E' bene - lo dico come premessa - discutere di politica in tutte le sedi in cui è legittimo farlo. Ho vissuto con angoscia epoche in cui si era smesso di discutere per «non disturbare il manovratore» - anche se io personalmente ho sempre detto e soprattutto scritto (verba volant, scripta manent) quel che penso - ed in certe stanze in cui sia assumevano decisioni vigeva il silenzio come se fosse una regola francescana. E non è vero che il silenzio è sempre uguale a sé stesso: ci sono silenzi per vuoto intellettuale, silenzi per paura di esprimersi, silenzi che sono complicità pura, silenzi tattici «per vedere l'effetto che fa», silenzi fatti di rassegnazione. La riflessione vale come premessa ad un tema delicato: il futuro dell'autonomismo valdostano su cui è bene esprimersi. Ci sono stati momenti nel dopoguerra in cui - sotto il fuoco di fila dei grandi partiti nazionali - gli autonomisti valdostani erano una minoranza. Pensiamo alla seconda Legislatura regionale 1954-1959, quando l'Union Valdôtaine ebbe un solo eletto su 35 a causa del sistema maggioritario allora vigente.
Ma anche negli anni successivi le forze politiche con sigla nazionale erano presentissime e solo dopo "Tangentopoli", con la morte di alcuni partiti della famosa "Prima Repubblica", appaiono sigle localistiche ed in contemporanea la diaspora unionista crea nuovi soggetti politici. Molti vecchi esponenti della partitocrazia "romana" si riciclano ed alcuni esempi sono ancora presenti in Consiglio Valle sotto nuove divise, come se fossero stati autonomisti della "prima ora", quando tocca loro fare discorsi ufficiali. Una specie di sospetta abiura della loro vita politica precedente. Questa rottura degli argini tradizionali, cui si sono aggiunti movimenti politici come la Lega che hanno in Valle una situazione almeno bicefala, che va dall'indipendentismo al sovranismo, ha creato una curiosa situazione di saturazione dell'area autonomista, come se nel recinto una volta ben definito fossero saltati i confini ed ormai si aggirassero nella stessa cerchia soggetti che dovrebbero somigliarsi ma che, ad una verifica più attenta, celano sotto l'etichetta "autonomista" personalità e curricula personali così diversi che si stenta a trovare un comune denominatore. E non mi si parli dei programmi politici, che si fanno scrivere facilmente, e non è inusuale che ci sia una distanza abissale fra il "dire" ed il "fare". Sarà pur vero che all'atto fondativo dell'Union Valdôtaine nel 1945 parteciparono sedici personalità ottocentesche e novecentesche di diverso orientamento tra cui spiccavano Joseph Bréan, Charles Bovard, Jean-Joconde Stévenin, Lino Binel, Maria Ida Viglino, Flavien Arbaney, Paolo Alfonso Farinet, Aimé Berthet, Severino Caveri, Albert Deffeyes. L'articolo II dello Statuto li definiva "qui donnent assurance d'être fidèles et dévoués à la cause valdôtaine". E le ragioni della nascita erano: "Fonder une association valdôtaine ayant pour but de promouvoir et de défendre les intérêts de la Vallée d'Aoste". Poi ci fu uno spostamento altrove di alcuni di loro che scelsero parti nazionali in cui accasarsi, diventando in certi casi persino traditori della "question valdôtaine". Ma quelle vicende di allora - pur passato remoto - devono servire proprio attorno a questo ragionamento che sento della "réunification autonomiste", che sembra un moderno e periodico leit-motiv cui adeguarsi e chi chiede qualcosina di più sembra. Io non ho né titoli di nessun genere che mi consentano di dare patenti o passaporti per l'area autonomista, di cui conosco il pluralismo sempre esistito ed era così anche negli anni, che ho vissuto, di maggior compattezza nell'Union Valdôtaine. Ma non si può pensare neanche l'esatto contrario e cioè che dirsi "autonomisti" sia una specie di autoproclamazione, sapendo che questo titolo di "autonomista" ha fatto sino ad ora presa sull'elettorato valdostano. Ora non so bene se e come ci sia ancora questo appeal e se il brand "autonomista", fra scandali e inchieste, sia finito sotto i piedi di molti cittadini che guardano altrove, spesso sbagliando. Non si tratta, in sostanza, di essere inclusivi o no - perché la logica non può essere quella delle porte in faccia - ma di essere sicuri che chi compartecipa a un progetto per la Valle d'Aosta del futuro abbia il nucleo delle idee portanti in comune. Non ci sarebbe nulla di peggio di mettere assieme differenze così dissonanti da creare solo una situazione di confusione. Non ho - a differenza di altri che agitano la politica valdostana con tatticismi e strategie spesso hard - soluzioni certe ad interrogativi difficili, ma almeno rappresentare la situazione che obbliga a cautele e attenzioni mi pareva doveroso.