Lamento sempre, ma rischia di essere la mia una giaculatoria, il fatto che viviamo in una società senza memoria. Questa vale anche per la piccola Valle d'Aosta, dove spesso personalità marcanti del passato scompaiono nel ricordo collettivo. Una grave omissione, che diventa persino un'ingiustizia, in un mondo usa e getta, che in genere si commuove per un morto illustre e poi, passata l'emozione, chi si è visto si è visto. Ecco perché ho trovata, invece, giusta la manifestazione per i cent'anni che avrebbe compiuto l'artista valdostano Francesco Nex, morto invece sette anni fa a 92 anni. Un pittore e scultore che ha attraversato i decenni del dopoguerra, marcando con i suoi lavori la scena artistica valdostana con un riconoscimento nazionale e internazionale. Era nato nel 1921 in Brasile, dove il papà era emigrato a fine Ottocento, seguendo il destino di tanti valdostani che avevano scelto l'America del Sud, che cercava manodopera dopo la fine dello schiavismo. Morta la madre, due anni dopo la nascita di Francesco, la famiglia rientrò a casa.
Apparteneva dunque a quei bambini degli anni Venti, i famosi "anni ruggenti", che si dimostrarono invece una semplice pausa fra le due Guerre mondiali con l'emergere del fascismo e del nazismo con le loro dittature. Le vicende belliche marcarono quella generazione, di cui sono figlio come molti sessantenni di oggi, che ha vissuto una mare di orrori e paure, essendo intrisa la loro vita da due evidenti contraddizioni. Da una parte un elemento oscuro, uno spleen frutto di quelle vicende indelebili che guastarono la loro giovinezza, dall'altra c'è sempre stata in loro quel senso di comunanza generazionale fatta di amicizie forti in una piccola comunità alpina, accompagnata dal clima di rinascita e di speranza del dopoguerra di cui sono stati interpreti, spesso delusi negli anni del tramonto della loro esistenza. Francesco, in campo artistico, ha dimostrato con la cultura giusta alle spalle e con una genialità innata quella voglia di fare degli anni del boom economico, ferito però come tanti altri da una nota stonata - come dicevo - per quanto patito in anni giovanili stroncati dalle vicende terribili originate da una dittatura fascista che aveva portato l'Italia verso il baratro. Carattere forte e spesso polemico, Francesco riconosceva istintivamente le persone che gli piacevano e quelle che non sopportava. Spirito libero, anarchico in politica, viveva la sua Valle d'Aosta salendo le montagne e cercando una sua personalità espressiva, il cui culmine è stata la scoperta del Medioevo su tele in seta coloratissime e dai titoli bizzarri e ironici. Un Medioevo valdostano fra castelli, vescovi e cavalieri decisamente controcorrente, perché - anticipando quanto gli storici di oggi ci dicono - Nex considerava quei tempi non così oscuri come ce lo dipingevano allora i libri di storia. Già lì - diceva- c'erano le radici del successivo Rinascimento. Nel 2007, quando ero presidente della Regione e avevo "inventato" per i valdostani meritevoli il titolo sancito in legge di "Chevalier de l'Autonomie", gli telefonai per annunciargli che sarebbe stato insignito. Temevo la risposta, anche se sapevo di essergli simpatico perché figlio di Sandrino, suo amico da ragazzo, come altri fratelli Caveri ed accettò volentieri. Divenne Chevalier nella piazza principale di Aosta ed il mio entourage di collaboratori mi mise in guardia sul rischio che nelle breve dichiarazioni sul palco uscisse quella sua vis polemica verso una parte della politica valdostana. Sorrisi all'idea e avevo ragione, perché invece sul palco mostrò il suo spessore umano con poche frasi: «La Valle d'Aosta è sempre stata il mio grande amore: conosco tutti i passi delle montagne. Amo tutto della Valle d'Aosta, vorrei che i valdostani l'amassero come io la amo. Sono tornato a vivere qui per raccontare storie che potevano essere successe e invitare ad amare questa Valle, dovremmo dirci di più le nostre impressioni e i nostri sogni. A volte non è così e mi dispiace molto». Già, aveva ragione e la sua è stata una profezia di una Valle troppo spesso spezzata e divisa, lacerata da chi non la ama. Un appello il suo che va raccolto e meditato e può servire in questi tempi in cui la bussola che indica la strada sembra impazzita.