Nella "Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d'America", il 4 luglio 1776, si legge: "Tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità; allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; ogni qual volta una qualsiasi forma di Governo, tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo governo, che ponga le sue fondamenta su tali principi e organizzi i suoi poteri nella forma che al popolo sembri più probabile possa apportare Sicurezza e Felicità". Un testo che risente della temperie dell'epoca e della formazione culturale di quei costituenti americani che fondarono gli States.
Per altro analogo miscuglio di diversa fonte sono quei primi articoli della Costituzione italiana che due secoli dopo inseguirono anch'essa questa idea, riassunta nei primi quattro articoli, attraverso quella definizione di "pieno sviluppo della persona umana" che disegna - con i diritti fondamentali - lo status in positivo di ogni cittadino. In queste ore, nel riflettere sul programma di MOUV' che è l'ultima nata, ma con radici solide nel mondo autonomista valdostano, ho voluto pensare a questo aspetto, ruotando attorno ad un termine in qualche modo rinnovato, che è "Benessere". Nel suo uso comune direi che il Benessere è rappresentato da un buon stato di Salute - constatazione che illumina ciascuno di noi quando si trova acciaccato o brutte storie avvengono nelle nostre vicinanze - ma in realtà il Benessere è anche un filone di pensiero economico, che ho studiato sui libri di Siro Lombardini all'Università, avendo poi l'onore di conoscerlo a Courmayeur, dove fu fra i fondatori della nota "Fondation". Anche se il termine adoperato in quelle pagine è l'inglese "Welfare", nelle varianti "Welfare economics" e "Welfare State", tradotto in "Stato-sociale" all'italiana o nell'espressiva definizione francese di "Etat-providence". Per cui così mi sono ritrovato a scrivere sinteticamente: «Il Diritto alla Felicità esiste e prevede che in una piccola comunità si esprimano quegli elementi di solidarietà evidenti nell'insieme delle azioni di volontariato che arricchiscono la Valle, così come il Terzo Settore e della galassia delle Cooperative. Il benessere, inteso come il soddisfacimento di tutte le necessità in un'armoniosa vita sociale, passano attraverso la logica di un Welfare efficace, ma anche della considerazione di quel Federalismo verticale e orizzontale, che fa parte del patrimonio politico e culturale della Valle d'Aosta». Già, se avessi avuto più spazio avrei evocato l'intrico molto più complesso di quanto affermato, soprattutto in riferimento a quel Federalismo personalista, che sostanzia molto del pensiero - ahimè declinante perché scarsamente rinnovato - del federalismo valdostano, quando era una speranza più che come ora un feticcio. Ritrovo su questo una "Bustina" di Umberto Eco, che ammoniva sulla Felicità: «Talora mi viene il sospetto che molti dei problemi che ci affliggono - dico la crisi dei valori, la resa alle seduzioni pubblicitarie, il bisogno di farsi vedere in televisione, la perdita della memoria storica e individuale, insomma tutte le cose di cui sovente ci si lamenta in rubriche come questa - siano dovuti alla infelice formulazione della Dichiarazione d'indipendenza americana del 4 luglio 1776, in cui, con massonica fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, i costituenti avevano stabilito che "a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità". Sovente si è detto che si trattava della prima affermazione, nella storia delle leggi fondatrici di uno Stato, del diritto alla felicità invece che del dovere dell'obbedienza o altre severe imposizioni del genere, e a prima vista si trattava effettivamente di una dichiarazione rivoluzionaria. Ma ha prodotto degli equivoci per ragioni, oserei dire, semiotiche. La letteratura sulla felicità è immensa, a iniziare da Epicuro e forse prima, ma a lume di buon senso mi pare che nessuno di noi sappia dire che cos'è la felicità. Se si intende uno stato permanente, l'idea di una persona che è felice tutta la vita, senza dubbi, dolori, crisi, questa vita sembra corrispondere a quella di un idiota - o al massimo a quella di un personaggio che viva isolato dal mondo senza aspirazioni che vadano al di là di una esistenza senza scosse (…)». Poi picchia duro: «La questione è che la felicità, come pienezza assoluta, vorrei dire ebbrezza, il toccare il cielo con un dito, è situazione molto transitoria, episodica e di breve durata: è la gioia per la nascita di un figlio, per l'amato o l'amata che ci rivela di corrispondere al nostro sentimento, magari l'esaltazione per una vincita al lotto, il raggiungimento di un traguardo (l'Oscar, la coppa, il campionato), persino un momento nel corso di una gita in campagna, ma sono tutti istanti appunto transitori, dopo i quali sopravvengono i momenti di timore e tremore, dolore, angoscia o almeno preoccupazione. Inoltre l'idea di felicità ci fa pensare sempre alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano, e anzi siamo indotti sovente a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra. Persino la felicità amorosa spesso coincide con l'infelicità di un altro respinto, di cui ci preoccupiamo pochissimo, appagandoci della nostra conquista. Questa idea di felicità pervade il mondo della pubblicità e dei consumi, dove ogni proposta appare come un appello a una vita felice, la crema per rassodare il viso, il detersivo che finalmente toglie tutte le macchie, il divano a metà prezzo, l'amaro da bere dopo la tempesta, la carne in scatola intorno a cui si riunisce la famigliola felice, l'auto bella ed economica e un assorbente che vi permetterà di entrare in ascensore senza preoccuparvi del naso degli altri. Raramente pensiamo alla felicità quando votiamo o mandiamo un figlio a scuola, ma solo quando comperiamo cose inutili, e pensiamo in tal modo di aver soddisfatto il nostro diritto al perseguimento della felicità». Sono parole realistiche ma personalmente mi auguro che, proprio per la loro crudezza, consentano di riflettere su quanto, invece, si potrebbe fare in una piccola comunità come quella valdostana alla ricerca di quei segni di coesione umana, coltivando quella rete di protezione a vantaggio di tutti i cittadini, che non è una remota utopia. Specie se si guarda avanti e, come diceva Denis de Rougemont. «Toute politique est autorisation de l'avenir». Sappiamo, per esperienza, che non per tutti c'è davvero questo sguardo verso il futuro.