Capita di pensare a certi aspetti, quando si manifestano delle occasioni utili per farlo ed è sempre un esercizio salutare, per nulla automatico. Anzi, quel che davvero ti intrappola è la ripetitività degli atti e le pantofole comode della routine, che rende soporiferi anche i propri pensieri. Un primo aspetto riguarda il fatto che chi seziona l'umanità per generazioni - tipo prendere poco sul serio i bambini perché considerati vacui o minimizza gli anziani considerandoli per partito preso da rottamare - sembra non temere in considerazione due cose. I bambini non sono dei minus habentes ma degli esseri umani in crescita, tipo dei bonsai delle piante che poi diventano più grandi sino all'età adulta. I vecchi - termine per nulla offensivo nel mio lessico - sono invece la ricchezza della maturità, come quei legni antichi dei rascard che attraversano i secoli e fanno del tempo passato la loro bellezza.
Ci pensavo per due flash illuminanti di queste ore. Il primo autore è il mio piccolo Alexis, anni sei, che visitando Notre Dame de Paris il giorno di Pasqua, ha percorso in lungo e in largo le meravigliose navate. All'uscita ha osservato, commentando i molti banchetti presenti all'interno con oggetti in vendita e persino certi distributori automatici di gadget religiosi, forte di certi rudimenti di catechismo: «Ma Gesù non aveva cacciato i mercanti dal Tempio?». Il secondo autore è Guido Viola, partigiano oggi 92enne, che ho sentito per il 25 aprile e che, con efficacia priva di qualunque orpello retorico, ha raccontato la sua infanzia e giovinezza forgiata dal Fascismo. Per poi spiegare che salì in montagna, scegliendo di diventare partigiano, prima a Quart e poi nella celebre "Repubblica di Cogne", non per chissà quali certezze ideologiche, ma perché lui - operaio "Cogne" - il marinaio per la Repubblica di Salò proprio non voleva farlo. E il racconto delle azioni contro i nazi-fascisti non sono affatto autocelebrative, ma impregnato dalla speranza che allora aveva in battaglia di portare a casa la pelle, anche quando si era offerto volontario per operazioni pericolose, come il tentativo di fare brillare una bomba artigianale nella strada sotto il castello di Sarre contro una colonna militare in transito. Negli scontri a fuoco morì il partigiano Arturo Verraz. Essere all'ascolto è un esercizio forse difficile ma arricchente. Primo Levi osservava con arguzia: «Come c’è un'arte di raccontare, solidamente codificata attraverso mille prove ed errori, così c'è pure un'arte dell'ascoltare, altrettanto antica e nobile, a cui tuttavia, che io sappia, non è stata mai data norma». A me piace parlare - non so se sono un chiacchierone, ma ci vado vicino - e mi fa piacere farlo nell'incontro conviviale con gli amici, che è un'esperienza di scambio che mi fa piacere e mi arricchisce e lo stesso può avvenire in certe discussioni in occasioni più ufficiali, quando la dialettica può assumere, se esiste un rispetto delle regole della buona creanza, aspetti di uno scontro cavalleresco. E parimenti mi ha sempre fatto piacere farlo - più in una logica di oratoria con costruzione di ragionamenti - in pubblico, che fosse una sede parlamentare o un comizio. Ma mi ha sempre altrettanto dato grandi soddisfazione ascoltare e trovo che l'esperienza di giornalista abbia una sua utilità: la tecnica dell'intervista - questo mi è sempre stato presente - funziona solo se ascolti davvero quel che ti dice il tuo interlocutore, perché crea un concatenamento logico nel contenuto e nel ritmo delle domande. Se ti centri su di un tuo fil rouge finisci per mettere troppo te stesso e oscurare i contenuti della persona con cui interloquisci per svelarne certe caratteristiche ed avere quel che conta e cioè delle notizie e racconti. La scoperta dell'altro finisce poi per farti scoprire di più te stesso.