Il 31 luglio del 1919 nasceva a Torino Primo Levi ed è giusto, ad un secolo di distanza, ricordare questo uomo, che ci ha lasciato un patrimonio ricco di pensieri sulla libertà, avendo subito il suo esatto contrario. Ricordate - e l'evoco subito - questa sua profezia? «Ogni tempo ha il suo fascismo. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell'intimidazione poliziesca, ma anche negando e distorcendo l'informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti sottili modi la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l'ordine». Questo ammonimento vale molto se si pensa a questi tempi strani in cui la libertà e i valori sembrano subissati da nuove forme di comunicazione che obnubilano le menti, specie quelle più deboli di fronte alla marea di disinformazione che viene sparsa senza risparmio di energie e di denari. Leggevo giorni fa su "La Repubblica" in una serie di articoli sull'anniversario di Levi scritti da Marco Belpoliti come una delle parole chiave della sua vita fosse "alpinismo" e trovo che sia stata una scelta interessante.
Ricorda Belpoliti, iniziando con una citazione: «"Per me gli anni della montagna hanno coinciso con gli anni della giovinezza, e quindi del pericolo e della sofferenza. Questa esperienza mi è stata preziosa, perché proprio in montagna ho imparato alcune virtù fondamentali: la pazienza, l'ostinazione, la sopportazione". Così dichiarava nel 1982 a Giorgio Calcagno, giornalista de "La Stampa", Primo Levi. Senza quelle tre virtù non ci sarebbe l'uomo Levi, e quindi neppure lo scrittore, che della pazienza, dell'ostinazione e persino della sopportazione ha dato continui esempi nel corso della sua vita di uomo e di autore. In quella intervista spiegava che poi la montagna era stata una palestra d'allenamento per sopportare fame, sete e disagio, che gli saranno utili ad Auschwitz. Ricorda più avanti il giornalista: "Nel racconto La carne dell'orso, pubblicato nel settimanale "Il Mondo" nell'agosto del 1961, prima ancora dell'uscita della "Tregua" (1963), e da lui mai raccolto in volume. Levi poi riscriverà quel racconto, che gli pareva non riuscito, in "Ferro", invece uno dei capitoli della sua magnifica autobiografia, "Il sistema periodico" (1975). "Ferro" è imperniato sulle sue ascese giovanili in montagna insieme a Sandro Delmastro, suo compagno di studi all'università, protagonista della storia. Sandro è uno dei primi caduti nel 1944 della resistenza ai nazifascisti. Sono pagine molto belle in cui emerge la montagna come palestra di antifascismo, come ricerca di una forma di vita in mezzo "all'incubo che gravava sull'Europa" negli anni che precedono lo scoppio della guerra mondiale". E ancora: "Resta traccia di quella passione in montagna anche in un altro racconto, Fine settimana, compreso nella raccolta "Lilìt e altri racconti", dove narra l'ascesa al Monte Disgrazia in Lombardia, salendo dal paese Chiesa Val Malenco insieme all'amico Silvio Ortona, nel luglio del 1942, a guerra scoppiata; lì verranno intercettati dai poliziotti fascisti e rimandati indietro. Silvio diventerà in seguito un capo partigiano, e deputato comunista dopo la fine della guerra. Proprio lui sarà il primo editore di Levi su un giornale di Vercelli, "L'amico del popolo", dove usciranno alcune pagine di quello che di lì a poco sarà "Se questo è un uomo". La montagna è presente nella scelta di Primo di partecipare alla Resistenza armata, "salendo in montagna", come si diceva all'epoca, in Valle d'Aosta, dove sarà catturato dai militi fascisti nei pressi di Amay e quindi internato a Fossoli». Già, la Valle d'Aosta è per lui un passaggio fatale, che lo porta dritto dritto alle vicende del lager di cui diventerà testimone e scrittore senza eguali. Racconta ancora Belpoliti: «C'è una bellissima intervista concessa da Levi ad Alberto Papuzzi, a lungo giornalista de "La Stampa", e suo compagno di camminate durante gli anni Ottanta, pubblicata su "La Rivista della Montagna" nel 1984 con il titolo: "L'alpinismo? E' la libertà di sbagliare". Primo