In linea di principio l'impressione è che la dispersione in mille rivoli del mondo politico in Valle d'Aosta resti una costante e non si arresti. Dal dopo "Tangentopoli", quando la vecchia partitocrazia si dissolse, questa è stato un destino per i partiti nazionali in Italia e ciò è avvenuto anche da noi. In Valle d'Aosta si è aggiunta la logica che ha portato a "saucissoner" (tagliare a fette come si fa coi salami) la corazzata che fu l'Union Valdôtaine, cui si sono aggiunte schegge in area autonomista di altra provenienza con logiche di autocerticazione «io sono autonomista!». Mi pare, con franchezza che sul secondo punto - diaspora unionista - sia mancata una riflessione collettiva sulle ragioni a confronto di chi se ne andò e di chi restò, che sarebbe stata molto più salutare di qualunque appello sentimentale all'embrassons-nous con vista sul Consiglio regionale...
Ecco perché evoco un termine desueto che così viene descritto dall'Enclopedia cattolica: "Parresia, dal greco "παρρησία, parresía", composta di "πᾶν, pān, tutto", e di "ρῆσις, rhēsis, discorso", letteralmente significa "libertà di dire tutto". E' frequente nel testo greco del Nuovo Testamento dove indica "il coraggio e la sincerità della testimonianza". E' stato molto usato nella tradizione cristiana, specie agli inizi, come contrario di "ipocrisia". Dal momento che l'esercizio di questa libertà comporta inevitabilmente scontri e resistenze, il significato del termine si allarga anche a quello di "imperturbabilità, sincerità". Nelle fonti cristiane ha due significati fondamentali: "franchezza nel parlare" e "fiducia nel giudizio". L'insegnante, scrittrice e saggista Rosa Elisa Giangoia sul sito "Bomba Carta" consente un salutare passo indietro a dimostrazione che molte cose restano uguali nei comportamenti umani: «L'origine del concetto e della pratica della libertà di parola risale all'antica Grecia, in particolare alle pólis con regime democratico, dove la "parresía", cioè il dovere morale di dire la verità, rappresentava la facoltà per i cittadini di condizione libera di esprimere liberamente la propria opinione durante le assemblee pubbliche che si svolgevano nell'agorá. Il termine compare per la prima volta nella tragedia "Φοίνισσαι" ("Fenicie", v. 391) di Euripide, databile tra il 411 e il 408 a.C. Anche Socrate, Platone e Aristotele ritengono che vi sia uno stretto collegamento tra "politéia", esercizio politico del potere, e "parresía", cioè il comportamento morale del buon cittadino che parla in pubblico dicendo la verità. Questo avvenne appunto ad Atene quando alla parola autoritaria si contrappose il dialogo filosofico con la possibilità di mettere a confronto le opinioni dei partecipanti, e di conseguenza al posto della tirannide si impose la democrazia. In questa visione si pensava che non ci dovesse essere differenza tra ciò che uno pensava e ciò che diceva. La costituzione democratica ateniese, infatti, si fondava sui tre pilastri della "isegoría" (uguale diritto di parola nelle assemblee), "isonomía" (uguale partecipazione al potere politico) e "parresía", ma ad un certo punto proprio la "parresía" divenne un ostacolo al corretto uso della politica, quando, potendo ognuno dire sinceramente la sua opinione, che valeva come quella degli altri, ne conseguì una confusione tale da impedire il raggiungimento della verità. Da qui nacque l'esigenza di designare colui che, essendo in grado di conoscere il vero, assumesse il potere politico a cui avrebbe dovuto corrispondere l'obbligo di obbedire. La "parresía" si può anche considerare l'esatto contrario dell'astuzia di cui, nel mito, è esempio Ulisse, per cui può essere vista come la sua contrapposizione, ma non il suo superamento, perché anzi, a tempi lunghi, sarà quest'ultima a prevalere nei rapporti tra le persone. In certi ambienti della Grecia antica, divenne, però anche un'incontrollata e smodata propensione a parlare. In questo senso la "parresίa" fu uno dei principi filosofici del "cinismo", come dimostrano gli aneddoti relativi alla figura di Diogene di Sinope e al suo modo franco e persino un po' scorbutico di rapportarsi con gli altri, quasi come un cane che abbaia a chi lo disturba. Leggiamo, infatti, nella "Vita di Diogene il Cinico", scritta da Diogene Laerzio: "[Alessandro] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. «Io sono Alessandro, il gran re», disse. E a sua volta Diogene: «Ed io sono Diogene, il cane». Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: «Mi dico cane perché faccio le feste a chi mi dà qualcosa, ma abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi»." Della parola "parresía" si appropriò il Cristianesimo, che nei suoi inizi diede molta importanza al valore della libertà di parola, ma poi anche nel suo ambito questa virtù decadde". Interessante il rischio che dalla sincerità si possa passare allo straparlare ed è il ben noto confine fra il "dire" e il "fare". Trovo, comunque, che non sarebbe così male questa "parresia" come esercizio di riflessione per sostituire certi dialoghi che sembrano velati d'ipocrisia e persino di doppiezza, che indicano obbiettivi straordinari, mentre il quotidiano tran tran mostra esattamente il contrario. E' in parte frutto della sindrome collettiva che ha imprigionato ogni discussione, in fase del tutto preliminare, attorno al termine "cambiamento". Quando forse sarebbe stato più utile il verbo "ricominciare". C'è quella poesia del primo Eugenio Montale con quei versi, compreso quell'ultimo volutamente allontanato: "E senti allora, se pure ti ripetono che puoi fermarti a mezza via o in alto mare, che non c'è sosta per noi, ma strada, ancora strada,
e che il cammino è sempre da ricominciare".