Per chi lavori con la parola orale è normale farci attenzione: a me capita facendo la Radio con tanti ospiti, ma è stata anche una lunga osservazione avvenuta in politica, ascoltando molti oratori in diverse sedi e parlando con tante persone nel campionario di una umanità così varia da non finire mai. Ma anche nei contatti quotidiani odierni mi resta sempre una viva curiosità nel verificare come cambi e si evolva il linguaggio, che è materia viva e che perciò cambia con grande rapidità. Mi riferisco oggi, senza fissarmi chissà quali obbiettivi, alla categoria sfuggente e cangiante delle "interiezioni". Per capirci propongo in premessa una definizione standard: "Una categoria di parole difficilmente classificabile all'interno della grammatica è senza dubbio quella delle interiezioni: gli elementi che la compongono non rientrano in alcuno schema di reggenza, non interagiscono con il senso stretto del significato dell'enunciato a cui prendono parte, né possono essere modificati da altri parti del discorso; non hanno regole linguistiche precise di distribuzione all'interno del discorso e possono comparire da soli formando periodi di testo isolati".
Per capirci meglio è classico rifarsi al famoso «cioè», che per molti anni è stato un tormentone che infarciva i discorsi fino a diventare, come premessa alla fine di un'abuso, oggetto di bonaria presa in giro. Avevo notato poi il passaggio al più strutturato ma finanche eccessivo «come dire?» e ho un amico che usa il raro «pertanto». Segnalo ancora la presenza fattasi rara dell'«eccetera, eccetera» e verifico l'emergere - pure nel mio dialogare e mi sto togliendo la mania - di un riassuntivo ma improprio uso sul finale di frase di estemporanei «insomma». Terribile, in caso di intervista con ospite emozionato o indeciso, il ripetitivo «ehhh!», che spezza frasi e allunga i discorsi come un vero e proprio "tic" linguistico. Poi, come inutili orpelli, esiste la varia collezione di avverbi: «certamente», «evidentemente», per non dire - specie al telefono - dell'ineffabile «ah!» e del più gutturale «uh!» e del sempreverde «bene!» e del democristianissimo «già» e del multiuso e sbrigativo «ok». Conosco persone che abbondano di «vero!», di «bah!» e «mah!» e annoto qualche residuo «caspiterina» e resistono, anche in versione dialettale, varie invocazioni pure irriverenti al Signore e alla sua Mamma. Annoto qualche «uff!» ed il cugino «ffff!» e non mancano degli «oh!» secchi oppure trascinati «ohhhh!». Poi ci sono le parolacce che fanno costume e che ormai sono entrate di prepotenza e non solo nella variante infinita dei possibili insulti dalle corna sulla testa fino alle pubenda. Nelle lunghe estati imperiesi ho imparato l'uso del locale «belin!» ed oggi in Italia è dovunque sdoganato il «ca**o!» e le sue varianti infinite a carattere regionale. Idem per l'apparato riproduttivo femminile. Per essere precisi per il primo sono stati censite 744 definizioni, per la seconda 595. Come non ricordare - il filmato lo si rinviene sul Web - quella sorta di laico rosario irriverente del comico Roberto Benigni su di "lui" e di "lei"? Non è certo un uso elegante quello della parolaccia, ma si è diffuso a tutte le età e sdoganato sui media con buona pace di galateo, educazione e bon ton. Prenderne atto vuol dire seguire l'evoluzione del linguaggio che segue la società. Quel che è certo è che parlare parliamo. Il linguista Tullio De Mauro, che conobbi di persona, ricordava: «Per essere cauti si può stimare, al ribasso, che un adulto colto processi ogni giorno, in sedici ore di veglia, assai più di centomila parole. Ma il word processing mentale continua anche durante il sonno. Ripeto, sono stime caute, al ribasso». E oggi le introiezioni abbondano anche nello scritto sui "social" e si sono resi immagine nell'uso debordante degli "emoticon", i geroglifici contemporanei con cui si possono esprimere stati d'animo e rimarcare i propri discorsi e sostituirsi in certi casi a quella mimica facciale e ai molto gesti che accompagnano il nostro parlare. Per altro negli odiosi messaggini vocali tornano numerosissime le interiezioni perché sintetiche e utili per riempire i buchi che si creano in brevi discorsetti improvvisati, che spesso finiscono per essere esempio eminente di comicità non voluta.