Dunque il Regno Unito se ne va dopo 43 anni - entrò il 1° gennaio del 1973 - dall'Unione europea: hanno vinto infatti gli anti-europeisti, smentendo di fatto i sondaggi della vigilia, quando sembrava che contro il "Brexit" agisse ancora la morte brutale della deputata laburista Jo Cox. La giornata di oggi, con l'esito delle urne che proclama uno squarcio nella cartina dell'Europa, resterà scritta sui libri di Storia. E questo processo di abbandono per scelta popolare è il segno macroscopico di un processo d'integrazione europea in crisi, proprio mentre si avvicinano i sessant'anni dal "Trattato di Roma" che dal 1° gennaio del 1958 sancì l'istituzione della "Comunità Economica Europea". Si tratta di un passaggio choc per chi come me ha vissuto per molti anni, prima al Parlamento europeo e poi al "Comitato delle Regioni", l'europeismo come incontro e dialogo nella speranza che questo processo crescesse sempre, pur con gli alti e bassi che sono naturali per ogni cosa.
Pur avendo piena coscienza della fragilità del rapporto con il Regno Unito nella tangibile consapevolezza che in quel Paese, che poi è una sommatoria di popoli, specie gli inglesi risultassero da sempre i più euroscettici e pungenti verso il resto dell'Europa e le sue Istituzioni. Mentre Scozia, Galles e Irlanda del Nord hanno sempre avuto posizioni più favorevoli e lo si vede anche questa volta. Scriveva giorni fa Romano Prodi, cui si deve il merito della mia candidatura che mi portò al Parlamento europeo, e con cui seguii momenti significativi, come l'allargamento ad Est dei confini dell'Unione: «Anche se personalmente mi auguro e spero che l'uscita non avvenga, sono tuttavia convinto che, in caso di "Brexit", si possano trovare i necessari compromessi che permettano non solo la permanenza degli intensi rapporti economici costruiti in questi anni ma anche delle fondamentali alleanze politiche e militari che sono oggi e lo saranno anche domani, di comune interesse». Chiaro che avvertisse la puzza di bruciato dell'attuale situazione. E aggiungeva senza troppi fronzoli: «Gli aspetti negativi di una eventuale "Brexit" riguardano invece il messaggio di fragilità che l’Unione Europea trasmetterebbe in tutto il mondo, ossia quello di un'Unione reversibile e non duratura nel tempo. Vi sono infatti molti Paesi, a partire dall'India e passando per gli Stati Uniti, compresa l'Australia e tante altre Nazioni sparse per il globo che, in conseguenza della storia e dei legami economici e politici particolari, guardano all'Europa soprattutto con gli occhi della Gran Bretagna. Il nostro ruolo nel mondo non può quindi che soffrire da una possibile "Brexit". In secondo luogo non si può escludere che altre Nazioni siano tentate di seguire la stessa strada, dato che, in tutti i Paesi, i movimenti anti-europei si sentiranno incoraggiati a perseguire lo stesso obiettivo». Insomma: non è tanto questa uscita che spaventa, al di là delle burrasche sui mercati dei giorni a venire, quanto quest'ultimo elemento di un effetto domino che faccia perdere ulteriori pezzi. Chi è federalista non può che guardare con preoccupazione a queste vicende, forse con due soli elementi di consolazione. Il primo è il classico: la fragilità della costruzione è sempre stata un cruccio per chi crede nel federalismo e questo si è accentuato con la grande crisi economica che ha innescato molti di quei fenomeni di rigetto di cui oggi vediamo il primo e più clamoroso esito. Il secondo - che non appaia un paradosso - è che questo passaggio brusco e pericoloso rilanci proprio gli ideali federalisti e gli Stati fondatori, Italia compresa, aggreghino un nucleo più forte di un'Europa diversa da quella bocciata dal voto di ieri. Esistono personalità europeiste che incarnino questa speranza? Sarà sempre la Storia a dircelo, dando la speranza a quelle giovani generazioni - penso ai miei figli - che oggi assistono a questo triste spettacolo di una casa comune che brucia. Intanto tocca domare l'incendio, ma pensando già al domani.