La luminosità del mese di giugno mi piace moltissimo e l'affermo con un grido! Da adulto, invece e purtroppo, non ho più la gioia della fine dell'anno scolastico. Quel «rompete le righe» che direi non avere eguali in termini di orizzonte. Negli anni della scuola era qualcosa di ripetitivo per me e oggi posso surfare sui ricordi, che è cosa dolcissima. Allora: l'inizio delle vacanze era la partenza per il mare, dove restavo - non da villeggiante ma da residente vero e proprio - sino al mese di settembre. Era in sostanza un'altra cittadinanza, come cambiare cappello e trovarsi altrove. La destinazione era la città dove mi mai mamma era nata: Imperia, come chiamata in epoca fascista, nata dalla fusione di Oneglia e di Porto Maurizio.
Le due automobili di famiglia, una guidata da papà e l'altra da mamma, venivano riempite a dismisura ed i primi tragitti erano, in assenza di autostrade, fatti da strade in aperta campagna. Si arrivava stremati a casa dei nonni materni a Castelvecchio, autentica fierezza di nonno Emilio, perché costruita in cemento armato. Solo qualche anno dopo capii il perché: fu un primo terremoto, in quella zona sismica così delicata, a dimostrare la ragione della necessaria robustezza. Era una grande casa con un giardino con alberi da frutta e un orto generoso. Con i miei quattro cugini - tutti maschi! - vivevano in grande libertà, risalendo le fasce di quella Liguria che ho ritrovato in molte poesie di Eugenio Montale. Ma questa tribù si riversava ogni mattina al mare, prima ad una spiaggia di pietruzze, la "Galeazza", e poi in quella sabbiosa, la "Spiaggia d'Oro". Due diversi caratteri dello stesso mare, che ho imparato a conoscere negli anni, diventando un luogo senza segreti, specie con maschera e pinna, fino a quando vedevo la costa piccola piccola. La socialità della spiaggia, specie nell'ordine di ombrelloni e cabine, ha le dimensioni e le regole di un vero e proprio villaggio. I suoi abitanti vivono come formichine gioiose e con questa bizzarra ritualità di ritrovarsi un anno dopo l'altro e le compagnie giovanili avevano la caratteristica del vedersi cresce reciprocamente. Dunque un turbinio di amicizie e inimicizie, storie e pettegolezzi, pezzi di vita e momenti collettivi con la bizzarra caratteristica di essere in mutande. Lo scatto in quelle estati senza eguali, fissate nella memoria, era il motorino e poi la moto (che spedivo in treno dalla Valle d'Aosta), che consentivano la libertà della mobilità, poi definitivamente raggiunta con la prima macchina. Allora non era più la logica poco più che domestica: era lo spazio della bassa Riviera di Ponente con la vicina Francia il terreno di gioco, ma anche quell'incredibile entroterra montuoso che impreziosisce la Liguria. Queste mie estati mi sono nel cuore e devo dire di essere tornato raramente perché non mi piace quel gusto nostalgico del reducismo. Così le altre estati ormai nomadi mi sono servite per scovare pezzi di mondo, dopo tante estati piacevolmente ripetitive. Se ho imparato qualcosa nel tempo è come e quanto questo cumulo di storie vissute finisca per assomigliare alle riserve messe da parte come fanno le formichine, anche quei momenti in cui pensavamo solo ad essere come cicale a goderci l'estate. Tornano in superficie con la loro solarità quando la vita è più grigia e ci danno una lucina, come una lucciola.