Sono contento che ci siano molte persone che sul caso di Silvia Romano abbiano le idee chiare e certezze granitiche e ciò avviene spesso più per contrapposte ragioni ideologiche, piuttosto che per un esame freddo e calcolato degli eventi che hanno portato la giovane rapita da estremisti islamici ad essere liberata con il pagamento di un riscatto. Pagamento che, scelta umanitaria comprensibile, non è seguita in punta di diritto dagli altri Paesi occidentali per evitare che i propri cittadini vengano rapiti. La stessa linea, insomma, prevista dalla legislazione italiana per le vicende interne e che, con il blocco dei beni in caso di rapimento, ha stoppato il fenomeno in Italia: non rapisci nessuno, se nessuno ti paga per ottenere la restituzione della vittima. Si può cominciare dall'inizio o dalla fine, con una premessa: la giovane che si è messa nei guai lo ha fatto con generosità e perché ha il cuore buono, inseguendo un suo sogno africano, ma ha peccato di improvvisazione e di ingenuità, perché la zona dove operava in Kenya era nota per essere infiltrata dagli islamisti.
Non a caso l'inizio è che molte "Ong - Organizzazione non governative" che operano in Africa ascrissero il rapimento ad una sottovalutazione dei rischi della giovane, lasciata sola in un ambiente potenzialmente ostile. Ma questo giustamente non ha impedito alle Autorità italiane di spendersi per salvarla, sporcandosi purtroppo le mani con i sevizi segreti turchi e spiace avere un debito di riconoscenza con il regime liberticida di Erdogan, che immagino ben lieto dello spot in favore dell'Islam della giovane italiana. La fine è, invece, il ritorno giustamente gioioso per una vita salvata, ma con la scoperta che Silvia, nel frattempo, ha abbracciato la fede islamica dei suoi rapitori, che nel loro estremismo considerano la donna il nulla. In più ha cambiato il suo bel nome di battesimo in Aisha (la moglie favorita di Maometto) e mantenendo all'arrivo la veste simbolo di chi l'ha tenuta prigioniera per 17 mesi, obbligando l'Italia a dispiegare uomini e mezzi per la sua salvezza. Scriveva ieri su "La Stampa" l'inviato speciale Domenico Quirico, rapito in Siria nel 2013 mentre faceva il suo lavoro da un'altra banda di islamisti: «Dio, come pesa quel barracano verde, come ci annaspiamo dentro. E' come se lo gonfiasse tutto quello che in questi mesi interminabili Silvia Romano ha attraversato, come se avesse voluto portarli con sé, la prigionia, la violenza del sequestro, i segni dei nuovi indemoniati che ritengono che tutto sia permesso non più perché dio non esiste ma anzi proprio perché, per loro, il suo esistere li rende fanatici. In un vestito che non ha voluto lasciare dietro, che ha voluto esplicitamente come simbolo, c'è il mondo dell'islamismo radicale con i suoi codici le sue parole d'ordine i territori segreti l'incubo dei predicatori che sanno ispirare l'animo alla follia, (ah poveretti, voi non sapete quanto sono abili in questo), la sua manovalanza e suoi gerarchi. Gli uomini di Al Shabaab, le loro opere criminali lo impregnano, ne fanno sentire la esplicita presenza in ogni piega. La seguono, non l'hanno liberata. Distanza e vicinanza». E più avanti la rivelazione: «Conosco il rito dell'offerta della conversione: per averlo vissuto. Comincia con una proposta, gentile: quella di cambiare identità, di assumere un nome musulmano. Allucinante complessità del fanatico. Sconcertante impenetrabilità di personaggi a doppio, triplo fondo. Non gli basta tenerti in pugno, barattarti per denaro. Vogliono la tua resa, la tua anima. Non è un rito formale, piccole mercanzie da sacrestia islamica, è un obbligo, a cui credono sinceramente: salvare un miscredente dal