Capita nella quotidianità - e talvolta è stato oggetto di esame di coscienza anche per chi scrive - di riflettere su come ci si debba comportare come genitori rispetto alla scuola, in particolare nel rapporto fra i propri figli e gli insegnanti. Intendiamoci bene: la cronaca ormai offre storie inquietanti di papà o mamme che aggrediscono gli insegnati a difesa dei propri figli somari, ma - più terra a terra - l'esperienza accumulata in tono più blando offre scampoli di ricordi di genitori conosciuti nel cursus scolastico dei miei figli (due fanno ormai l'Università ed uno la seconda elementare), appartenenti alla categoria dei difensori d'ufficio "negazionisti" di qualunque responsabilità dei propri pargoli e "giustificazionisti" delle loro gesta costi quel che costi.
Ho amici insegnanti che mi raccontano di come questo fenomeno si diffonda con una sorta di santificazioni dei figli, sempre belli, buoni e perfetti (magari con qualche nuances su di una scala da 1 a 10), mentre i diavoli sono maestri e professori «che non capiscono» l'intelligenza della progenie ed il perché recondito di certi loro comportamenti. Io - facendo ammenda, ma direi che si tratta di un peccato veniale - ricordo la richiesta ad una dirigente scolastica, nel salto fra medie inferiori e superiori, di avere lumi sul perché, nell'orientamento scolastico, prima a mia figlio e poi a mia figlia fossero state proposte scuole, nella mia percezione, di "serie B". Sappi da chi se ne occupava che in fondo la distribuzione delle scuole consigliate avveniva distribuendo equamente fra i diversi istituti per non sbilanciare le classi future... Mi è piaciuto molto, sul "Corriere della Sera" di ieri, l'intervento - vivaddio! - «Da studente dico ai genitori: non fate i sindacalisti dei vostri figli» di Enrico Galletti, studente diciottenne, di cui non si sa altro, se non il nome. Mi piace molto, perché così comincia: «Il rimprovero, il brutto voto, la parola di troppo, il regolamento di conti a suon di botte. Il timore di assestare quel "quattro" a caratteri cubitali perché con ogni probabilità il professore dovrà vedersela con i genitori. Tra la malavita e questo lato della scuola, il confine è labile. Tanto labile da chiedersi se i vecchi tempi - quelli del dietro la lavagna, del «è così e basta», del sola andata per la presidenza - siano del tutto finiti. Di anni ne ho diciotto io, mica sessanta. Non sono docente e nemmeno genitore. Sono studente, con tutto quello che comporta. Vedo i telegiornali: il padre che va dal vicepreside e lo manda all'ospedale perché ha rimproverato suo figlio, la madre che dice al professore che quel voto non era un "quattro", ma che suo figlio meritava "sei". Ho visto una giovane madre andare dal professore di latino e minacciarlo di fare ricorso al Tar per una versione andata male. La stessa versione di cui io stesso, a quindici anni, avevo azzeccato forse una riga. Viene da chiedersi chi fa la scuola. Se noi studenti, con il nostro entusiasmo, se i professori, con la loro competenza, oppure i genitori, con quelle loro regole che rischiano di diventare intimidatorie. Il problema, però, è che quell'entusiasmo che ci si aspetta dalla scuola - deputata a formare nuovi cittadini - rischia di essere stroncato dall'atteggiamento dei nuovi genitori. I genitori del «lei non si deve permettere», quelli del «mio figlio me la racconta giusta e la colpa è sua». La verità è una: è che noi "millennials" siamo dei bravi ragazzi. Lo siamo per davvero, ma dobbiamo avere più coraggio». Mi pare che la descrizione sia del tutto calzante e per nulla con tono saccente, per intenderci da "secchione". Prosegue il giovane Enrico questo suo plaidoyer: «Dobbiamo parlare chiaro ai nostri genitori e dobbiamo dar loro un consiglio: «Genitori, metteteci in discussione». Fa male, è difficile, è un po' masochista, ma è necessario. Parliamo ai nostri genitori e chiediamo loro di guardarci con occhi diversi, di mettere in discussione la nostra verità prima di pestare un professore, anche quando i fatti sembreranno così cristallini da non destare il minimo dubbio. Chiediamo un passo indietro, un po' di malizia ad evitare conclusioni affrettate. Chiediamo di verificare le parole di noi figli: fonti dirette che possono essere distorte. Chiediamo di rispettare i ruoli. Genitori, dateci credito ma trattateci da figli. E se necessario, considerateci "figli bugiardi", perché essere figli vuol dire anche questo: distorcere la realtà, all'occorrenza. La verità è che io ho paura, paura di diventare un genitore sindacalista, paura che mio figlio, un domani, si adagi sulla fiducia che riporrò in lui, che non sia disposto a farmi capire che si sbaglia a difendere a spada tratta i figli. Ho paura di diventare io stesso il genitore che aspetta al varco il professore. Per questo dirò ai miei genitori di mettermi in discussione ogni giorno, con la stessa affidabilità di sempre ma con una fiducia un po' più filtrata. Che ho diciott'anni io, mica più dodici. E un domani padre lo sarò anch'io». Aggiungerei solo che il virus della difesa costi quel che costi - del tutto ignoto ai genitori del passato, pronti ad aggiungere un rimbrotto e uno schiaffo alla nota sul diario - non riguarda solo ragazzi ormai in odor di maggiore età, ma si sviluppa sin dalla Materna e diventa un elemento da lettino di psicoanalista per determinati genitori che non mollano l'osso, danneggiando i figli troppo "enfant gâté" («bamboccioni» non mi piace) lungo tutto il loro percorso scolastico. Un'amica professoressa universitaria ad Aosta mi ha raccontato di genitori - ormai incancreniti nel fare da barriera fra figli e mondo reale - arrivano da soli, senza figlio a seguito, a certe presentazioni "porte aperte" delle Facoltà. Lui, il poverino, era rimasto a casa, mentre mammà faceva in sua vece...