Ci sono dei giorni in cui ti domandi, guardando soprattutto i tuoi figli e il loro avvenire, se davvero questa impressione di difficoltà generalizzata - dal posto in cui vivi al mondo intero - sia reale o se sia riportabile, almeno in parte, ad uno stato d'animo malmostoso. Ciò potrebbe derivare dai rimpianti che si hanno rispetto a periodi della propria vita in cui - per differenti ragioni - si era come i razzi in partenza coi motori a piena velocità e non ormai costretti nella routinaria velocità di crociera nello spazio profondo del tran tran quotidiano. Il rischio manifesto può essere quello di vivere, guardando a tappe precedenti dall'infanzia all'adolescenza, dalla giovinezza all'età adulta, in cui tutto finisce per essere edulcorato da ricordi addolciti.
Lo ricordava Italo Calvino di questa nostra capacità terapeutica, ex post, che è la possibilità di rimuginare anche sul peggio, volgendolo al bello: «Anche ricordare il male può essere un piacere quando il male è mescolato non dico al bene ma al vario, al mutevole, al movimentato, insomma a quello che posso pure chiamare il bene e che è il piacere di vedere le cose a distanza e di raccontarle come ciò che è passato». Per questo, ogni tanto, vengo rimproverato da mia moglie di avere, naturalmente sino a un certo punto, l'attitudine a perdonare alle persone vicende del passato: non è un generoso afflato evangelico che mi spinge, ma la convinzione laica che tutto si muove e che anche le persone - pur con alcune eccezioni di carogne inguaribili, che vedo ancora in giro - possono cambiare e sia giusto dare loro seconde chances, a costo di ricaderci, come qualche volta mi è capitato. Ma l'aspetto più significativo, cui rifletto oggi nel collaborare alla scrittura del programma del piccolo "Mouv'" (movimento politico neonato, che spera di crescere serenamente), rispondendo anche alla domanda di chi mi dice: «Ma com'è che tu che sei uno dei fondatori non partecipi all'imminente sfida elettorale?», è di come proprio la forza delle esperienza ti spinga, a un certo punto, a guardare avanti necessariamente. Contro il rischio dei rimpianti, del reducismo, delle lodi del tempo che fu, della barbosa nenia coi giovani di com'eravamo felici noi anni fa. Così come sono stufo della logica da pubblicità elettorale comparativa, che più che dire quanto siamo forti noi nelle cose che vogliamo fare, ci attardiamo a dire quanto gli altri siano brutti e cattivi e pure spesso lo sono davvero, ma poco importa. Perché quel che conta sono le proposte e la convinzione nel portarle avanti. Per cui denunciato lo sfacelo, detto del vomito che ci fanno venire i disonesti, segnalati gli incapaci e gli errori tocca necessariamente tirare dritto e passare alla fase propositiva, che forse alla fine - tolti gli elettori sclerotizzati o ipnotizzati, persi al buonsenso fra clientelismo e settarismo - è quel che conta per le persone normali, le famiglie che li attorniano, le diverse comunità che compongono la Valle d'Aosta. Quei cerchi concentrici - uso sempre l'esempio dell'eco sulla superficie di uno stagno in cui si getti un sasso - che rappresentano ciascuno di noi e le relazioni sociali più vaste con cui interagisce. Si tratta del "federalismo personalista", cui un tempo la Valle d'Aosta si ispirava anche per l'azione politica e amministrativa, ma la Cultura non paga, specie per chi pensa - scusate la banalità - che "pecunia non olet" ("il denaro non puzza", per dire della forza derivante dagli affari che contaminano la politica). Sembrano slogan o parole al vento, visto che ci siamo purtroppo abituati ad un eccesso di semplificazione del rapporto verso il cittadino, contattato spesso con formule brevi e persuasive, come se l'elettore fosse solo un cliente da portare a casa. Mentre la forza delle idee non si contrappone affatto alla concretezza necessaria per riavvicinare le Istituzioni al cittadino, per coinvolgerlo, per farlo sentire importante, per ascoltare la sua voce, comprese le preoccupazione per quanto va storto. La risposta è ancora una volta «la cura della persona», l'attenzione all'uomo (e alla donna, in primis) che deve venire prima dello Stato (nel nostro caso della Regione Autonoma), che deve però adeguarsi e seguire i bisogni senza essere una macchina solo impositiva e burocratica. La "rivoluzione federalista" deve dunque essere sociale, economica, culturale, valoriale prima ancora che politica. Parlo più al cervello che alla pancia? E' controcorrente svelenire e cercare più il dialogo che il sangue che coli? Può essere, ma è solo così che vedo delle condizioni serie per rimettersi in piedi.