La pandemia ci ha dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il male si propaga molto più del bene. Non vorrei filosofeggiare sul tema, avendo scritto in materia personalità illustri, comprese quelle non troppo dedite al pessimismo. Ci pensavo, ancora prima di associarlo al maledetto virus, guardando le immagini dell'Afghanistan ed alla riflessione tristissima di come certe vicende belliche, intrise di violenza, siano terribilmente virale e si propaghino. Pensate all'inquietante analogia fra l'estremismo islamista che infetta il mondo intero e la droga che parte dall'Afghanistan, gestita dagli stessi talebani, inondando anch'essa il mondo. La "globalizzazione" è un termine estremamente discusso, che ha una apparente semplicità espressa così dalla "Treccani": "Termine adoperato, a partire dagli anni 1990, per indicare un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell'integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo".
Certo, il processo è stato lunghissimo e innescato dal Vecchio Continente, che si è espanso negli altri Continenti per tappe successive e le tecnologie della comunicazione hanno negli ultimi decenni creato una spaventosa accelerazione. Poi, per carità, questo non intacca del tutto la capacità delle diverse culture di reinterpretare anche quanto apparentemente rischia di riproporsi come uguale dappertutto. Era stato profetico il sociologo canadese Marshall McLuhan: «L'accelerazione dell'era elettronica è per l'uomo occidentale un'implosione improvvisa e una fusione tra spazio e funzioni. La nostra civiltà vede improvvisamente e spontaneamente tutti i suoi frammenti meccanizzati riorganizzarsi in un tutto organico. E' questo il nuovo mondo del villaggio globale». Se fosse vivo (purtroppo morì nel 1980), scoprirebbe come la realtà ha largamente superato le sue previsioni e l'era della digitalizzazione è un meccanismo straordinario ed inquietante nello stesso tempo. Ma il progresso, anche con caratteristiche noir, non si ferma. Tant'è che un altro sociologo, Zygmunt Bauman, osserva: «La globalizzazione ha raggiunto ormai il punto di non ritorno. Ora dipendiamo tutti gli uni dagli altri, e la sola scelta che abbiamo è tra l'assicurarci reciprocamente la vulnerabilità di ognuno rispetto ad ognuno e l'assicurarci reciprocamente la nostra sicurezza condivisa. Detto brutalmente: nuotare insieme o affogare insieme». Ma il tema legato al virus sta proprio nella circolazione incredibile e contagiosa derivante dai movimenti continui delle persone, che un tempo erano neppure concepibili. Questa situazione è davvero double face. Da una parte la pandemia si è propagata con una rapidità inattesa e va detto con franchezza come per contrastarla sia mancata una visione internazionale, pensando che neppure l'Europa è riuscita a coordinare in pieno le misure necessarie, creandosi difformità fra Paesi confinanti. Dall'altra, però, va riconosciuto come la risposta scientifica abbia visto persone di origine diversa confluire nella realizzazione dei vaccini ed anche nella ricerca delle cure per aiutare i malati. Meno solidarietà si è avuta in un'equa distribuzione dei vaccini, che per ora non hanno coperto una larga parte, quella più povera, della popolazione mondiale. Il diritto internazionale, materia affascinante che fa sognare chi come me si sente cosmopolita, purtroppo langue e non riesce a dirimere questioni essenziali. Nel caso della pandemia, ad esempio, ancora si arranca nella ricerca sinora inutile delle origini reali di questo virus ed è quanto, secondo i ricercatori, si dimostrerebbe utile per evitare questioni simili in futuro. Ma non è solo questo, come dimostra l'ampio dibattito, che riemerge periodicamente, sulla esportabilità della democrazia lungo il solco della globalizzazione. Stefano Rodotà, grande giurista che ho avuto l'onore di frequentare in Parlamento, diceva con una pensiero fulmineo: «La globalizzazione passa attraverso i diritti, non attraverso i mercati».