a suo tempo studiato la materia e persino predisposto una proposta di legge sui tartufi rimasta negli annali della Camera dei deputati (la numero 5921 del 19 aprile 1999), che sono sempre più stupito da due fenomeni.
Il primo è l'eccesso di prodotto in giro, che presuppone l'esistenza di molto prodotto artefatto con tartufi di scarso valore di provenienza estera che viene truccato per essere spacciato per quello buono. Il secondo riguarda i rischi di aromatizzazione di prodotti vari "al tartufo", di cui sarebbe bene conoscere l'esatto trattamento. Sarebbe interesse dei trifulau onesti e dei trasformatori corretti pretendere un salutare repulisti, pensando al rischio di una perdita generale di credibilità.
Per vostra curiosità vi segnalo quelle che erano segnalate nella legge appena citata come specie commerciabili:
a) "Tuber melanosporum Vitt", chiamato anche "Tuber Nigrum Bull", usualmente chiamato tartufo nero pregiato, tartufo nero dolce, tartufo nero di Norcia o di Spoleto, tartufo nero del Penigord;
b) "Tuber brumale Vitt", chiamato anche "Tuber brumale var moschatum Ferry de la Belonne", usualmente chiamato tartufo nero d'inverno, trifola nera o tartufo nero moscato;
c) "Tuber aestivum Vitt", usualmente chiamato "scorzone" o tartufo nero d'estate;
d) "Tuber uncinatum Chatin", usualmente chiamato "scorzone" o di Fragno;
e) "Tuber mesentericum Vitt", usualmente chiamato tartufo mesenterico o tartufo nero ordinario, tartufo di Bagnoli o di Avellino;
f) "Tuber magnatum Pico", usualmente chiamato tartufo bianco d'Alba o del Piemonte o tartufo buono di Acqualagna;
g) "Tuber borchii Vitt", chiamato anche "Tuber albidum Pico", usualmente chiamato bianchetto o marzuolo;
h) "Tuber macrosporum Vitt", usualmente chiamato tartufo macrosporo o nero liscio o grigio;
i) vari tartufi del genere "Tuber", usualmente chiamati tartufo nero della Cina o dell'Asia o tartufo cinese o asiatico.
Inutile dieci che il tartufo, per me, è quello alla lettera f) e vi risparmio i tecnicismi della leggina, tipo caratteristiche e classificazione assai utili contro le contraffazioni, che - con diverse tecniche ingegnose - possono trasformare in un tartufo bianco pregiato qualche "patata" insapore e per altro vasta comparare il "troppo" tartufo in giro con le quantità davvero rinvenibili in natura.
Vi resti chiaro di diffidare fortemente dei prodotti alimentari dal gusto e odore di tartufo, cui dedicavo un articolo della mia proposta, che recitava: "Tutti i prodotti alimentari contenenti tartufo devono recare sull'etichetta l'indicazione della specie del tartufo utilizzato e della relativa quantità. E' vietato utilizzare sostanze aromatiche naturali o di sintesi per aromatizzare prodotti alimentari freschi o conservati".
Quando si mangia del tartufo vero tra profumo e apprezzamento delle papille gustative, è difficile farsi ingannare e resta un'esperienza importante, che parte da un prodotto povero e semplice che ha raggiunto quotazioni da capogiro perché sa sposarsi con piatti che restano nella memoria, come la fonduta di "Fontina", l'uovo al tegamino, la carne cruda e i semplici "tajarin" (pasta all'uovo).
Come la madeleine di Proust basta un pensiero per ritrovarsi nelle Langhe…

