Quasi in continuità con certe riflessioni del passato volevo segnalare un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" dal sempre acuto Pierluigi Battista, che si riferisce ad un malvezzo della Politica (e verrebbe da dire come specchio di un vizio che ormai ammorba la società intera) che ha sdoganato l'uso di termini troppo forti. Dice Battista: «Con l'abuso degli insulti, delle invettive, delle demonizzazioni che oggi domina incontrastato il vocabolario politico, dare del "lebbroso" ad un gruppo di avversari, come ha fatto il presidente francese Macron con i cosiddetti "populisti" nazionalisti, è stato un pessimo segnale. Le parole della politica hanno una storia nel Novecento: tragica e atroce. La metafora della lebbra, della terribile malattia che infetta e contagia è stata adoperata con dovizia da dittatori e tiranni che indicavano il nemico "che infestava", che "inquinava", che "contagiava". E' stata l'antipasto lessicale di una pratica che ha disegnato attorno al nemico da annientare i contorni della "sub-umanità". Il nemico politico come virus, batterio, microbo».
Capisco che c'è di peggio ancora e la rozzezza finisce per non avere limiti reali nella logica soprattutto di attizzare i propri tifosi, ma questa volta Battista affonda il bisturi con maestria: «A queste cose fa pensare il riferimento improvvido di Macron alla "lebbra" populista e nazionalista da estirpare. Naturalmente non è possibile attribuire a Macron intenzioni cruente, in linea con le peggiori esperienze del passato più recente. Ma se vogliamo denunciare con più forza e credibilità il linguaggio, questo sì, malato che sta deteriorando il mondo della politica e della comunicazione, allora bisogna saper mettere un freno alle esternazioni senza controllo, alle metafore incendiarie. Occorre non alimentare la rincorsa a chi la spara più grossa, alla dichiarazione tonitruante che ammicca ai peggiori fantasmi del passato. E dunque: dare del lebbroso all'avversario politico non si fa, non si deve più fare. Albert Camus ha scritto in quella splendida distopia politica che è il romanzo "La peste": "Io so per certo che ciascuno la porta in sé, la peste, e che nessuno, no, nessuno al mondo, ne è immune". Nessuno è immune dall'uso perverso del linguaggio politico che evoca peste, lebbre, epidemie, flagelli. L'autocontrollo lessicale, questo sì invece è un valore da riscoprire nella politica». Aggiungerei a questo - a parte l'abusata presenza da me più volte segnalata di chi infesta i "social" - una questione sempre più valdostana, che riguarda una variante del pettegolezzo. Ricordo che "pettegolo" risale al XVI secolo, nel significato di "chiacchierone indiscreto o maligno". Viene dal veneziano "petegola", derivazione - e questa è un'intuizione giocosa di cui non ci si può non congratulare - di "peto", dalla locuzione "contar tuti i peti", elegantemente interpretata dal dizionario etimologico in "raccontare tutti i particolari insignificanti". Mentre io trovo - ma lo dico rozzamente, rispetto alla dolcezza ipnotica del veneziano - che "peto" (diversamente da "scorreggia", metafora più pecoreccia che viene da "perdere la correggia" e cioè "lasciare andare la cinghia che tiene il ventre") mette assieme rumori e odori, dando esattamente la sensazione sgradevole, orecchio e olfatto, del "pettegolezzo". La variante valdostana è il "pettegolezzo giudiziario", vale a dire la diceria su personalità varie in odore di chissà quali inchieste giudiziarie. Una celebre frase di Pio XI (non di Giulio Andreotti, cui spesso sbagliando la si ascrive), così diceva: «A pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina». Per cui è vero che ogni tanto certi venticelli annunciano poi fatti veritieri, ma è vero anche il suo contrario, quando l'intento è meramente calunnioso. Nell'imbuto del pettegolezzo, di questi tempi difficili della politica valdostana, figurano moltissime cose, che creano suspence per l'eventuale ricaduta che ne deriverebbe. Spero che di queste attese, perché il tempo è importante, tengano conto coloro che le indagini le fanno e le conducono. Sapendo che alla loro conclusione, qualora ci fossero elementi, si va ai processi che, nella presunzione di innocenza all'italiana, portano lemme lemme sino in Cassazione. Per spezzare la "catena di Sant'Antonio" delle chiacchiere, delle indiscrezioni, delle insinuazioni resta solo l'attesa delle notizie vere. Ma - lo ripeto - nel rispetto dell'accuratezza necessaria e delle verifiche attente, sarebbe bene capire che la variabile dei tempi più rapidi possibili non è, nella ricaduta sociale, un elemento trascurabile.