Cominciare con le cifre dà il senso della drammaticità della Grande Guerra per la Valle d'Aosta: 8.500 giovani inviati al fronte, 1.557 caduti, 3.600 finiti in ospedale per ferite o malattie (ed in tanti rimasero invalidi permanenti), 850 fatti prigionieri. Molti dei caduti furono Alpini del "Battaglione Aosta", unico tra tutti i battaglioni alpini cui venne conferita la "Medaglia d'oro al valor militare" per le azioni sul Monte Vodice e sul Monte Solarolo con azioni di una violenza e di un coraggio indicibili. Se sommiamo l'evento bellico all'emigrazione che investì la Valle nei decenni precedenti e successivi possiamo capire che cosa pesò tutto questo sulla demografia e sullo sviluppo della Valle: solo il regime di Autonomia speciale del secondo dopoguerra servirà a risalire la china.
Di questi tempi, giusto un secolo fa, la Prima Guerra mondiale dimostrava non trattarsi affatto di una guerra rapida e indolore, come sperato da molti interventisti, ma che ci si trovava impantanati in una serie infinita di battaglie - con l'uso di nuove armi letali che ne segneranno gli esiti - che avvengono anche a quote impensabili sulle montagne del Nord Est italiano. Per molti valdostani, mai usciti dalla loro "Petite Patrie" (definizione che credo si debba al celebre Jean-Baptiste Cerlogne, confrontata appunto alla dimensione nazionale avvenuta con l'Unità d'Italia), la scoperta del mondo esterno fu la chiamata e la guerra di trincea con quegli assalti verso i nemici in cui la morte era in perenne agguato. Naturalmente i ricordi di quegli eventi pesano moltissimo sui luoghi dove avvennero e dunque, rispetto a noi, questo significa che dall'altra parte dell'arco alpino si susseguono iniziative varie nel segno della memoria e della storia. Anche se una serie di conferenze svolte alle Medie nelle scuole valdostane mostrano un grande interesse dei giovani, che pure - a differenza della mia generazione - non possono più contare su testimonianze viventi. Ripeto ogni volta il rimpianto di non aver raccolto la voce di mio nonno Emilio che, dopo la guerra di Libia, fu in Cavalleria nella Prima guerra mondiale e mi restano solo un pugno di fotografie di quel tempo ed un flebile ricordo dei suoi racconti, che avvenivano con lo sguardo fisso di quei suoi occhi cerulei come abbandonati sull'abisso di cose che per noi bambini sembravano romanzesche ed invece era la sanguinosa realtà vissuta per anni da quei nostri vecchi, che ne furono segnati per tutta la vita. Il caso vuole che la principale mostra sul tema in corso a Trento - e chissà che la Valle d’Aosta non colga l'occasione in futuro per proporla da qui al 2018, quando scadranno le celebrazioni - intitolata "La guerra Bianca" sia opera di un fotografo di antica e prestigiosa famiglia valdostana, Stefano Torrione, che di recente mi ha ricordato come un cugino di suo nonno, Valentino Torrione, morì proprio in quella guerra, come dimostra la sua presenza nel commovente Parco delle Rimembranze del cimitero di Aosta, dove si vede - come avviene anche nei monumenti ai Caduti in tutta la Valle - quel tributo di sangue che non è elemento astratto, ma dolore vissuto da tante famiglie valdostane che ricevevano - in uno stillicidio diffuso - la visita a casa dei carabinieri per il terribile annuncio del decesso di un proprio congiunto. Le foto di Stefano (la cui ricchezza di ricerca in immagini mai banali è ben rinvenibile nel suo Sito), fatte in questo caso per la mostra e per "National Geographic", sono la miglior testimonianza, per la ricchezza e il calore non solo paesistico ma umano che trasudano, di quella guerra che oggi rischia - sia per il passare del tempo che per l'incombere di nuove tragedie - di non essere più un punto di riferimento etico, come terribile ammonimento, per le generazioni a venire. Evocare il fatto che l'alta montagna - luogo di silenzio e di pace nella normalità delle cose - possa diventare scenario di soggiorno e di lotta quotidiana per i soldati e soprattutto di presenza incombente della morte (nel caso italiano anche per la stupidità dei Generali al comando) è ancora oggi un insegnamento prezioso, che tra l'altro spoglia sia la montagna che gli eventi bellici dal gusto dolciastro e ripugnante di certa retorica alpina e patriottarda, che invece dovrebbe cedere il passo al realismo degli eventi ed al lutto che milioni di famiglie hanno portato nel loro cuore. Torrione dimostra che il fotografo è un testimone non solo del presente, come può avvenire con i reportage d'attualità, ma che sa ricostruire con quanto oggi esiste ancora - spesso restituito dal movimento dei ghiacciai in arretramento per i cambiamenti climatici - il "genius loci" di quegli ambienti dove l'Uomo incontrò la Natura ed i suoi consimili nello scontro barbarico rappresentato dalla guerra, che sembra essere una costante di cui non riusciamo a disfarci malgrado l'evidenza di quanto male ci possa fare. Giuseppe Ungaretti scrisse in "Veglia" questa verità vissuta di persona lassù e non in un astratto poetare:
"Un'intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d'amore.
Non sono mai stato tanto attaccato alla vita".