Un mondo che fa paura

A mio papà fu un prete polacco a spiegare fuori dai cancelli di Auschwitz che cosa capitasse dentro quel campo e in particolare il perché del fumo che usciva dai camini: erano i cadaveri delle persone gassate. Credo che per un ragazzo di vent’anni siano cose terribili, difficili da capire.
La vita sa essere bizzarra: mio papà - e per questo divenne “giusto” per la comunità ebraica di Torino - prima di finire in Germania con gli altri giovani aostani che non avevano aderito alla Repubblica di Salò, aveva accompagnato ebrei in fuga in Svizzera lungo la conca di By. Non so attraverso quale tam tam arrivavano in via Sant’Anselmo ad Aosta nella casa dei miei nonni per scappare dalle persecuzioni che nel 1944 significavano finire nei campi di sterminio e morire in condizioni crudeli.
Davanti al peggiore dei lager si ritrovò Sandrino, che poi fuggì dal secondo campo dove finì a Cracovia con un rocambolesco viaggio di ritorno in Valle d’Aosta.
Queste vicende, che mi hanno portato anche a visitare più volte Auschwitz pure con i miei figli, mi hanno spinto sin da ragazzo a leggere tutto quanto riguardasse la Shoah e a seguire la storia incredibile della nascita di Israele, come atto finale della lunga storia di antisemitismo che ha accompagnato la diaspora ebraica. Ho provato empatia, immedesimandomi in un popolo perseguitato per secoli sino alla “soluzione finale” voluta da Hitler come espressione che tutto riassumeva. Odio verso gli ebrei che ha ancora radici che alimentano odio e epigoni.
Per questo grumo di sentimenti ho sempre ammirato gli ebrei, la loro cultura, il loro umorismo e il senso profondo di comunità. Per cui confesso che, pur cercando di essere oggettivo di fronte al dramma palestinese e agli errori di Israele, sono sempre rimasto idealmente vicino agli israeliani, seguendo le vicende di guerra che li hanno visti sul campo di battaglia.
“Due popoli e due Stati”: in fondo questa soluzione è sempre apparsa la necessità. Facile a dirsi, difficile a farsi. Ora le ultime tappe ci allontanano sempre più come dimostrato da a queste settimane dolenti con gli israeliani aggrediti e massacrati e i palestinesi finiti nel tritacarne costruito non a caso da Hamas. Esempio non solitario di gruppi terroristici islamisti che vogliono cancellare Israele e il suo popolo dalla carta geografica. Gli israeliani direi che sono obbligati a difendersi e a contrattaccare a costo della loro stessa esistenza, purtroppo con leadership - come quella di Benjamin Netanyahu - che hanno dato pessima prova di sé, facendo vacillare valori democratici su cui si è stata fondata Israele.
I palestinesi ancora questa volta sono vittime sacrificali di chi ne sfrutta disagio e povertà, facendoli diventare simbolo che favorisce un Islam ferocemente antioccidentale in un vero e proprio delirio di integralismo religioso. Un integralismo che ha messo radici anche in Europa, come dimostrato da episodi terroristici terribili, che sono frutto di una sostanziale difficoltà di integrazione di gran parte delle comunità arabe, che vivono in una società parallela che in molti casi mira a logiche di suprematismo islamico, che non riconoscono valori costituzionali essenziali in tema di diritti civili.
Non faccio di tutta un’erba un fascio, ma sarebbe stupido, nel nome del politicamente corretto, non notare che nei confronti dell’estremismo islamico esiste una sorta di acquiescenza anche da noi che preoccupa e che ha portato in questi giorni in piazza in Europa anche giovani arabi già nati e cresciuti in Occidente. Inneggiare ad Hamas o è ignoranza o è follia e questo vale per i troppi cretinetti di estrema sinistra (ma anche gli antisionisti se non antisemiti all’estrema destra) che sono convinti che sostenere i terroristi, sbandierando la bandiera palestinese, sia segno di democrazia.
Non è facile per Israele capire il da farsi per rispondere all’aggressione, con i palestinesi di Gaza che sono di fatto stati complici ma in fondo sono anche anche prigionieri “carne da macello” di queste milizie armate estremiste, peggio del peggio, che nella loro pazzia ucciderebbero - se li incrociassi sulla mia strada - anche me e la mia famiglia, perché siamo “infedeli”!
Ha scritto ieri su La Stampa il lucido Mattia Feltri: ”Hamas e i suoi amici non aspettano altro che la mattanza per additare al mondo il nazismo sionista e trovare alleati per la soluzione finale. Nulla gli importa, da decenni, della gente di Gaza. Non ripetete gli errori che abbiamo commesso noi dopo l'11 settembre, ha detto ieri Joe Biden a Bibi Netanyahu. Quindi? È cecità, ha scritto giustamente Giuliano Ferrara, dire a Israele che cosa non fare, e quanto a che cosa fare aggiungere "non lo so". Se chiedete a qualcuno che dovrebbe fare ora Israele, più spesso risponderà "non lo so". Se lo chiedessero a me, direi "non lo so" “.
Purtroppo la Storia non si ferma, malgrado le nostre titubanze e le nostre paure. E io di questa situazione in Medio Oriente ho paura, così come delle alleanze geopolitiche che stanno mettendo assieme dittatori e “cattivi” del mondo intero e se la polveriera nucleare esplode facciamo la fine dei dinosauri uccisi dal meteorite.

