Si è passati ormai da un estremo all'altro, come cercherò di spiegare, rispetto al 34,87 per cento di valdostani che non sono andati a votare per le elezioni regionali e che sono in costante aumento come un esercito di fantasmi senza rappresentanza. Di certo, pensando a quelle percentuali monstre di partecipazione al voto del dopoguerra, c'è da impallidire. Ma sulle molte ragioni che si intersecano in questa scelta non ci sono ancora risposte univoche. Anche perché, mentre un tempo l'individuazione poliziesca dei "non votanti" era per legge, ormai la privacy protegge chi non vota e dunque non ci si può neppure presentare suonando il campanello a casa del Signor X o della Signora Z per sapere bene che cosa abbia causato la scelta di non recarsi alle urne. La riterrei una legittima moral suasion, che penso sarebbe un esercizio di democrazia, ma oggi chi lo facesse potrebbe trovarsi nei guai per questo gesto considerato come una illegittima intromissione.
Ma procediamo con ordine, partendo dal comma presente nella vigente Costituzione all'articolo 48 della Costituzione: "Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico". Per nulla banale dopo il Ventennio liberticida del Fascismo: un'affermazione forte e perentoria, che era anzitutto una fiducia verso il cittadino, cui si offriva un diritto con il risvolto di un dovere civico, espressione bellissima e da non dimenticare per la sua potenza. Agli esordi del Regno d'Italia la legge elettorale si basava su quella del Piemonte estesa a tutti i territori, che concedeva il diritto di voto ai cittadini di sesso maschile di almeno venticinque anni che sapessero leggere e scrivere, che godessero dei diritti civili e politici e che pagassero un censo di imposte dirette non inferiore alle quaranta lire. Questo voleva dire pochi votanti, come accadeva già prima per gli elettori valdostani del Parlamento Subalpino dopo lo Statuto Albertino del 1848. Così nelle prime elezioni politiche "italiane" del 1861 furono iscritti solo 418.696 cittadini, pari all'1,89 per cento della popolazione. Vent'anni dopo, nel 1880, gli elettori furono soltanto 621.896, pari al 2,2 per cento della popolazione totale. Una riforma elettorale estensiva avvenne con le leggi del 22 gennaio e del 7 maggio 1882, allargando il diritto di voto ai cittadini italiani di sesso maschile che avessero compiuto il ventunesimo anno d'età, che dovevano però saper leggere e scrivere. Caratteristica richiesta era avere superato l'esame di seconda elementare, o in alternativa, pagare annualmente un'imposta diretta di almeno 19,80 lire. Veniva inoltre abbassato il limite di età da venticinque a ventuno anni. Il corpo elettorale passò nel 1882, in occasione delle prime elezioni indette con la nuova legge, a oltre due milioni di cittadini (2.017.829), pari al 6,9 per cento della popolazione totale, compresa una parte della classe operaia. Niente voto per gli analfabeti e i nullatenenti, oltre che per le donne. Il suffragio universale solo maschile venne una prima volta respinto dalla Camera nel giugno del 1881. Solo nel 1912, una nuova legge elettorale, promulgata da Giovanni Giolitti, avrebbe concesso agli analfabeti il diritto di voto, purché avessero compiuto trent'anni o prestato il servizio militare. Per essere ammesse al voto le donne dovranno attendere fino al 1946 quando in Italia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l'esito del referendum sancì la nascita della Repubblica. Sembra passata un'eternità ma non è affatto così. Con quello spirito di un diritto a lungo invocato e sudato per ottenerlo si scelse una linea drastica. I cittadini non votanti per le elezioni delle Camere, venivano infatti sanzionati (decreto del Presidente della Repubblica numero 361 del 30 marzo 1957). Si legge nell'articolo 4: "L'esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese". Ma c'era ben di più all'articolo 115: "L'elettore che non abbia esercitato il diritto di voto, deve darne giustificazione al sindaco (…) L'elenco di coloro che si astengono dal voto (…) senza giustificato motivo è esposto per la durata di un mese nell'albo comunale (…) Per il periodo di cinque anni la menzione "non ha votato" è iscritta nei certificati di buona condotta (…)". Una misura non banale, dato che per l'assunzione nei pubblici uffici poteva costare una penalizzazione rispetto a un altro candidato a parità di requisiti. Queste norme di penalizzazione sono state abolite nel 1993 e dunque ormai chiunque può fare quel che vuole. Per cui - per capirci - questo benedetto "dovere civico" diventa qualcosa di affidato interamente alla coscienza del cittadino. Fatto salvo l'astensionismo per i referendum, che prevedendo un "quorum" consentono di non andare alle urne proprio per farlo "saltare", questo importante diritto al voto - nella sua obbligatorietà ormai morale e non giudica - andrebbe sempre più spiegato, propagandato, agevolato. Non so se, in analogia con alcuni altri Paesi del mondo vada previsto l'obbligo di iscrizione al voto o peggio il ripristino di qualche penalizzazione, ma quel che è chiaro è che in una cittadinanza piena e consapevole il radicarsi dell'astensionismo è una patologia e non si può pensare che sia solo colpa dei politici se questo avviene. E' proprio il voto, utilizzato con coscienza, che serve in Democrazia per scardinare situazioni ritenute insostenibili e che altri decidano per te - perché sfuggi ad una tua responsabilità esprimibile anche con scheda nulla o bianca - non è certo una grande scelta.