è presentato come uno studente di chimica che il sabato e la domenica sale sulle cime del Gran Paradiso e d'inverno s'inzuppa gli scarponi di neve sciando, e nelle mezze stagioni scala le rocce dei Picchi di Pagliaio, i Denti di Cumiana, di Roca Patanüa e dello Sbarüa, allora le palestre degli scalatori torinesi, frequentate da pochi coraggiosi e stravaganti in calzoni alla zuava e vecchi calzoni, spiega Papuzzi. In quel periodo, racconta nella conversazione lo scrittore, s'andava in montagna presto, ai dodici e tredici anni, con l'idea che la montagna con le sue fatiche fortificasse lo spirito e il corpo; era un po' il clima che si ritrova in certi passi di "Lessico famigliare" di Natalia Ginzburg. La prima avventura di Primo è però un mezzo fallimento, a Bardonecchia sale senza pensarci troppo e senza attrezzature verso la Catena dei Magi con un compagno. I due ragazzi vengono sorpresi dal buio in discesa e devono essere soccorsi dai montanari del luogo. Levi spiega che l'alpinismo era una risposta al clima culturale del fascismo, alla discriminazione decretata dalle leggi razziali verso gli ebrei: un'assurda forma di ribellione giovanile, dice, seppure così preziosa per forgiare il suo carattere e prepararlo alle privazioni del Lager di Monowitz. Con Papuzzi parla dell'ideologia alpinistica di Eugen Guido Lammer, alpinista austriaco, grande ascensionista, sostenitore della arrampicata estrema e autore di "Fontana di giovinezza" (1932), allora punto di riferimento. Era l'idea di misurarsi con l'estremo che determinava la passione per la montagna di Primo e dei suoi amici. Un'idea romantica che conviveva con la cultura positivistica, di cui era intrisa la città di Torino e gli ambienti scientifici che Levi frequentava. La montagna è connessa poi alla chimica, almeno in quella fase giovanile di vocazioni ed esperimenti di laboratorio. Ricorda anche di aver cercato di scrivere quel primo racconto, La carne dell'orso: “C'era tutta l'epica della montagna, e la metafisica dell'alpinismo. La montagna come chiave di tutto". In quel testo, poi uscito sul settimanale, Levi aveva cercato di "rappresentare la sensazione che si prova quando si sale avendo di fronte la linea della montagna che chiude l'orizzonte: tu sali e non vedi che questa linea, non vedi altro, poi improvvisamente la valichi e ti trovi dall'altra parte, e in pochi secondi vedi un mondo nuovo, sei in un mondo nuovo"». Alpinismo, montagna e antifascismo sono protagonisti che forgiano molti dei membri della "Jeune Vallée d'Aoste" - principale nucleo antifascista a salvaguardia dei valori di libertà e del desiderio di Autonomia - ed è questo un tratto sul quale bisognerà sempre più insistere alla ricerca degli aspetti peculiari del pensiero federalista che si sviluppa in Valle e dell'adesione direi fisica al territorio che ha forgiato la cultura valdostana nei secoli. Infine un pensiero su Levi attraverso una poesia che sembra un messaggio in bottiglia, ricordando i partigiani: «Dove siete, partigia di tutte le valli, Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse? Molti dormono in tombe decorose, quelli che restano hanno i capelli bianchi e raccontano ai figli dei figli come, al tempo remoto delle certezze, hanno rotto l'assedio dei tedeschi là dove adesso sale la seggiovia. Alcuni comprano e vendono terreni, altri rosicchiano la pensione dell'Inps o si raggrinzano negli enti locali. In piedi, vecchi: per noi non c'è congedo. Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna, lenti, ansanti, con le ginocchia legate, con molti inverni nel filo della schiena. Il pendio del sentiero ci sarà duro, ci sarà duro il giaciglio, duro il pane. Ci guarderemo senza riconoscerci, diffidenti l'uno dell'altro, queruli, ombrosi. Come allora, staremo di sentinella perché nell'alba non ci sorprenda il nemico. Quale nemico? Ognuno è nemico di ognuno, spaccato ognuno dalla sua propria frontiera, la mano destra nemica della sinistra. In piedi, vecchi, nemici di voi stessi: La nostra guerra non è mai finita».