La personalità di ciascuno

Senza buttarlo sullo spiritualista o peggio sull’esoterismo, trovo non male riflettere sui nostri comportamenti, come esercizio di introspezione che può avere una sua utilità.
Quel che siamo come esseri umani è ovviamente frutto di tante circostanze. Certo da questa varietà di situazioni, che si incrociano fra loro e siano scelte o subite, usciamo noi come prodotto originale. Lo dimostrano le nostre impronte digitali o meglio ormai il nostro DNA, che ci inchioda ancor di più alla fisicità e dimostra la nostra unicità.
Ha scritto Erich Fromm: ”Il principale compito dell’uomo nella vita è quello di dare alla luce sé stesso, per diventare ciò che potenzialmente è. Il prodotto più importante dei suoi sforzi è la sua propria personalità”.
Così ormai io stesso - come tutti - sono quel che sono, anche se nel tempo ci sono stati tanti me stesso, a seconda dell’età e dei ruoli spesso diversi che ho ricoperto e pesano nel bene e nel male anche le situazioni più personali e familiari. Un succedersi di esperienze da cui emergono pregi e difetti e ciascuno risponde di quello che è e diventato per merito e anche per fortuna.
La cosa certa è che ci sono modi di essere diversi nel rapporto con gli altri. Per esempio: bisogna dire quel che si pensa o è meglio tacere per non disturbare nessuno, anzi il silenzio - modo ad esempio per non schierarsi - potrebbe essere occasione per piacere a tutti?
Il tema per chi faccia politica è molto interessante, perché il dato oggettivo è che, essendoci per fortuna in democrazia il passaggio del voto, si sale o si scende a seconda del consenso che si ottiene. È c’è chi ritiene il fatto di essere “piacione” la sua stella polare e dunque di fronte a scelte fra bianco e nero opta per un sempre indossabile grigio.
Mi è capitato di sentirmi dire, ad esempio per quanto scrivo sul mio Blog, se davvero fosse il caso di farlo in certe circostanze e su temi sui quali forse sarebbe stato più conveniente far finta di niente per non scontentare qualcuno.
Ne ho conosciuti di quelli con più facce, adoperandole a seconda delle circostanze per fare buona impressione a potenziali elettori. Questa idea di alcuni di cambiare a seconda dell’interlocutore o delle circostanze non ha mai fatto per me.
Rari coloro che hanno cercato, per ragioni di opportunità politica, persino di zittirmi e ho sempre risposto che ognuno è quello che è e per me parlare e scrivere in modo franco è una scelta di libertà. Può capitare di eccedere e mi è capitato, quando ho sbagliato, di correggermi e anche di chiedere scusa.
Italo Calvino in Palomar, romanzo del 1983, ha scritto: ”In un'epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l'abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto. Di fatto, passa settimane e mesi interi in silenzio”.
Già, il silenzio. Non invidio né chi si morde la lingua e neppure chi decide di tacere. Dire quel che si pensa - meglio in modo urbano ed educato, specie quando cosi lo è e lo sono gli interlocutori - è essenziale in un mondo nel quale grava il rischio di chiudersi in una dimensione per difetto scarsamente sociale o per eccesso troppo Social.
Già, i Social, dove in troppi si nascondono dietro a nickname, somigliando ai banditi che si mettono il passamontagna durante le rapine per non farsi riconoscere.
Meglio metterci sempre, sia dal vivo così come sul Web, la propria faccia e le proprie idee.

