Scrive Enrico Marcoz, giornalista che di montagna se ne intende, sul "Corriere della Sera": «Una massa di ghiaccio di oltre 500 mila metri cubi, poco più grande del Duomo di Milano, che incombe sulla val Ferret, a una manciata di chilometri da Courmayeur. A causa degli sbalzi di temperatura degli ultimi giorni il ghiacciaio di Planpincieux, sotto le Grandes Jorasses (massiccio del Monte Bianco), torna ad essere una minaccia dopo la paura dello scorso anno». Torna così in scena, ai piedi della montagna più alta d'Europa (meglio sarebbe dire dell'Unione europea, precisano i geografi), un tormentone dell'estate, che ruota attorno al «cade, non cade». Sino a pochi mesi fa avevo capito che si era stabilizzato, a dimostrazione che anche la Scienza è mobile, ma ora il caldo rende di nuovo rischiosa la zona sottostante e riparte la macchina della drammatizzazione.
Già in passato avevo segnalato come certa macchina mediatica vada governata, perché l'informazione su emergenze come questa è una disciplina con sue regole. Non bisogna omettere nulla e non muoversi di una virgola dalle norme precauzionali, ma neppure montare un circo che non spieghi come il fenomeno sia importante ma circoscritto per evitare scemenze catastrofiste lette in passato, tipo un crollo del Monte Bianco su Courmayeur. In realtà siamo di fronte ad un fenomeno duplice. Da una parte i ghiacciai delle Alpi, come i loro simili in tutto il mondo, sono andati e venuti, forgiando territorio come la Valle d'Aosta, seguendo i tempi lunghissimi dei cambiamenti geologici, nei quali le nostre vite sono meno di uno starnuto. Dall'altra la novità sta nel fatto che fenomeni come quello in corso diventano interessanti in un'epoca in cui i cambiamenti climatici sono così rapidi da colpire in modo eclatante le nostre brevi vite e con la circostanza che certi cambiamenti non avvengono solo per meccanismi naturali che mutano la nostra Terra, ma per le accelerazioni complesse ma reali dovute ai comportamenti di noi esseri umani. Per cui il Monte Bianco diventa un simbolo di un fenomeno incombente che cambia il nostro futuro. Presentai, anni fa, con il climatologo Luca Mercalli un rapporto sui cambiamenti climatici nelle zone montane europee e in particolare sulle Alpi e la questione era e resta seria. I cambiamenti climatici sono già in atto e causano questo elenco che impressiona: incremento del rischio idrogeologico (alluvioni, frane) ed aumento della vulnerabilità delle persone e delle infrastrutture; riduzione della disponibilità di acqua soprattutto in estate (anche nei territori adiacenti non montani); cambiamento del regime delle portate dei fiumi (nella regione alpina è attesa una maggior frequenza di piene invernali e siccità estive); riduzione dei ghiacciai (dal 1850 i ghiacciai alpini hanno perso circa due terzi del loro volume con una netta accelerazione dopo il 1985); riduzione del permafrost; riduzione della durata del manto nevoso soprattutto a quote inferiori ai 1.500 metri; cambiamento di frequenza delle valanghe, minaccia alla biodiversità e migrazioni vegetali e animali; cambiamenti nell'economia del turismo invernale ed estivo e della produzione di energia idroelettrica; incertezze nella produzione agricola e danni alla selvicoltura. La sensibilità dell'ambiente alpino a questa rapida evoluzione climatica ne fa una zona di "handicap permanente". L'aumento di temperatura rilevato negli ultimi 150 anni sulle Alpi (+1,5 °C) è doppio rispetto alla media mondiale di +0,7 °C. Insomma: un questione seria da inserire in un contesto più vasto, purtroppo sottostimato ancora largamente dalle autorità pubbliche grandi e piccole.