Perché si sceglie di far politica? Dopo tanti anni di lavoro in questo ambiente, penso di aver conosciuto centinaia e centinaia di politici, dal vertice alla base, in circostanze, luoghi e livelli istituzionali diversi. Una casistica variegata che consente di dire che non esiste una risposta, ma ci sono tante risposte alla domanda iniziale. Nel mio caso, pur con una serie di circostanze favorevoli, sono entrato in politica in modo pressoché casuale senza mai pensare ad una "carriera" così lunga e varia. Sono stato fortunato, ma ho cercato di ripagare la buona sorte con un impegno personale. In fin dei conti, mi trovo a dire che - una precondizione che precede ogni logica di schieramento - dovrebbe essere per il cittadino una pretesa: l'onestà personale. So che farò sorridere perché certe parole, come appunto "onestà", sembrano datate e quasi stucchevoli, perché spesso abusate da chi è... disonesto. Mi vien da ridere per una specie di commedia degli equivoci di qualche giorno fa. Un vecchio amico in vena di consigli per il mio futuro spara una frase del tipo: «tu, in quel mondo lì sei troppo onesto». Sbianco e reagisco goffamente a difesa di alcuni valori. Lui, in replica, precisa imbarazzato: «non volevo dire che devi essere proprio disonesto, ma dovresti essere più accomodante: il piacerino, la spintarella, il favore... Devi essere meno rigido!». Prendo e porto a casa, restando convinto che l'onesto non è un fesso o una mosca bianca e che certamente chi fa politica deve cercare di risolvere problemi e situazioni per singoli e per la comunità. Ma le mani, come da espressione resa celebre all'epoca di "Tangentopoli", devono restare pulite.