Alzi la mano chi sia sfuggito alla lettura dei "Promessi Sposi" di Alessandro Manzoni. Credo, con franchezza, nessuno. Ci siamo passati tutti in una logica di formazione ancorata nel tempo ed al momento non sradicabile. Premetto che con il passare degli anni, sciolto dagli obblighi scolastici, mi sono accorto di come i protagonisti manzoniani siano utili come esempi immortali di personaggi che attraversano i secoli e che incontriamo nella nostra quotidianità. In più, la pandemia ha consentito di trarre ispirazione da quel fil rouge nel libro, che fu la "peste manzoniana". Ebbene, un annetto fa Antonio Gurrado, insegnante e giornalista, in un articolo su "Il Foglio" aveva lanciato una provocazione, che qui cercherò di riassumere per motivi di spazio, attorno al tema così riassunto dallo stesso autore: «Ci sono almeno cinque motivi per cui sarebbe il caso di non imporlo più agli studenti».
Il primo punto parte da questo assunto di Gurrado: «La letteratura s'impara meglio per prossimità che per lontananza». Più avanti spiega: «La letteratura progredisce a ritroso. Far leggere "I Promessi Sposi" a tutti i quindicenni significa illudersi che la passione sgorghi dall'autorità o, forse, sottintendere che la passione non c'entri nulla e che la lettura del Manzoni sia una specie di malattia esantematica». Bisognerebbe cioè partire da opere odierne e indietreggiare. Tesi suggestiva. Seconda considerazione: «L'Italia per cui Manzoni scriveva (la sua idea, almeno) non esiste più, ed è quanto meno velleitario serbarlo come romanziere patrio da somministrare alla gioventù». La graffiata finale di questa parte di spiegazione illumina la scena: «"I Promessi Sposi" resta nella mente degli studenti come tradizione incomprensibile e un po' bislacca, da espletare in attesa della campanella. L'Italia dell'Ottocento aveva fatto Manzoni senatore, l'Italia del Duemila ha fatto ministro Di Maio». Terza tesi, che evoca l'esperienza di ciascuno di noi: «Essendo una lettura obbligatoria, si legge per finta. Fermate un quindicenne a tradimento, ma anche un qualsiasi adulto già sottoposto a un anno scolastico di letture manzoniane, e domandategli come inizia "I promessi sposi". Facile, vi dirà: "Quel ramo del lago di Como...". Avete facoltà di sfidarlo a duello, perché inizia così: "L'Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo". Non ricordarsi come inizia un libro significa averlo già dimenticato, essere convinti che inizi in modo diverso dal vero significa che fra gli occhi dello studente/lettore e la prima pagina è calato un velo di noia, di distrazione, di sentito dire che l'ha accompagnato fino alla fine». Il punto quattro è operazione verità: «Guardiamoci in faccia: se doveste far leggere uno e un solo romanzo a un ragazzo di quindici anni, gli fareste leggere "I Promessi Sposi"? E, se voleste che leggesse "I Promessi Sposi" col diletto e giovamento che merita, glielo fareste leggere tutto a quindici anni?». Infine l'ultima riflessione: «"I Promessi Sposi" è il grande romanzo italiano. Ci sono dentro l'ironia, la saggezza, l'erudizione e la felicità narrativa, rette da una solida idea portante e impreziosite da un colpo di scena che, ogni volta che rileggo l'incontro fra l'Innominato e il cardinal Federigo, sembra sempre più credibile e mozzafiato per quanto è cesellato nella profondità dell'animo umano. E' un affresco sofisticato e capillare del nostro carattere nazionale, incarnato in un lessico adamantino costato decenni di fatica. Trovatemi un autore italiano contemporaneo che lavori così e ne riparliamo. Leggerlo a scuola significa tuttavia sottoporre questo lavoro maestoso alla sintesi, alla parafrasi, alla banalizzazione della verifica, al tema sulla colonna sinistra del protocollo, alla spiegazione approssimativa del supplente. Smettere di far leggere "I Promessi Sposi" agli studenti non significa salvare la scuola da Manzoni; significa salvare Manzoni dalla scuola». Ovvio l'intento di far ragionare al limite della provocazione, ma i ragionamenti sono lucidi e condivisibili.