Inizio anni Sessanta. Risale dalla memoria di me piccolissimo una canzone cantata da Piero Focaccia, tormentone di quegli anni e canzone di quelle diventate senza tempo. Ricordate? «Per quest'anno non cambiare stessa spiaggia stesso mare per poterti rivedere per tornare per restare insieme a te e come l'anno scorso sul mare col pattino vedremo gli ombrelloni lontano lontano nessuno ci vedrà vedrà vedrà». Assieme ad altre canzoni di Edoardo Vianello ("Pinne, fucile e occhiali", "Abbronzatissima", "I Watussi") raccontava le estati al mare negli anni in cui il turismo diventò un fenomeno di massa.
E cristallizza due visioni dell'estate che ormai si contrappongono con nettezza. La prima è figlia di quegli anni e lo dimostrano anche i valdostani che, scelta una località, quasi sempre della Liguria, comprarono - in un logica di formichine risparmiose - un alloggio per le le vacanze estive non solo per ragioni di svago, ma anche nel refrain igienistico «il mare fa bene». Questa scelta ha segnato il destino di molti: inchiodati alla logica di "stessa spiaggia, stesso mare", di cui ho molte testimonianze fra i miei conoscenti. Io stesso, per tanti anni, anche perché luogo di nascita di mia mamma, sono stato ad Imperia ("Spiaggia d'Oro", Porto Maurizio), creando quella situazione privilegiata di appuntamenti di anno in anno con quelle "compagnie" miste - autoctoni e turisti - che sono fra i miei ricordi più belli. Ma questo "cordone ombelicale", fatto di rassicurante ripetitività e di joie de vivre crescendo assieme, comporta anche il rischio di diventare come una palla al piede di un carcerato. Anche se, naturalmente il ricordo è dolce, così come lo descrive Cesare Pavese: «In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito comincia lo smarrimento della distanza, l'incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo scomparso e quasi abolito». Ma eccoci alla seconda visione dell'estate, che pratico ormai da anni ed è la scoperta di posti nuovi, anche se esistono meno certezze sull'esito. Questa seconda opzione - l'estate come novità e viaggio - mi sembra ormai, tranne per chi è piacevolmente prigioniero delle sue abitudini, la strada più percorsa e comporta certo scelte strategiche mica da ridere. Oggi per muoversi nel mondo bisogna attrezzarsi con tattiche da geopolitica e da esperto di meteorologia per evitare brutte sorprese, facendo sempre attenzione al portafoglio. Ma la soddisfazione di mettere bandierine sul mappamondo non ha eguali. Mi riconosco in Josè Saramago: «Non è vero. Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: "Non c'è altro da vedere", sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l'inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in Primavera quel che si era visto in Estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l'ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre». In fondo è una ragionevole mediazione: scoprire luoghi lontani ed abbeverarsi con le differenze, sapendo anche vedere con occhi nuovi i luoghi più vicini.