In Valle d'Aosta la Sinistra estrema - quella che ha cercato in Regione di essere assieme di lotta e di governo senza ovviamente riuscirci - ha cambiato strategia sulla forma di Governo. Un tempo parlamentarista e persino legata all'idea svizzera del direttorio, che prevede alla Presidenza rapide rotazioni per evitare personalismi, oggi ha svoltato verso il presidenzialismo con l'elezione diretta del presidente della Regione. Con compattezza militante questo è diventato, in barba ai precedenti, il nuovo slogan, una volta appannaggio della Destra. Ma anche i professionisti dell'antifascismo hanno diritto a cambiare idea e non hanno comunque problemi ad atteggiarsi a partigiani del nuovo millennio, ora che quelli che la Resistenza l'hanno fatta davvero sono morti e dunque ci si può dimenticare del pluralismo di idee che confluì nella lotta di Liberazione e trasformare certi valori in una cerchia che si atteggia ad unica erede legittima, indebolendo di fatto quella logica corale. Se fosse ancora vivo il mio Senatore César Dujany, partigiano di area cattolica, farebbe fuoco e fiamme contro certe storture e lo stesso farebbe mio zio Ulrico Masini, capo partigiano di "Giustizia e Libertà", o l'altro zio Mario Caveri, partigiano a sedici anni.
Sul presidenzialismo con tempestiva e utile ricostruzione si abbatte l'intelligenza del costituzionalista Michele Ainis su "Repubblica". Così dice: «Girano umori volubili e sbilenchi. E il Quirinale ne è il termometro, lo specchio riflettente. Sicché in maggioranza gli italiani vorrebbero confermare il vecchio presidente; ma al contempo la maggioranza auspica una nuova presidenza. Più forte, più potente, e soprattutto espressa dal voto popolare. Voglia di presidenzialismo, saltando dal regime parlamentare a quello presidenziale: piace al 74 per cento degli italiani, secondo il sondaggio La Polis-Demos realizzato per questo giornale. Eppure Mario Draghi viaggia con i massimi consensi, benché non sia stato eletto da nessuno. Né ha ricevuto un'elezione diretta Sergio Mattarella, pur essendo il più amato fra i politici nostrani. Come si spiega, allora, la contraddizione? E che lezione ne possiamo trarre?». Un incipit potente, che ridicolizza il nuovo trend, di cui poi fulmineamente osserva le ragioni: «In primo luogo, gioca probabilmente un senso di stanchezza, se non di frustrazione. Sta di fatto che ormai da settimane corre la giostra dei nomi in gara per il Colle, delle manovre sotterranee dei partiti, degli scenari che s'aprono sulle sorti del governo. Ma è uno spettacolo cui i cittadini assistono guardando dal buco della serratura, senza il potere d'orientarlo. E senza candidature ufficiali, anzi con la regola non scritta secondo cui il candidato perfetto deve negare la sua candidatura, per evitare di bruciarsi. Di conseguenza gli italiani conoscono il prescelto soltanto a cose fatte, come una sorpresa nell'uovo di Pasqua. Non c'è un dibattito preventivo sui nomi e sui programmi, sull'idea di Costituzione che ciascun candidato ha in mente. E non c'è a causa d'una prassi che per l'appunto nega ogni candidatura pubblica, ufficiale. Fu inaugurata l'11 maggio 1948, durante l'elezione di Luigi Einaudi, nonostante l'opposizione di Togliatti. Sarebbe ora d'interromperla. In secondo luogo, il presidenzialismo è un fiume carsico, che percorre tutta la storia repubblicana. Adesso è riemerso, ma non è la prima volta. Nel 1947 si schierò per il modello americano Piero Calamandrei, costituente fra i più illustri. Furono presidenzialisti Salvemini a sinistra, Pacciardi e Maranini a destra. Finché nel 1987, al congresso di Rimini, si dichiarò presidenzialista un partito di governo: quello socialista, guidato da Bettino Craxi. Dopo d'allora quintali di carte e commissioni, che raggiunsero l'apice un mercoledì di giugno del 1997, quando la Bicamerale presieduta da D'Alema mandò al ballottaggio l'elezione diretta del Presidente della Repubblica o quella del presidente del Consiglio. Vinse la prima, e tutti furono felici, tanto un sistema vale l'altro. Ma il presidenzialismo all'italiana ha collezionato innumerevoli varianti, come il virus del covid-19: per esempio lo pseudo-presidenzialismo della riforma costituzionale approvata dalle Camere nel 2005, ai tempi del terzo governo Berlusconi, e respinta poi dagli elettori, con il referendum dell'anno successivo. O l'elezione diretta del capo dello Stato, proposta da Fratelli d'Italia all'avvio della legislatura in corso, e accompagnata (nel 2019) da una raccolta di firme nelle piazze. Una riforma superpresidenziale, giacché in questo caso il Presidente della Repubblica presiede anche il Consiglio dei ministri: due presidenti in un corpo solo. E tuttavia non è una coincidenza se adesso FdI viaggia in testa nei sondaggi d'opinione. Evidentemente quel partito ha orecchie più sensibili, sa ascoltare gli umori del Paese. Che in questa stagione d'emergenza reclamano un capo, un condottiero cui affidarsi. Comprensibile, anche se allarmante: "la democrazia è assenza di capi", diceva Kelsen, e prima di lui Platone. Ma dopotutto non è il caso di chiamare i partigiani. Vero, noi italiani spesso ci votiamo a un salvatore della Patria; però soltanto per il gusto d'impiccarlo a testa in giù. Accadde a Mussolini, e dopo di lui - metaforicamente - a molti leader politici di cui per un momento ci infatuammo: Craxi, Monti, Renzi, lo stesso Presidente Napolitano. E' il nostro vaccino nazionale contro il virus della capocrazia. Gli italiani sono per la tirannide, ma temperata dal tirannicidio». Ci ragionino i presidenzialisti valdostani di lotta e di governo, che hanno scassato la stabilità politica per mantenere la tensione che serve a tenere caldi i militanti da piazza e firmatari di petizioni varie e soprattutto ai loro guru che sanno tenersi la leadership gruppettara con ma vecchia storia dei nemici da abbattere.