Guardavo l'altro giorno in televisione un film di guerra, "La battaglia dimenticata", assieme al piccolo Alexis. La storia racconta con crudo realismo e vicende umane toccanti la "Battaglia della Schelda" e cioè la serie di operazioni militari condotte principalmente dai canadesi che miravano nell'autunno del 1944 a conquistare, dopo lo sbarco in Normandia, lo strategico porto di Anversa. Quando i registi, in questo caso Matthijs van Heijningen Jr., riescono a sfrondare la guerra da artifici retorici e prosopopea nazionalista, venendo al sodo dell'orrore e delle sofferenze, possono essere una lezione per i giovanissimi, specie se - come cerco di fare - li si accompagna con spiegazioni che contestualizzino gli eventi.
Così ho ragionato con lui undicenne sulla guerra in Ucraina, che non è una rievocazione storica, ma una triste realtà che rende vicine e fattuali quelle scene di morte e di dolore. E' difficile - e lo era nei racconti dei miei genitori e parenti - calarsi in certe realtà, ma è giusto far capire che le vicende belliche non sono il passato e anzi sono purtroppo ben presenti in questo stesso momento e non solo in Ucraina. E la minaccia nucleare - proposta con le giuste spiegazioni - non è una maledizione ormai superata. Certe occasioni servono anche per dare, nel limite del possibile, qualche lettura "politica" e cioè il paradosso di un'aggressione russa, capitanata da ragionamenti per lo più irrazionali di un dittatore come Vladimir Putin, che si contrappone - così cercavo di dire al mio figlio più piccolo - a quell'Europa in cui dobbiamo credere convintamente. Ho ritrovato Goffredo Buccini sul "Corriere" con ragionamenti utili e convincenti che mostrano il paradosso di chi, come la Russia, ha deciso di attaccare per rendere più debole l'Unione europea e la "Nato", ottenendo l'esatto contrario. Così Buccini: «La storia ci propone un beffardo e drammatico rovesciamento di senso nella parola "finlandizzazione": evocata perfino da Macron, come sbocco possibile della crisi ucraina, qualche settimana prima dell'aggressione di Putin contro Kiev. Fino al fatidico 24 febbraio, questo neologismo, comparso dal 1988 nel dizionario "Zanichelli", riassumeva una scelta politica di lunga data della Finlandia, indicando la "neutralità condizionata di un Paese nella quale è sottintesa la possibilità di una soggezione nei confronti di una grande potenza, in particolare dell'Unione Sovietica". In parole semplici, coi suoi 1.340 chilometri di confine in comune con l'Orso Russo, la piccola repubblica nordeuropea aveva deciso in piena Guerra fredda di rifiutare il "Piano Marshall" e non aderire alla "Nato" in cambio di uno status di indipendenza neutrale, assai conforme ai desideri del più potente vicino. La diplomazia mondiale azzardava dunque che un analogo percorso avrebbe risparmiato all'Ucraina il bagno di sangue in cui poi l'ha scaraventata Putin. Il dittatore russo è però riuscito in uno straordinario autogol strategico: anziché finlandizzare l'Ucraina ha... ucrainizzato la Finlandia». In parallelo l'Europa in crisi d'identità si è ritrovata più unita, malgrado certi sbandamenti di Paesi come l'Ungheria, e su spinta russa si ragiona su formule di maggior integrazione per chi ci starà. Intanto, ricorda Buccini: «Subito dopo l'invasione, infatti, i finlandesi, assieme agli svedesi, hanno chiesto di mettersi sotto l'ombrello della "Nato". E l'altro giorno hanno fatto di più, proclamandosi "pronti a resistere" come "un boccone duro da masticare per la Russia". "Siamo motivati e abbiamo un notevole arsenale". Non si tratta di parole al vento. La Finlandia ha un esercito di 290mila uomini (per capirci, centomila in più di quelli usati da Putin nella prima ondata contro l'Ucraina, quasi il triplo del nostro con un decimo della nostra popolazione). Addestrati sin dall'infanzia a diffidare dei loro aggressivi vicini, il 76 per cento dei finlandesi s'è pronunciato per diventare il "fianco est della Nato" (parole della premier Sanna Marin). Putin, temendo la "Nato", ha finito per rafforzarla e avvicinarla ai suoi confini. Un bel saggio di "Foreign Affairs" spiega questo mese perché le nazioni pessimiste sono pericolose: se il pessimismo è un virus che si autoavvera, il dittatore di Mosca è il paziente zero del Ventunesimo secolo». Un efficace parallelo fra pandemia e il folle espansionismo russo.