Il busillis dell’Intelligenza Artificiale

Capita ogni tanto di credere davvero che gli alieni siano già fra di noi. Di recente a Roma ho partecipato ad un interessante convegno sull’Intelligenza Artificiale. L’ho fatto perché credo che siamo di fronte ad una tecnologia che risulterà una evoluzione o forse una rivoluzione nel settore del digitale con implicazioni forti sulla società umana. Per cui, prima di trovarmi nelle condizioni di non capire per perdita di conoscenze, meglio lanciarsi all’inseguimento, nei limiti naturalmente delle mie capacità di cogliere la forza propulsiva di certe novità emergenti, applicandone le utilità.
Ebbene, l’alieno, altissimo funzionario statale, alla domanda se si dovessero prevedere leggi sul tema IA ha risposto qualcosa come: “No, non è necessario, siamo in un Paese di legulei e se dovessimo normare la materia rischieremmo solo di fare pasticci”.
Credo che in sala si sia sentito il rumore della mia mascella che cadeva in terra.
Di questi tempi l’Unione europea, nel trilogo, così si chiama il confronto fra Commissione, Consiglio e Parlamento europeo, sta cercando un compromesso fra diverse posizioni per approvare entro fine anno e comunque prima delle elezioni europee un regolamento assai articolato sull’Intelligenza Artificiale. Un regolamento che si applicherà tout court a tutti gli Stati membri e sarebbe il primo caso nel mondo di una normativa regolatoria, che ritengo utile se non indispensabile, con buona pace di chi non lo sapeva, malgrado il rilevante ruolo pubblico..
Per fortuna ho sentito, come indiretta compensazione a consolazione, molte spiegazioni prevalentemente tecniche sul ruolo innovativo dell’Intelligenza Artificiale. Con la certezza che queste tecnologie - perché esiste nel settore una sana competizione - saranno in costante evoluzione e bisognerà in qualche modo rincorrerle per evitare dí cristallizzarsi di fronte a quanto destinato a mutare con impressionante velocità.
Niente di preoccupante, a condizione naturalmente di avere su molti punti una quadro di norme che evitino usi distorti che possano sfuggire al controllo. Questo vale per qualunque tecnologia sin dalla notte dei tempi e dunque le cautele dovrebbero - uso il condizionale - far parte delle buone pratiche.
Certo gli usi dell’Intelligenza Artificiale sono in parte già acclarati, altri sono prevedibili, altri ancora possono stupire e ci sono poi spazi sinora non esplorati che verranno utilizzate con il tempo grazie all’inventiva umana nelle applicazioni. L’impressione - almeno per il settore pubblico - è che per ora si proceda a tentoni con piccole esperienze e manchi una sorta di repertorio che consenta alla politica e alle amministrazioni di lanciarsi con maggior coraggio nell’utilizzo. Sembrerebbe mancare un ponte fra scienza e piena esplicitazione per I possibile utente del novero degli utilizzi, forse per alcuni aspetti prematuri. Bisognerà poi nel pubblico fare i conti con una pigrizia insita in chi, abituato a fare le cose in un certo modo, vede l’innovazione come minaccia per ignoranza o più semplicemente come turbamento del quieto vivere.
Con l’aggravante da non sottostimare di un settore pubblico che per innovare deve seguire regole che allungano i tempi di decisione o, come si dice oggi, di messa a terra. Così quando l’Intelligenza Artificiale fosse infine adoperata per uno qualunque dei possibili terreni ci saranno sempre i tempi trascorsi tra concezione e realizzazione e il rischio sarebbe quello di trovarsi già un passo indietro rispetto alle innovazioni nel frattempo maturate. Una sorta di inseguimento infinito.
Per questa bisogna non mollare l’osso e riuscire, nel rispetto delle regole, ad essere tempestivi.

