Si avvicina la morte, così pare, del bicameralismo all'italiana, detto "perfetto", perché fondato sulla coesistenza di due Camere con gli stessi poteri. Sistema adottato nell’ordinamento italiano repubblicano con il Parlamento, che è la sommatoria della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (articolo 55 della Costituzione), che esercitano assieme la funzione legislativa (articolo 70 Costituzione). Le origini del bicameralismo sono in Inghilterra nel XIV secolo per conciliare gli interessi dei nobili, che formavano la Camera dei Lords, con chi rappresentava i Comuni nella Camera dei Comuni, che ottenne poi nell'ordinamento inglese una supremazia. Al modello inglese si contrappose quello monocamerale, affermatosi nella Francia giacobina, anch'esso provvisorio, pensando alle successive evoluzioni. Comunque sia, fu il sistema bicamerale a prevalere negli Stati ottocenteschi, in genere con una Camera eletta dal popolo e con un'altra, il Senato, di nomina regia. Intanto il bicameralismo assumeva un diverso fondamento negli Stati federali, come negli Stati Uniti con un Senato in rappresentanza di ciascuno Stato membro negli Usa o in Germania, dove i membri del Bundesrat sono espressi dagli esecutivi dei Länder. Persino nella Quinta Repubblica francese - restando una logica giacobina e non federalista - vi è uno Senato eletto dai rappresentanti degli enti locali (elezione di secondo grado). In questi ordinamenti si realizza il bicameralismo "imperfetto" e cioè con Camere con ruoli differenziato e spesso con una certa maggior importanza di una delle due Assemblee. In Italia, invece, come dicevo all'inizio, le due Camere svolgono identiche funzioni sia per l'evoluzione storica di parte della storia precedente, ma anche perché il doppio passaggio era una garanzia in un democrazia fragile, dopo una dittatura. Appare poi ovvio come l'attuale Senato non sia per nulla regionalistico, anche se l'articolo 57 della Costituzione parla, con ambiguità, di elezione "a base regionale". Ora sapete del dibattito, che mira a "risparmiare" sul Senato, trasformandolo in un'Assemblea con Presidenti di Regioni e Sindaci (maggioritari come numero) e di fatto scegliendo di avere un sistema monocamerale, avendo solo la Camera dei deputati con delle funzioni parlamentari reali. Quando nel 1991 presentai la rivoluzionaria proposta di legge costituzionale per un'Italia federale "Norme per la costituzione di uno Stato federale", che prevedeva una disaggregazione e riaggregazione dello Stato su basi federali, l'idea era quella di avere un Parlamento federale (trovare su Internet la proposta numerata 6042). Restava una Camera dei deputati di trecento membri (almeno due per Regione) contro gli attuali seicento, mentre il Senato delle Regioni era composto da dieci senatori per Regione, cinque eletti dal popolo e cinque da ciascun Consiglio regionale per un totale di duecento senatori contro gli attuali 315 (più i Senatori a vita). Restava, per le poche ma importanti materie in capo allo Stato, una logica bicamerale nel voto delle due Camere. Oggi, dovesse essere riscritta quella proposta, dimagrirei ancora il numero di parlamentari e andrebbe scelta una formula intelligente di bicameralismo imperfetto, con materie che potrebbero essere assegnate ad una solo Camera. Invece pare prevalga nella riforma attuale l'idea di disfarsi del Senato, annacquandolo fino a farne un medicinale omeopatico. In più creando un dualismo fra Regioni e Comuni, aggiungendo un indeterminato numero di personalità "nominate", si accoltellerebbe a morte il regionalismo e ciò mi sembra pericoloso, perché vuol dire ovviamente e di conseguenza cancellare ogni speranza federalista. Basta esserne consapevoli.