I frutti dell'autunno sono fra i miei preferiti. Svettano la mela renetta e la pera martin sec, che mi riportano a gusti dell'infanzia, ma questo vale anche per i fichi che maturano tardivamente e come non citare i cachi e i melograni, che colorano la natura assieme al giallo, arancione, rosso, marrone delle foglie: si tingono i boschi e i pendii delle montagne, dove i larici e i castagni si infiammano d'autunno. Già, i castagni o meglio le castagne, anche loro un sapore e un gusto autunnale, che risale al palato dalla memoria che conserviamo come un elemento prezioso dei nostri ricordi. Oggi è difficile concepire che cosa fosse, in vaste zone alpine e la Valle d'Aosta non fa eccezione, questo frutto, che per secoli è stata una primaria fonte alimentare grazie alle notevoli proprietà nutritive, compresa la farina che vi si ricavava. Ma certo le caldarroste accompagnano l'autunno con i profumi del legno ed il calore del fuoco.
Oggi raramente facciamo mente locale sulla varietà di prodotti agroalimentari di cui disponiamo. Sarebbe davvero oggetto di un gioco guardare le scansie dei prodotti in vendita in un supermercato e vederne le origini, confrontando la vastità della scelta odierna con le ristrettezza delle economie locali di un tempo. Traggo dal sito "PatoisVda" qualche riferimento che ci immerge - attraverso le parole - in quella cultura contadina del passato, basata sull'autoconsumo e sulla capacità di non buttare mai via nulla, altro che la propaganda odierna contro lo spreco alimentare! Un tempo esisteva la logica di longue durée dì tutte le cose, mostruosamente accelerata dalla globalizzazione che abbiamo sotto gli occhi ed anche sul palato con una varietà di prodotti mai così estesa. Ecco l'incipit: «Una prima considerazione va fatta a partire dall'albero. Esiste, infatti, una fondamentale distinzione, anche linguistica, tra il "tsatagnì, tchahtagnì, sassagnì" (a seconda della varietà di patois), il castagno innestato, e la "ferla, herla", l'albero selvatico. Per quanto riguarda l'origine di quest'ultimo termine, questo potrebbe essere messo in relazione al latino "ferus", selvatico, che ha dato origine ai termini provenzali "fer, incolto", e "castagno-fèro, ippocastano". A Donnas, poi, per denominare l'albero di castagno, spesso si dice semplicemente la planta, "l'albero" per antonomasia, così come a Fontainemore lo si chiama ebbro, dal latino "Arbor, albero"». E' ovvio che la definizione ricorda la preminenza nella vita quotidiana, immersa in un'ambiente specifico, così come la montagne non erano la vetta, ma erano gli alpeggi che garantivano una buona parte del sostentamento nelle famiglie degli allevatori. Ma torniamo al punto: «Per quanto riguarda, invece, le varietà di castagna, si apre un mondo! In effetti, ce ne sono davvero moltissime. Solo per fare qualche esempio, Ilda Dalle aveva recensito per Donnas le "dounahtse", (tipiche del comune della bassa Valle come testimonia il nome); le "réchane"; le "ourtèntse" (da Aosta, con sonorizzazione e successiva rotacizzazione della "s"); le "grignole"; le "piaquine" (da mettere in relazione con il patronimo "Péaquin"); le "pioumbéze"; le "verdéze"; le "dzénotte"; le "groussére"; le "youére"; le "mourette". A queste aveva aggiunto le varietà di Perloz - le "maroune" (il cui nome è analogo all'italiano "marroni" o al francese "marrons"); le "yeuya" (da mettere in relazione con il patronimo "Yeullaz"); le "bounente" (letteralmente "buon innesto"); le "rouffinette"; le "rosse dou ban"; le "ehpinnérére" (letteralmente "spine rade") - e di Arnad - le "goyette"; le "néande"; le "boèinte". A questo elenco, possiamo aggiungere quello stilato da Saverio Favre, che ha indagato anche la toponomastica, spesso vera e propria fonte per l'archeologia linguistica. Tra i toponimi citati, che si riferiscono a varietà di castagne o a modalità di consumo, troviamo "Ohtèn", "Grossì", "Grignolén", "Ferla", "Risàn", "Risan-èi" (con suffisso collettivo), "Denohtse", "Piombés"». Una straordinaria ricchezza, che dimostra come dietro alla sola "castagna" si nasconda un mondo, che era capace di definizioni plurime, certamente più puntuali. Proseguiamo la lettura: «Rispetto alle modalità di consumo, infine, il discorso sarebbe altrettanto vasto. Anche in questo caso, traiamo qualche esempio dall'articolo di Ilda Dalle, riferito a Donnas. Le castagne possono essere "mendaye", se arrostite; "friole", bollite con la buccia; "pélaye", prima sbucciate e poi bollite; "broffie", cucinate in minestra dopo essere state arrostite; "bayane", castagne secche bollite. A proposito di quest'ultima parola, essa deriva dal latino "bajanus", che in origine era la denominazione di una particolare varietà di fava. Il termine con il passare del tempo è andato a indicare, poi, una zuppa preparata con il legume secco e, infine, per estensione, una zuppa preparata con legumi o, in questo caso, castagne secche. Lo stesso etimo è alla base anche del francoprovenzale "badjàn", dell'italiano "baggiano" e del provenzale "bajan", tutti epiteti spregiativi, sinonimi di "sciocco". Nel corso dei secoli, in effetti, i nomi di vegetali e, soprattutto, legumi sono sempre stati una ricchissima fonte di significati figurati. La metafora del baggiano trova un testimone d'eccellenza in Manzoni: nei "Promessi Sposi" ci racconta che si trattava del soprannome dato dai Bergamaschi ai Milanesi. Lo stesso uso campanilistico è attestato anche in alcune località della Valle d'Aosta». Insomma: un mondo con molte sfaccettature attorno alla castagna ed al suo albero!