Bruxelles insanguinata

La settimana scorsa ero al Comitato delle Regioni a Bruxelles. Cenavamo in una birreria al Sablon, quartiere dove ho abitato quando ero parlamentare europeo, e lo facevamo in un tavolo all’aperto grazie al caldo inusuale di quella che in francese chiamano “été indienne”.
Con i miei collaboratori a tavola discutevano di Israele e Hamas, preoccupati di cosa sarebbe potuto capitare in città, vista la presenza nella Capitale belga ed europea di cellule islamiste. Proprio vicino a dove ci trovavamo il 6 giugno del 2014 ci fu la strage islamista al Museo Ebraico di Buxelles alla vigilia delle elezioni europee: un attacco nel cuore dell'Europa, che fece quattro vittime e fu una ferita profonda alle istituzioni europee e all'Unione stessa, alla democrazia, alla convivenza, in un luogo simbolo di cultura e di memoria.
Non molto distante ci furono - con un totale di 32 morti - gli attentati di Bruxelles del 22 marzo 2016, quando avvennero una serie di tre attacchi terroristici coordinati. Due attacchi colpirono l'aeroporto di Bruxelles-National, nel comune di Zaventem, ed uno la stazione della metropolitana di Maelbeek/Maalbeek, nel comune di Bruxelles. All’aeroporto sfuggì alla morte, per combinazione fortunata, Francesca, la storica funzionaria della Valle d’Aosta, che lavora da tanti anni alla Rappresentanza della Regione a Bruxelles.
Fra noi commensali discutevamo delle preoccupazioni che Bruxelles potesse essere di nuovo colpita, concordando sul fatto che non parevano esserci misure particolari da parte delle forze dell’ordine, malgrado l’evidente rischio incombente ben rappresentato dalle vicende passate che ho appena descritto.
Purtroppo avevamo ragione e ieri un attentatore ha colpito di nuovo e l’assassino, un arabo belga, ha ucciso due persone a colpi di mitra e pubblicato un video in cui dice: ”Sono dello Stato Islamico, viviamo e moriamo per la nostra religione”.
Ora tutta l’Europa e direi tutto l’Occidente ha rafforzato le misure di sicurezza. Sappiamo bene come “lupi solitari” simili a questo Abdeslam Jilan ci sono potenzialmente ovunque, come il ceceno che in Francia ha ucciso poche ore fa un professore, ma ci sono anche gruppi organizzati. Basti pensare a Parigi con gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 compiuti da almeno dieci persone fra uomini e donne. Furono loro i responsabili di tre esplosioni nei pressi dello stadio e di sei sparatorie in diversi luoghi pubblici della capitale francese, tra cui la più sanguinosa è avvenuta presso il teatro Bataclan, dove vennero uccise 90 persone. Fu il secondo più grave atto terroristico nei confini dell'Unione europea dopo gli attentati dell'11 marzo 2004 a Madrid. Allora ci furono una serie di attacchi di matrice islamica sferrati nella capitale spagnola a diversi treni locali, provocando 192 morti (di cui 177 nell'immediatezza degli attentati) e 2057 feriti.
Evocare queste vicende serve come ammonimento contro certa distrazione nostra rispetto ai gravi rischi dovuti alla presenza fra di noi, nel cuore delle nostre società di terroristi sanguinari pronti a colpire. E pone un problema serio di certe complicità di comunità accolte nel tempo, che in passato non sempre hanno vigilato e denunciato la presenza fra di loro di persone pericolose, perché finite nelle braccia dell’Islam radicale.
I temi dell’immigrazione ragionata e non casuale e dell’integrazione necessaria contro la presenza di società parallele restano chiavi di volta dell’accoglienza e bisogna dirlo con chiarezza in occasione di vicenda gravi che minano la necessaria civile convivenza. Altrimenti saranno guai crescenti e il muro delle incomprensioni genera mostri. Abbiamo diritto tutti a vivere sereni.

La guerra e il soldato

Non esiste uomo folle al punto di preferire la guerra alla pace. In pace i figli seppelliscono i padri, in guerra sono invece i padri a seppellire i figli.
(Erodoto)

