Non so se sia chiara la sfida che riguarda il mondo della scuola in vista della riapertura a settembre. Appare ormai chiaro come, a differenza di altri Paesi colpiti dal virus, da noi non si aprirà nulla, e anzi, la tentazione pare essere quella di formule miste (aula e collegamento digitale) che rischiano alla ripresa di creare un mostro contro i nostri figli, nel nome di non si sa bene che cosa, se non di paure ridicole e di interessi corporativi. Leggo su "La Stampa" Donatella Di Cesare, filosofa, saggista ed editorialista, che ha sottoscritto l'appello di sedici intellettuali contro la prospettiva di un "modello di scuola in remoto". Quel che dice è quel che penso anch'io e lo scrivo da settimane, trovando ridicolo chi mi chiede se mi conviene politicamente, indicandomi chi in Valle d'Aosta dice il contrario per bieca convenienza elettorale, perché gli insegnanti sono una cospicua massa di voti e di tessere sindacali. Dice l'articolo: «La didattica a distanza avrebbe dovuto costituire un ripiego temporaneo - solo qualche settimana - ed essere perciò considerata con tutte le precauzioni. Adesso, con il passare del tempo, vengono alla luce tutti i limiti. Anzitutto è ormai evidente che si finisce per perdere il contatto proprio con gli scolari delle famiglie più disagiate, quelli che non hanno il wifi, che vivono in condizioni di sovraffollamento domestico. La distanza accentua le discriminazioni. Ma il punto è inoltre che la scuola non può essere concepita come un flusso di nozioni che passano attraverso il web e raggiungono l'obiettivo, cioè chi dall'altra parte dovrebbe imparare. Questo significherebbe travisarne completamente il ruolo, il significato, lo scopo. E bisogna dire che in questo momento è altissimo il rischio, nel nostro Paese, che tutto il sistema formativo scivoli nel baratro».
«La scuola è incontro, dialogo, scambio continuo, tra compagni di banco, tra allievi e insegnante - prosegue l'articolo - Così è possibile non solo apprendere nuovi contenuti, ma anche imparare insieme a pensare, a parlare, a discutere. Tutto fa parte della formazione: il modo di partecipare, di ascoltare, di essere presenti. L'aula è insostituibile perché è il luogo in cui si educano le cittadine e i cittadini di domani, è il nucleo dello spazio pubblico. In questo senso ha un fondamentale valore politico». Esattamente e per questo non è appannaggio degli umori e delle paranoie di tanti insegnanti e di parecchi genitori, ma un diritto di bambini e ragazzi di un servizio pubblico essenziale, che va garantito non con formule bislacche che sono troppo spesso solo compiti a casa, che gravano sui genitori. So bene che la scuola non è un parcheggio per genitori che devono lavorare, ma neppure un luogo da desertificate nel nome di chissà quale diritto alla Salute, quando tutto si riapre e il 15 giugno - rido per non piangere - si aprono i centri estivi, mentre il diritto allo studio viene mortificato. Aggiunge la Di Cesare: «I rapporti schermati, per media interposti, sono già difficili per gli adulti. Figuriamoci per bambini e adolescenti. Certo lo schermo è un accesso al mondo, ma protetto, tutelato. E invece apprendere e insegnare vuol dire sempre esporsi. I dispositivi tecnici sono un supporto irrinunciabile. Ma l'educazione non può essere confinata a questi mezzi. Occorre evitare che la pandemia pregiudichi in modo irreparabile il diritto allo studio. Scuola e università devono essere al primo posto dell'agenda politica. Perciò è necessario aprire una nuova fase in cui si possano indicare modalità chiare ed efficaci di insegnamento, senza accontentarsi di reiterare la lode del remoto. Questo non vuol dire sottovalutare l'emergenza sanitaria. Ma se aprono spiagge e palestre non si vede perché tenere chiusi gli edifici scolastici e universitari. Dove sono le nostre aule, il nucleo della nostra democrazia? Vogliamo trarre un bilancio da questo periodo, un bilancio che non è positivo. Perché a stento si è riusciti a far fronte all'emergenza. E mentre gli insegnanti hanno resistito con fatica, è possibile che per molti studenti questo sia stato un periodo di vuoto, forse in parte perduto. Proprio perciò la ripartenza deve significare un progetto all'altezza di un Paese democratico che non può rassegnarsi al degrado culturale». Chi si rassegna sbaglia e punisce figli e nipoti, attentando alla Scuola e al suo futuro.