"La Suisse ne ratifiera pas les neuf protocoles de la Convention alpine. Par 102 voix contre 76, le Conseil national a enterré mercredi le projet en refusant une nouvelle fois d'entrer en matière, au nom du développement économique". Trovo nella posta elettronica questa notizia inviatami da un conoscente svizzero con cui, per molti anni, abbiamo seguito l'esito di questa Convenzione, che mi ha più volte occupato negli ultimi vent'anni nei miei diversi ruoli istituzionali. Il mio è sempre stato un odio-amore: odio per una Convenzione imposta dall'alto e gestita per lungo tempo con una visione solo ambientalistica e diretta dalla parte germanofona delle Alpi; amore perché nel diritto internazionale era l'unico strumento che considera in modo unitario le Alpi, anche nei confronti dell'Unione europea, trattando di materie utili, come la politica dei trasporti per limitare i camion. I Cantoni svizzeri, base del federalismo di una Confederazione interamente in territorio alpino, sono stati i primi a denunciare il deficit di democrazia della Convenzione, segnalando come gli Stati imponessero delle scelte senza averle discusse con le popolazioni alpine. Sono temi che io stesso ho evocato nelle sedi istituzionali. Anche l'Italia non ha ratificato i protocolli e il no svizzero suona come una campana a morto e rende obbligatorio cambiare prospettiva: non una Convenzione imposta ma condivisa. Sarebbe bene che le Regioni alpine reagissero trovandosi al più presto per far ripartire su basi nuove e diverse quei principi di dialogo e di riconoscimento giuridico della parte "buona" della Convenzione, uccisa per rinascere. Farla vivacchiare così sarebbe inutile.