Il grande storico greco antico forse, se avesse visto il seguito della Storia, avrebbe scoperto con orrore - ma penso ne fosse già consapevole - che c’è chi nel tempo la guerra la vuole e la persegue. Non sono solo dittatori folli, passati e presenti, ma anche chi, sulla spinta di ideologie perverse imbevuto d’odio, si intruppa - come Hamas in queste settimane - con assoluta dedizione per ammazzare senza pietà pure i bambini.
Per questo nell’educazione familiare, nell’insegnamento, nella vita civile bisogna spiegare ai giovani la Storia con i suoi orrori e non bisogna farlo con un pacifismo stucchevole, che dipinge il mondo come se fosse lo scenario di Barbie. Vien da ricordare come esempio un altro Barbie, che non è la bambolina platinata, ma quel Klaus Barbie, comandante della Gestapo a Lione e non caso, per i suoi efferati delitti, il Boia di Lione.
Ogni occasione è buona e purtroppo oggi il caso di Israele e la tragedia Ucraina sono utili per noi genitori per discutere con i nostri figli.
Io per mia fortuna ho ascoltato i racconti da mio nonno della guerra di Libia e della Prima guerra mondiale e ho poi conosciuto altri reduci da quelle trincee. Lo stesso è stato per la Seconda guerra mondiale con familiari che erano stati soldati, partigiani, internati. Anche per questo ho sempre letto avidamente libri sulle guerre vecchie e nuove. Ne ho visto uno scenario in Bosnia Erzegovina nell’ultimo periodo della guerra dei Balcani. Ne ho ricavato la convinzione profonda di quanto male facciano le guerre, ma anche la certezza che in certi casi - duole dirlo - si sono combattute guerre dal lato giusto, come quella contro il nazi-fascismo o come quella degli ucraini contro i russi, per non dire del diritto all’esistenza del proprio Paese degli israeliani che certo non impugnano le armi per chissà quale divertimento.
Cambio scenario. Proprio poche settimane fa è morto ad Aosta Michele Maurino, Maresciallo maggiore dei carabinieri, diventato dopo il congedo dall’Arma presidente dell'Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi di Guerra. Maurino si era distinto nel lavoro instancabile per riportare a casa i resti di militari valdostani uccisi in guerra e sepolti in terre lontane.
Così è avvenuto, con cerimonia ieri al cimitero di Saint-Vincent, per il ritorno nel suo paese di origine - frutto del citato lavoro di ricerca - dell’alpino Giovanni Alessandro Déanoz, ucciso sul fronte albanese a Bozuchi Spadarit il 9 marzo 1941, a soli 21 anni. L’urna con le ceneri del soldato è stata tumulata nel cimitero di Saint-Vincent nella tomba di famiglia insieme alla mamma Maria Adele Thuegaz, straziata quando era viva dal fatto di non avere un luogo dove pregare per il figlio morto al fronte.
Ebbene, questa vicenda dolorosa, simile a molte altre, conferma quanto sia più terribile la situazione di chi in una guerra ha avuto un parente risultato disperso.
Straziante le vicende umane dei morti in guerra: si pensi al monumento ai caduti di Saint-Vincent, nella piazzetta centrale del paese, simile a monumenti che ci sono dappertutto in Valle. Quel lungo elenco di soldati morti rischia nel tempo un’oblio e persino un’incomprensione. Mi è capitato di spiegare a bambini giocosi che si arrampicano talvolta su quel monumento del significato che ha.
Questo andrebbe fatto in modo analogo e approfondito ogni volta che una salma di un soldato torna a casa per capire il contesto. Déanoz è morto, come molti suoi commilitoni, in una guerra d’aggressione illogica e inutile, voluta da quel Benito Mussolini, che oggi qualcuno ancora esalta, distorcendo gravemente la realtà per ignoranza o stupidità.
Per cui va bene rendere gli onori ai caduti, come faremo ritualmente all’inizio di Novembre, ma essendo andato perduto il filo dei ricordi dei protagonisti a suo tempo scevro da belletti reducistici resta, come dicevo, la Storia che va insegnata e spiegata bene. La ricostruzione minuziosa di certe vicende belliche sono un vaccino indispensabile per qualunque cittadino in una democrazia.
Ecco perché anche le preghiere “militari” pronunciate in certe occasioni, senza turbare le tradizioni assodate, dovrebbero addolcire certi passaggi guerreschi e nazionalisti, almeno considerando il quadro nuovo dell’Unione europea.