peccato, portarlo alla vera fede, accrescere di una unità il paradiso dei puri, dei giusti. Che doppia vittoria! Poi lo si potrà vendere, sfruttare, possedere. Senza rimorso. Nessuno ti dice che così la tua condizione di vittima, di prigioniero cambierà, che in quanto musulmano non subirai più violenze. Che sopravviverai. Forse ti libereranno... e allora... fuggire... forse, chissà. Ma ti accorgi immediatamente che l'abbandonare il nome, anzi gettarlo via come una cosa sporca, è l'equivalente, oh quanto più forte, del restare nudo, del lasciare i vestiti che ti hanno tolto subito dopo il sequestro. Sei debole, senti mancarti il terreno sotto i piedi, precipiti verso il fondo del trabocchetto, non sai neppure tu come ti devi chiamare. Sai che se dici sì, scivoli via da te stesso: obbligatoriamente. Adesso non hai più nome che non sia quello che loro ti hanno imposto, ogni volta che ti chiamano devi percorrere nella tua mente uno spazio, per capire che quel nome sei tu. Poi viene la proposta di pronunciare la preghiera, la dichiarazione di fede. Ma l'idea di mentire, del prendersi gioco dei tuoi carcerieri, salvarsi con la riserva mentale, ingannarli? Sarebbe lecito, in fondo. Pensieri che partorisce la notte. Che non potrai disinvoltamente gettare via. Ma con dio non si scherza, soprattutto quando hai vicino di cella il dolore. Cerchi la via di scampo. E se fosse proprio in questo dio in cui credono di credere i carcerieri? Un dio senza angoscia nella mente, senza incertezza, senza dubbio, senza un elemento di disperazione. Non si parli di sindrome di Stoccolma, del legame capovolto che si crea con chi ti fa del male. Semplicemente non esiste. Quello che cerchi, che sogni è avere un po' di quella stanchezza felice che provano i convalescenti. Anche un dio implacabile e senza indulgenza può andare bene, ti può scorrere addosso come un balsamo. Il tuo, se lo avevi, sembra aver scelto il silenzio, ha perso la partita. E poi: donna prigioniera della jihad. Si fa quasi fatica a parlarne, dà sofferenza: le terribili vedove del Califfato, Antigoni cieche dell'odio, che impugnano i figli come manodopera della rivincita. L'adultera lapidata. O le jazide vendute come schiave al mercato, innocenti prostitute della guerra santa. Nella retorica della jihad non c'è posto per le donne, è un mondo di giovani guerrieri che costruiscono il loro paradiso insanguinato. Ma nella ipocrisia dei mercanti sanguinari di dio quante donne: kamikaze, produttrici di martiri, riposo del guerriero. Sequestrate. Chi esce da un rapimento ha soltanto la sua memoria, l'esser rimasto vivo, i gesti che ha compiuto o non ha compiuto in una dimensione che, non bisogna dimenticare mai, è quella della violenza, del ricatto. Se gliela rifiutiamo questa memoria, qualunque sia, ditemi: che cosa gli resta?». Questa è letteratura di chi conosce le cose e le ha tatuate sulla propria pelle, avendo vissuto in questo spazio di orrori di questi integralisti religiosi che ci vogliono convertire oppure uccidere, perché infedeli. Purtroppo nella storia non ci sono eroismi: ovviamente i rapitori sono esseri spregevoli obnubilati da una visione del mondo barbara e spregevole; ma neppure Silvia-Aisha è un'eroina, ma una povera ragazza che per inesperienza e candore è stata stritolata fra le fauci di una belva sanguinaria. Ne è uscita, per fortuna, ma con dolori e paure che saranno i fantasmi di una vita. Chi vuole trasformarla in un simbolo di chissà cosa per vicende di politica italiana e battibecchi sui "social", tirandola da una parte o dall'altra, è equamente spregevole. Troppa grancassa su questa storia e troppi silenzi imbarazzati sull'evidente manipolazione di una povera prigioniera.