A me capita anche nei momenti peggiori di trovare una vena beffarda, ereditata da mio papà, per ridere su qualunque situazione, comprese quelle più difficili. Ben sapendo che ridere non ha una sola nota, ma - come le note musicali - permette un'infinita varietà di modi di farlo (sbellicarsi, ridere a crepapelle, ghignare, ridacchiare, sogghignare, sorridere...). Quando la fantasia e l'umorismo (anch'esso plurimo) creano un'intuizione ci siamo davvero e plaudo alla seconda stagione di "Topi", la serie diretta e interpretata dal grande attore e comico Antonio Albanese (dal 3 aprile già su "RaiPlay" e da sabato prossimo su "Rai3"). Vi prego, non perdetela e di questi tempi offre distensione e ragionamento.
Si tratta - per chi non la conoscesse - di una graffiante situation comedy, che racconta la vita dei latitanti di mafia, utilizzando il ridere amaro. Albanese interpreta Sebastiano, latitante calabrese (la 'ndrangheta è la più feroce delle mafie, che ha impestato il mondo) che trascorre le sue giornate nascosto in una villetta del nord Italia (dove però è capobastone di una folta comunità di immigrati calabresi con la complicità di politici locali, cioè la fotografia della Lombardia ed ormai anche di certa Valle d'Aosta). La casa dotata di molte telecamere, passaggi segreti e l'immancabile bunker interrato, dove i ricercati vivono appunto come dei topi. Grazie a questa abitazione sotterranea, Sebastiano è da anni invisibile alla Polizia e porta avanti i suoi loschi affari con la complicità tribale della famiglia composta dalla moglie Betta (una sofferta Lorenza Indovina), la primogenita Carmen (la bella Michela De Rossi), prima laureata della famiglia, e Benni (Andrea Colombo), il diciassettenne un po' stupido e con velleità culinarie (e la paura del padre che sia gay). Nel bunker ci sono anche i surreali zii Vincenza e Vincenzo, accanita scommettitrice sulle corse di cavalli lei e capostipite mafioso lui che vive da dodici anni nascosto nel sottosuolo. Nella seconda serie spicca lo spassoso Nicola Rignanese: nei panni del ndranghetista gay "U Stortu". «La chiave rimane quella di prendere in giro i criminali, di raccontarli per le bestie ignoranti e ridicole che sono, perché nessuno si voglia identificare con loro» ha spiegato Albanese ai giornali. «Il contrario di quello che accade per altre serie "crime", dove i criminali possono risultare una sorta di supereroi sempre vincenti». Albanese aggiunge come «la comicità continua a essere lo strumento rivelatore della bestialità e dell'ignoranza della realtà mafiosa. Spero di regalare un sorriso ai telespettatori che sceglieranno di seguirci e che sono a casa, come me. Ora è il momento di dimostrare senso civico». Ha ragione Aldo Grasso, critico televisivo del "Corsera", quando sui "Topi 2" scrive: «In apparenza, si offre come una beffa della mafia e delle sue regole, il rovescio dei Soprano. In realtà, capitata nel pieno dell'emergenza del "coronavirus", la serie sembra piuttosto un trattato sulla reclusione, come se nel tombino (piccola tomba?) riscoprissimo il mondo, non più dalla parte della sovrabbondanza della vita, ma da quella più oscura e rara della spoliazione, della prossimità dell'irreparabile». Ora che siamo anche noi "reclusi", Albanese e questi suoi racconti sono ancora più divertenti ed ammonitori.