San Grato contro le cimici

Le “punaises de lit” (cimici del letto) sono diventate in Francia un problema politico per la sua spropositata diffusione e ne hanno discusso all’Assemblée Nationale.
Presenti in Natura sin dai tempi dei dinosauri che ne erano pieni, si sono poi interessati a noi mammiferi e oggi si contano 34 specie diverse che ci pungono, succhiano il sangue e lasciano una macchia rossa che prude sulla pelle.
A me è capitato in un club vacanze di esserne vittima ed è sgradevolissimo. Scriveva giorni fa un giornale francese “11 % des foyers auraient été infestés par des punaises de lits entre 2017 et 2022. Parmi eux, 32 % l’ont été en 2019, un pic, alors que ce chiffre a chuté à 8 % en 2022. Si les données des particuliers sont bien connues, celles concernant les espaces accueillant du public le sont moins et la réalité est difficile à estimer”.
Si parla di cifre impressionanti negli hotel, nei trasporti pubblici, nei cinema e persino negli ospedali. Non è facile eradicare questo parassita e l’edizione francese di National Geographic scrive: “Les déplacements dans le monde ont augmenté ces dernières décennies, ce qui permet aux punaises de lit de se propager à travers le globe et de trouver de nouveaux hôtes tous les jours. Par la suite, les populations de punaises de lit ont largement garni leurs rangs durant ce temps-là, et beaucoup d’entre elles résistent désormais sans mal à une multitude de pesticides du marché”.
Ora sul sito in francese dei Santi Aleteia” spunta come rimedio il nostro San Grato, Patrono della Diocesi valdostana, festeggiato con tanto di reliquie il 7 settembre.
Così si legge nel riassunto iniziale: “Depuis quelques semaines, les médias spéculent sur une potentielle recrudescence de punaises de lit, notamment dans les lieux publics. Un phénomène difficilement quantifiable mais à l’origine d’une véritable psychose que les autorités tentent d’enrayer. (…) Certains sont saisis d’angoisse à l’idée de ramener l’importune bestiole chez eux, quand d’autres vivent un véritable enfer pour s’en débarrasser. Bref, nul ne sait plus à quel saint se vouer. Et si un évêque du Ve siècle se révélait être un intercesseur efficace pour s’en protéger? Saint Grat, évêque d’Aoste, nous semble tout indiqué. Non pas parce que son nom évoque les démangeaisons causées par les piqûres de l’indésirable insecte (quoique la phonétique est assez troublante : saint Grat/san Grato en italien/gratter), mais parce que l’évêque d’Aoste était traditionnellement invoqué pour éloigner les nuisibles des champs. Un domaine dans lequel saint Grat devait exceller puisque la dévotion à son endroit, dont des traces subsistent encore aujourd’hui, était très importante dans la vallée de l’Aoste, à cheval entre la France et l’Italie. Autrefois, sans doute depuis le Moyen Âge, des processions, des messes et des invocations étaient faites régulièrement dans les pays de Savoie, afin de demander au saint valdôtain de protéger les cultures contre les insectes et les animaux nuisibles”.
La descrizione dell’attaccamento dei valdostani è ben riassunta: “Aujourd’hui encore, la dévotion envers saint Grat est vivante. Une procession est organisée chaque année le jour de sa fête, le 7 septembre, dans la ville d’Aoste, dont il est le saint patron. Ses reliques, conservées dans une châsse dans la cathédrale d’Aoste, sont alors portées en cortège dans les rues de la vieille ville. À Charvensod, toujours en Italie, l’ermitage de Saint-Grat est devenu un lieu de pèlerinage. Selon la tradition, saint Grat d’Aoste s’y isolait avec son disciple Joconde pour méditer”.
Così prosegue l’articolo: ”Côté français, saint Grat a été le patron tutélaire de plus de 70 chapelles en Savoie, selon un décompte effectué par Sophie Sesmat, spécialiste en art populaire, pour la commission d’art sacré du diocèse d’Annecy. Une église lui est dédiée à Conflans, sur la commune d’Albertville. Mais c’est dans le petit village de Vulmix, à trois kilomètres de Bourg-Saint-Maurice, que transparaît le mieux l’histoire de sa dévotion. La chapelle Saint-Grat conserve en effet de magnifiques fresques colorées retraçant la vie du saint. Une vingtaine de panneaux peints par un artiste local influencé par les écoles italiennes, semblant remonter à la seconde moitié du XVe siècle. Traditionnellement, saint Grat est représenté portant la tête de saint Jean Baptiste car il serait à l’origine de la translation du chef de saint Jean Baptiste d’Orient en Occident. Une gerbe de blé, symbolisant les cultures qu’il protège, complète parfois son iconographie.
Un saint dont la réputation demeure encore très locale mais qui sait ? Les punaises de lit pourraient bien changer la donne. En effet, dans un acte de foi, pourquoi ne pas lui confier la protection de sa maison, lui qui a su durant des siècles éloigner les nuisibles des champs?”

