Spero che la recente inchiesta in Valle d' Aosta sul ruolo della 'ndrangheta - assieme ad altre vicende giudiziarie di questi anni - chiarisca definitivamente che la mia scelta di lasciare a suo tempo l'Union Valdôtaine, dopo aver avuto importanti ruoli elettivi per il Mouvement, non fu un tradimento ma una scelta di coerenza. E lo stesso vale per la decisione di lasciare l'Union Valdôtaine Progressiste, nel momento in cui tornò in alleanza con l'Union Valdôtaine, rimasta tale e quale, e perciò tradendo la volontà degli elettori, cui era stato spiegato come fossimo alternativi a certi metodi incarnati da Augusto Rollandin e dai suoi imitatori. Oggi bisogna prendere atto del nido di serpenti fatto di reati penali, malaffare, cattiva amministrazione, miserie morali, pochezza culturale e liberarsi di tutto ciò nel nome di quei valori e speranze calpestati da una "realpolitik" con l'ossessione dei voti. Malgrado l'uso retorico e strumentale di quegli stessi valori, dicendo delle cose e facendo il contrario con complicità pericolose e tornaconto personale.
Molto è cambiato e cambierà attorno a noi e ciò avviene con ritmi un tempo impensabili. Per non farsi sfuggire le cose si è sempre, in qualche modo, all'inseguimento, ma soprattutto ci si pone sempre il problema di come comportarsi per minimizzare i danni e massimizzare i risultati senza perdere gli aspetti che consideriamo buoni del nostro modo di essere. Gli antidoti contro certi veleni che rischiano di uccidere la nostra Autonomia e di stravolgere la nostra comunità ci sono. Bisogna buttare via l'acqua sporca e non il bambino. Da tempo - e devo dire che il termine mi convince - si usa il termine "resilienza", che un uso tecnico ha assunto un impiego quasi filosofico. Sulla "Treccani" è uscita, in risposta ad una domanda sulla parola, una bella spiegazione di Simona Cresti della redazione consulenza linguistica dell'"Accademia della Crusca". Così spiega: «Con il significato di "capacità di sostenere gli urti senza spezzarsi", la parola "resilienza" ha guadagnato, negli ultimi anni, una sorprendente popolarità, tanto improvvisa da favorirne la percezione come di un calco dall'inglese. Il termine, in realtà, era già presente nel vocabolario italiano, anche se il suo uso e il suo significato - prettamente tecnici - si celavano ai non specialisti. In fisica e in ingegneria resilienza indica la capacità di un materiale di resistere a un urto, assorbendo l'energia che può essere rilasciata in misura variabile dopo la deformazione. E' probabile, tuttavia, che la lingua inglese abbia effettivamente giocato un ruolo nel rilancio della parola negli usi correnti, in virtù di un processo che ha come tramiti la ricerca e la divulgazione scientifica, e sfrutta la rete come cassa di risonanza (ambiti, entrambi, in cui l'inglese è la lingua franca)». Poi si scava nel passato e nell'evoluzione della parola: «Come molti vocaboli scientifici, resilienza ha un'origine latina: il verbo "resilire" si forma dall'aggiunta del prefisso "re-" al verbo "salire - saltare, fare balzi, zampillare", col significato immediato di "saltare indietro, ritornare in fretta, di colpo, rimbalzare, ripercuotersi", ma anche quello, traslato, di "ritirarsi, restringersi, contrarsi". "Resilientia, resiliens" restituiscono dunque inizialmente il senso di un'esperienza quotidiana non specialistica, e si dicono di oggetti che rimbalzano, o, in senso esteso, di chi batte in ritirata o si ritrae d'improvviso. Nel corso dei secoli e del progredire del pensiero scientifico occidentale - che, ricordiamo, è stato prevalentemente espresso in latino fin oltre il Seicento - l'aggettivo "resiliens" ha indicato sia il rimbalzare di un oggetto, sia alcune caratteristiche interne legate all'elasticità dei corpi, come quella di assorbire l'energia di un urto contraendosi, o di riassumere la forma originaria una volta sottoposto a una deformazione». Si citano a sostegno numerosi testi fra Seicento e Settecento per poi venire al dunque: «Le prime occorrenze italiane di "resilienza" e "resiliente", rintracciabili nel XVIII secolo, documentano, in modo simile, termini nei quali ancora è impresso un significato vago: "resilienza" è "termine de' filosofi" e significa "regresso, o ritorno del corpo, che percuote l'altro", ma inizia anche a indicare una proprietà interna ai corpi, che diventa lentamente possibile ascrivere non solo a oggetti che respingono rimbalzando, ma anche alle parti di cui sono composti. La familiarità dell'italiano con "resilienza" è senza dubbio minore rispetto, per esempio, all'inglese, nel quale abbondano le occorrenze letterarie storiche, certo sorrette dall'esistenza del già citato non specialistico "to resile - respingere, rinunciare, ritirarsi, contrarsi", dalla forte tradizione anglosassone di divulgazione scientifica, e, non ultima, da una precoce presenza sui giornali». Poi esplode la modernità dell'uso: «Tutto questo vale fino a qualche anno fa. L'esplodere di un uso più disinvolto di resilienza si data intorno al 2011: da allora il sostantivo -- insieme al corrispondente aggettivo "resiliente" - circola sui media cartacei e digitali, cavalcando la particolare attrattiva "metaforica" che è in grado di esercitare. In fisica "resilienza" è la capacità di un materiale di assorbire energia se sottoposto a deformazione elastica; l'esempio più semplice è quello delle corde della racchetta da tennis che si deformano sotto l'urto della pallina, accumulando una quantità di energia che restituiscono subito nel colpo di rimando. Il contrario della "resilienza" è la "fragilità", che caratterizza invece materiali dotati di carico di elasticità molto prossimo alla rottura. "Resilienza" non è quindi un sinonimo di "resistenza": il materiale "resiliente" non si oppone o contrasta l'urto finché non si spezza, ma lo ammortizza e lo assorbe, in virtù delle proprietà elastiche della propria struttura. Da qui, una relativa stabilizzazione del significato e il proliferare delle estensioni: in ecologia, "resiliente" è una comunità (o un sistema ecologico) capace di tornare velocemente al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione; nell'ambito tecnico della produzione dei tessili, "resiliente" indica un tessuto capace di riprendere la forma originale dopo una deformazione, senza strapparsi; in psicologia, la capacità di recuperare l'equilibrio psicologico a seguito di un trauma, l'adattabilità». Infine l'affermazione sui giornali, che stabilizza l'uso della parola: «Stefano Bartezzaghi la definisce "parola-chiave di un'epoca", sottraendola al rapido declino cui sarebbe destinata in quanto semplice "parola alla moda". "Resilienza" assume un valore simbolico forte in un periodo in cui l'accesso interpretativo più frequente alla condizione economica, politica, ecologica mondiale è fornito da un'altra parola, "crisi": lo "spirito di resilienza" rappresenta la capacità di sopravvivere al trauma senza soccombervi e anzi di reagire a esso con spirito di adattamento, ironia ed elasticità mentale». Chissà se la comunità valdostana saprà, in mezzo a certe tempeste che rischiano di far affondare la piccola nave dell'Autonomia, dimostrare Resilienza.