La tesi ormai prevalente in Europa, che si scontra con il buonsenso e con quanto avvenuto, ad esempio, con la fine della ex Jugoslavia, per non dire della separazione avvenuta dalla vecchia Cecoslovacchia o con la nascita del Jura in Svizzera, è che l'autodeterminazione dei popoli sia qualcosa di valido solo per i Paesi ex coloniali. Così casi come quello della Catalogna sono ascrivibili per troppi ad una sorta di anomalia e l'Europa fa come le famose tre scimmiette: "non vedo, non sento e non parlo". Si riflette, in questo, l'atteggiamento degli Stati membri, molti dei quali hanno regionalismi al limitare dell'indipendentismo o semplicemente il riflesso statalista di tenere duro sul feticcio del vecchio "Stato Nazione" rosicchiato dall'alto dall'Europa e dalle Istituzioni internazionali e dal basso da quel ribollire di istanze federaliste che evocano modelli di rafforzamento delle democrazie locali.
Una sorta di cortocircuito che non mi piace affatto e non per ragioni ideologiche, ma perché ho sempre apprezzato la presenza di un "europeismo buono", imbevuto - almeno pareva - dal principio di sussidiarietà. Così la Catalogna era a Bruxelles additato come un modello interessante di un'Autonomia valida ed efficace. Ma quando i catalani hanno chiesto prima un allargamento dei poteri costituzionali e poi hanno avviato un processo pacifico di indipendenza, sono finiti sul banco dei cattivi, meritevoli di un silenzio ostile e va detto con chiarezza - il caso italiano è esemplare - dopo un'iniziale simpatia sono diventati antipatici a chi non conosce la situazione e giornali e televisioni hanno partecipato all'orchestrazione di questa campagna ostile. Dopo il terribile spiegamento di forze per spostare i prigionieri politici catalani da Barcellona a Madrid, è iniziato ieri nella Capitale spagnola il processo ai leader indipendentisti accusati di ribellione contro lo Stato spagnolo per aver organizzato il referendum sulla secessione (nell'ottobre del 2017) e per essere poi arrivati alla proclamazione unilaterale della Repubblica indipendente. Sono dodici gli imputati davanti al "Tribunal Supremo" e nove di loro sono in carcere da sedici mesi in attesa del giudizio. Altri sei esponenti del fronte indipendentista verranno invece processati per disobbedienza dal "Tribunal Superior de Justicia de Cataluña". Una situazione grave e scandalosa che ha scosso l'animo di un numero piuttosto ristretto di quegli stessi intellettuali che firmano appelli per questioni risibili rispetto alla gravità di questa persecuzione poliziesca e giudiziaria. La situazione politica resta, intanto, assai ambigua in questa Spagna dai tratti franchisti. Il premier socialista Pedro Sanchez, pur mostrandosi apparentemente più aperto al dialogo del predecessore, il conservatore Mariano Rajoy, non ha fatto concessioni alle rivendicazioni catalane, negando ogni possibilità di referendum sull'indipendenza ed aprendo - senza che se ne capisse la portata - alla modifica dello statuto giuridico della Comunità autonoma che dia più garanzie all'Autonomia. Ma le vicende giudiziarie della Catalogna si intrecciano con le difficoltà politiche della Spagna e lo stesso governo di Sanchez sembra infatti avere ormai i giorni contati ed in caso di elezioni - in queste ore ormai date per scontate - ci potrebbe essere una svolta a destra, peggiorativa per la Catalogna. Una situazione bloccata ma con il dramma di persone incarcerate ed ora sotto processo Commentava mesi fa Massimo Cacciari, fra i pochi federalisti sulla scena: «questa è una grande occasione persa dall'Unione Europea. L'occasione di proporsi come quell'Europa dei Popoli che tutti noi vorremmo, capace di ergersi a mediatore e garante delle esigenze di tutte le anime che la compongono. Invece, hanno dimostrato totale ignoranza riguardo al dossier spagnolo, lasciando, con il loro colpevole silenzio, che una semplice consultazione si trasformasse in uno scontro così violento». Condivido anche un'altra analisi di Cacciari, che riguarda l'unico vero orizzonte per uscire dal centralismo degli Stati e persino di Bruxelles, che è un vero federalismo, rispettoso dei diversi livelli di governo in una sovranità condivisa: «Il futuro non sono certo gli staterelli sovrani, ma le grandi repubbliche federali. O l'Europa riesce a costruire i suoi Stati Uniti, oppure - necessariamente - ci sarà un susseguirsi di istanze autonomistiche: oggi la Catalogna, domani la Scozia o i fiamminghi. E' inevitabile: laddove non si creano grandi unità federali si riproducono necessariamente i nazionalismi localistici. E' una legge fisica, non politica». Naturalmente in assenza di questa prospettiva i catalani in maggioranza hanno scelto la strada della libertà con l'uso di un referendum partecipato. Ma certo la logica federalista sarebbe un passaggio più maturo, cui la Spagna giustizialista di oggi è purtroppo distantissima, sprofondando nella violazione di elementari diritti civili e costituzionali. Resta in termini generali la certezza che il federalismo è la scelta del futuro, che deve mettere assieme l'Autonomia spiccata dentro Stati che mantengono poche competenze (in Italia la controriforma statalista avanza da anni, purtroppo) e il ruolo su grandi materie dell'Europa unita che deve farsi valere sul piano mondiale. Se non si costruiscono sistemi come questi monteranno come la panna il nazionalismo cattivo ed il sovranismo autarchico, mentre la pacifica protesta dei catalani resterà una perla rara nella escalation della violenza di un'Unione europea che si romperà in mille pezzi come un cristallo.