La vita degli oggetti

Nella casa dei miei genitori, oggi resa triste e vuota dalla loro scomparsa, emergono oggetti dal passato, che specie mia madre era restia a buttare, in una logica di accumulazione tipica di generazioni del passato. Peggio di lei erano i miei nonni materni: li collegava l’idea che certe cose potessero prima o poi tornare utili. Altro che economia circolare! Noi, generazioni dello spreco, stentavamo a capire e invece oggi certe cose rinvenute riempiono di nostalgia e dimostrano un’intrinseca utilità, spesso perché l’ultimo filo che ci lega a papà e mamma che non ci sono più.
Prima o poi in quella casa bisognerà sbaraccare tutto ed è triste ma ineluttabile liberarsi di scenari dell’infanzia, che sono ancora un segno dei posti dove siamo cresciuti e ci sono particolari che solo noi conosciamo e sono come tracce sulla sabbia destinate a sparire con noi. Esattamente come il cumulo di vecchie fotografie con persone scomparse che ci sorridono perlopiù in bianco e nero.
Mi è venuto così da pensare - per un’analogia tutta mia - a certi oggetti che ci sembravano immortali nel loro uso e che, invece, sono spariti di scena, travolti dai cambiamenti.
Ogni tanto io stesso trovo cimeli del tempo che fu: penso per la musica alle cassettine o ai compact disk (CD) e poi al rivoluzionario walkman, ai lettori mp3 o ai floppy disc per conservare i dati. Tutti questi strumenti apparivano già il top della modernità e invece si sono fatti superare a gran velocità da molte novità. Resta cerco - lo ripeto come un mantra usurato - come mai nessuna generazione precedente ha dovuto subire cambiamenti che, per riffa o per raffa, sono legati a quelle che un tempo venivano chiamate nuove tecnologie e oggi sono tutte in modo unitario riportabili alla rivoluzione digitale nel suo complesso.
Riavvolgendo il nastro, ero invidiosissimo di chi sfoggiava il cercapersone, che mi sembrava l’ultima thule ed invece era un fuoco di artificio, spento subitaneamente dall’incalzare dei telefonini, dagli esordi sino agli ultimi mirabolanti modelli che ci ipnotizzano.
Ero così curioso di fronte al primo fax con la sua carta chimica che si arrotolava, mentre oggi sembra un cigolante ferrovecchio, così come quello strano trillo con cui agli inizi ci si collegava faticosamente con il nonno dell’attuale Web.
Oggi che si ascolta la musica con mille accrocchi, mi faccio tenerezza a pensare a quanto agognassi a certe autoradio estraibili che campeggiavano nelle macchine ormai d’epoca come se fosse un trofeo. Le nascondevamo sotto il sedile e il tossico astuto la individuava e spaccava il finestrino per rubarla.
Mi è capitato di rinvenire rullini fotografici o negativi, che sono come sopravvissuti su di un’isola deserta in un cassetto assieme a videocassette di diverso formato e a videoregistratori di cui non si sa bene come disfarsi. Purtroppo la mancata digitalizzazione porterà certi supporti all’oblio e condannerà le relative immagini all’ineluttabile scomparsa.
E cosa dire delle povere mappe stradali cartacee, un tempo preziose e ora destinate al macero e ci si domanda legittimamente come facevamo a raggiungere certe mete senza la voce del navigatore. Chissà che fine avrà fatto il ciclostile con cui da ragazzi si facevano i volantini delle proteste studentesche (ad Aosta la base erano PCI e CGIL, che cercavano di strumentalizzare la nostra ingenuità adolescenziale) e le macchine da scrivere con cui ho iniziato il mio lavoro di giornalista sembrano ottocentesche, cui seguirono i primi computer finiti poi in discarica ormai agonizzanti.
Pensiero in libertà su pezzi di vita e di cuore, che sembrano lontanissimi nel tempo.

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