Ci sono giorni in cui si ha voglia di evadere dalla prigione della quotidianità. Non sono contro la routine, che ha un suo perché, ma certo il rischio della ripetitività è un veleno che può agire con piccole ma letali dosi quotidiane. Ricordo quella bella canzone di Luigi Tenco, che certo non era espressione - si sa com'è finita - di "joie de vivre": «Un giorno dopo l'altro, il tempo se ne va, le strade sempre uguali, le stesse case. Un giorno dopo l'altro, e tutto è come prima, un passo dopo l'altro, la stessa vita. E gli occhi intorno cercano, quell'avvenire che avevano sognato, ma i sogni sono ancora sogni, e l'avvenire è ormai quasi passato». Per questo credo, per contrastare certe cupezze, che sia bene ogni tanto pensare a qualcosa di apparentemente sganciato da ogni fatto quotidiano. Per questo spariglio e segnalo quanto sia molto bello in francese l'uso di quell'espressione «je ne sais quoi» e mi permetto di dire che l'uso in italiano di «quel certo non so che» non ha proprio uno stesso esatto impiego.
In francese una definizione suona più o meno così: "Quelque chose qu'on ne peut ou qu'on feint de ne pouvoir préciser, définir ou exprimer nettement" o anche "Chose qu'on ne saurait définir mais dont l'existence est intuitivement appréhendée" ma pure - più funebre nel suo uso - qualcosa "qu'il reste de nous, après notre trépas". E' comunque la dimostrazione che, scava scava, si scopre quanto tutto sia complicato alla ricerca delle origini etimologiche e letterarie di un'espressione. Ad esempio su "Wiktionnaire" così si racconta: "Cette locution traduit l'expression latine "inane nescio quid" que Pline emploie dans son "Histoire naturelle" (XXXVI, 16) pour parler des aimants". Poi scopro un breve saggio, derivato da una conferenza, di Pierre-Henri Simon dedicato proprio al tema e si sprofonda in un mondo di cultura ricco di suggestioni. Simon cita Tertulliano e non Plinio, ma fa notare che la traduzione letterale non sembra originare davvero l'espressione di cui ci occupiamo. E cita semmai due autori. Il cinquecentesco Montaigne: "Ce vers ont je ne sais quoi de vif" e a cavallo fra Seicento e Settecento Fénelon: "Le jeune âge a je ne quoi pas de vif et d'aimable". L'autore, nel girare attorno al problema, si spinge fino a dire, ma in una nota dà conto anche di contestazioni a questa sua teoria, che in fondo sembra essere una reazione alle logiche cartesiane (non solo di Descartes, ma anche dei suoi successori) che volevano dare razionalità a tutto e certo il «je ne sais quoi» sembra una via d'uscita che potremmo definire anticipatrice del Romanticismo. Capisco che sembra lana caprina su cui esercitarsi, ma quel che è bello delle espressioni è che - come in questo caso - si avverte il tocco lieve della poesia, specie quando si cerca di inquadrare qualcosa di sfuggente, ma di avvertito come esistente nell'animo umano. E non a caso Simon ricorda il secentesco Corneille e il suo: «Souvent, je ne sais quoi qu'on ne peut exprimer, nous surprend, nous emporte et nous force d'aimer». E questa logica - come dire? - d'incantamento emerge in un'altra sua frase: «Un je ne sais quel charme encore vers vous m'emporte». Ma anche il mio amato Montesquieu riprende, siamo già nel Settecento, questo concetto: «Il y a quelquefois, dans les personnes ou dans les choses, un charme invisible, une grâce naturelle, qu'on n'a pu définir, et qu'on a été forcé d'appeler le je ne sais quoi». Ma l'uso ancora più sensibile, facendo un passo indietro nel tempo, viene da Bossuet: «Qui me dira la cause de ces larmes? C'est tantôt la bonté d'un père; c'est tantôt la condescendance d'un roi; s'est tantôt l'absence d'un époux : tantôt l'obscurité qu'il laisse dans l'âme lorsqu'il s'éloigne, et tantôt sa tendre voix lorsqu'il se rapproche et qu'il appelle sa fidèle épouse; mais, le plus souvent, c'est je ne sais quoi qu'on ne peut dire». Ma l'espressione vive e si ritrova ormai in molte espressioni letterarie. Vi lascio, cessate le mie elucubrazioni, a un piccolo campionario:
«Je cherchais je ne sais quoi dans la prunelle des hommes, au calice des fleurs, aux formes si changeantes, si multiples de la vie» - Octave Mirbeau, "Dans le ciel", 1892; «La fatigue, le temps morne (j'entends de la pluie dans le soir), l'ombre qui augmente ma solitude et m'agrandit malgré tous mes efforts et puis quelque chose d'autre, je ne sais quoi, m'attristent», Henri Barbusse, "L'Enfer", 1908; «Il fait doux, il fait clair. L'hiver commence à peine et je ne sais quoi de printanier flotte dans l'air subtil», Charles Le Goffic, "Bourguignottes et pompons rouges", 1916; «Au bout d'un couloir funèbre et saugrenu dont la disposition avait je ne sais quoi de caligaresque, l'entrée de La Java ne fait guère impression», Francis Carco, "Images cachées", 1928; «Quand l'âme quitte le corps par le ventre pour nager, il se produit une telle libération de je ne sais quoi, c'est un abandon, une jouissance, un relâchement si intime», Henri Michaux, "La nuit remue", 1935.
Insomma: si cerca nei secoli qualcosa di difficile da afferrare e come tale, ancora oggi, si afferma con il fascino delle cose insolute.