Non ricordo di essermi mai vestito da donna ad una festa in maschera. Anche se a dire il vero una sera in compagnia abbiamo scherzato con una App che trasforma il viso di noi uomini con fattezze femminili il giusto taglio di capelli e un filo di trucco. Non mi trovavo un granché... La gonna, però, l'ho indossata, quando ho vestito in un Carnevale storico di Verrès Pierre d'Introd, marito della più celebre Catherine de Challand, la prima donna a sfidare sulle Alpi la legge salica e pretendere di essere erede del feudo della famiglia. Il mio conte, con l'aiuto dello storico Joseph Rivolin per non sbagliare epoca, indossava una blusa gonnellino azzurra con impunture dorate con calzamaglia bianca e naturalmente la spada e il mantello. In fondo era un vestito comodo e sono stato a mio agio.
Tuttavia confesso che - immagino di essere un retrogrado - in gonna nella vita quotidiana non ci girerei e quando vedo nelle sfilate uomini in gonna e sempre più femminilizzati rispetto la scelta degli stilisti e di chi indosserà certi capi, ma non capisco, per mia incultura, certa logica provocatoria. Leggevo la spiegazione di Elena Banfi su "Donna Moderna", giornale che si occupa anche di moda con competenza: «Sarà la voglia di fluidità della Gen Z. Sarà la determinazione a vestirsi senza badare al giudizio altrui. Sta di fatto che il capo femminile per antonomasia si prepara a (ri)conquistare il guardaroba maschile. Pronti ad abbattere l'ultimo fashion tabù? Dobbiamo tornare alla Rivoluzione Francese: fu allora che gli uomini abbandonarono merletti, colori sgargianti, redingote su calzamaglie, tacchi e parrucche. L'epoca della "Grande Rinuncia Maschile", come fu chiamata nel 1930 da John Flügel nel suo saggio "Psicologia dell'abbigliamento", provocò un terremoto nel guardaroba: i nuovi valori sociali legati al potere economico, politico e sociale imposero la sobrietà e il rigore di un'uniforme - giacca e pantaloni - che portò l'abbigliamento maschile occidentale a distinguersi da quello femminile. Ma allora perché si parla tanto di gonne da uomo, ultimamente? Una novità? Non proprio». Segue la spiegazione: «L'invenzione della gonna come capo d'abbigliamento per uomini e donne risale alle civiltà mesopotamiche del 5.000 a.C., che si legavano alla vita pelli di animali per proteggersi. Ma anche gli Egizi annodavano teli di lino sotto l'ombelico, e Greci e Romani indossavano il peplo. In molti Paesi africani gli uomini continuano a indossare tuniche e kaftani, in India si porta il dhoti, nel Sud Est Asiatico il sarong, in Giappone il kimono. In Scozia il kilt resta indispensabile a cerimonie ed eventi ufficiali e non diremmo mai che, nella loro amata gonna a quadretti, il leggendario Sean Connery o l'attore Ewan McGregor abbiano mai perso in virilità. Eppure, nel resto dell'Occidente, la gonna resta femmina. Perché? "Perché l'idea contrasta con le convenzioni, sfida i canoni del comportamento" ci spiega Eugenio Gallavotti, docente di giornalismo e comunicazione della moda nelle Università "Iulm" e Statale di Milano. "Un uomo con la gonna è percepito come femminile. Ma è corretto dire che l'abito ha un sesso? L'uomo con i pantaloni e la donna con la gonna sono stereotipi quindi, se era politicamente scorretto ghettizzare le donne in pantaloni, prima o poi sarà inopportuno emarginare un ragazzo con la gonna". E pare che il momento sia arrivato, perché la moda capta tutto, anche i desideri più inconfessabili». Poi la storia: «In principio fu Jean Paul Gaultier. Nel 1985, nella sua sfilata "E Dio creò l'uomo", l'enfant terrible della moda francese propose pantaloni a gamba larghissima con una falda ripiegabile davanti: era a tutti gli effetti una gonna da uomo. Poi ne seguirono altre per mano di stilisti controcorrente come Rick Owens, Marc Jacobs, "Comme des Garçons", Yohji Yamamoto, Dries Van Noten. Nel 2002, in qualità di sponsor della mostra "Men in skirts" al "V&A Museum" di Londra, che analizzava la migrazione della gonna dall'abbigliamento maschile a quello femminile, Gaultier invitava a non tirare in ballo l'omosessualità, ma piuttosto a rileggersi la storia, andare per mostre o guardare David Beckham. Già, perché che le gonne non potessero minare virilità e potere fu chiaro quando il giovane bomber londinese fu paparazzato in sarong, stampandosi nella memoria anche di chi di calcio non capiva niente. Nonostante l'assist di Beckham, la gonna ha tentato a lungo di imporsi negli armadi maschili, ma la disconnessione tra passerelle-tappeti rossi e abbigliamento quotidiano è rimasta incolmabile. Fino a oggi. Perché la spallata sta arrivando da fronti differenti: celeb e campioni, giovani della Gen Z e uomini qualunque. Il nuovo oggetto del desiderio di tutti». Segue una spiegazione di come questa tendenza potrebbe affermarsi. Per carità: nessun tabù e nessuna barricata, ma io lo gonna - mi ripeto - non la metterò mai, anche se non ho le gambe storte... Mi si consenta di segnalare che questa storia della fluidità si sta diffondendo con elementi di profonda ambiguità e parte ovviamente da un anglicismo, quel "sexual fluidity", o fluidità sessuale, espressione coniata da Lisa Diamond, psicologa e docente presso l'Università dello Utah (USA). In un suo libro del 2008 la psicologa riportò i risultati di uno studio durato più di dieci anni, volto ad analizzare la fluidità della sessualità femminile con un approccio - chiamiamolo con il suo nome - alla bisessualità. Temi delicati non solo per la moda e per il costume e lo dico senza nessun moralismo o violazione delle libertà personali in materie come queste in cui ognuno deve poter fare come vuole. Resta l'inquietudine verso tam tam che rischino di far passare l'eterosessualità come un modello da considerarsi ormai démodé è frutto di grigie abitudini.