Pace. Se ne parla molto di questi tempi con la guerra non distante da noi e capita, facendo gli scongiuri, di parlare con gli amici con cui si ha più confidenza, chiedendoci reciprocamente e un po’ di sottecchi dove diavolo ci porterà la follia aggressiva della Russia. Con quel detto e non detto del terrore nucleare che potrebbe cambiare le nostre vite in pochi minuti. Questa parolina, Pace, ha origini note e etimoitaliano così la racconta: “L'etimologia della parola pace si ricollega alla radice sanscrita pak- o pag- = fissare, patuire, legare, unire, saldare (da cui derivano anche altre parole di uso comune come patto o pagare) che ritroviamo nel latino pax = pace. Per cui, la pace è quella preziosa condizione di armonia, quel sentimento di concordia, di unione che dovrebbe legare individui e popoli, come appartenenti alla stessa famiglia umana. Tale auspicabilissima quanto utopica condizione presuppone però che ogni individuo, prima ancora di essere in pace con gli altri, sia in pace con sé stesso...”. Il finale apre un mondo di riflessioni, come il dizionario del rimpianto linguista Tullio De Mauro, che ne coordinò i lavori. Dopo le definizioni classiche, tipo “condizione di un popolo o di uno stato che non sia in guerra con altri o non abbia conflitti, lotte armate in corso al suo interno” oppure “ristabilimento di tale condizione dopo un periodo di guerra” spunta quella che più mi piace. Eccola: “nei giochi infantili che prevedono una lotta, un combattimento, formula per chiedere la cessazione momentanea del gioco”. Sappiamo che non è solo così. Proprio nell’infanzia capitava di bisticciare con un amico e dopo molta tribolazione arrivava quel fatidico e intenso: “facciamo pace?”. In questa frasetta si concentra molto della percezione più semplice di quello che potremmo chiamare un sentimento. Così come quello spontaneo moto che ti porta di fronte ad un panorama montano a dire, quando ci si sente in uno stato di calma contemplativa, “Che pace!”. Esiste poi nel cristianesimo quel suo uso plurimo e antico, che va dal “riposi in pace” al “scambiatevi un segno di pace”, dal “in alto i nostri cuori” nella prima parte della preghiera eucaristica sino al finale beneaugurante della Messa “andate in pace”. In questi giorni si parla molto del pacifismo e del suo uso assai diverso secondo le circostanze rispetto alla tragedia ucraina e all’aggressione russa. Si tratta dell’ennesima occasione per distinguere buona e cattiva fede fra chi manifesta con sincera partecipazione e speranza e chi - con incredibile logica filorussa spesso condita dal solito antiamericanismo - adopera la pace in modo strumentale e paradossalmente violento verso chi è stato aggredito e si difende. Scriveva sul pacifismo George Orwell nel 1945: “Esiste una minoranza di intellettuali pacifisti le cui vere, ma inconfessate motivazioni, sono l'odio per la democrazia occidentale e l'ammirazione per il totalitarismo”. Parole dure che denunciavano una triste realtà, come si vede da certe comparsate di personaggio invitati in televisione che paiono pupazzi con Putin come ventriloquo, per non dire dei cortei che evitano di manifestare davanti all’Ambasciata russa per non disturbare il manovratore.