Le edicole mi sono sempre piaciute. Quando ero pendolare ferroviario da studente, alla stazione del mio paese - Verrès, nella bassa Valle d’Aosta - c’era una bella edicola che stuzzicava la mia curiosità sin da ragazzo. Idem ad Aosta e poi ad Ivrea, destinazioni susseguitesi nel mio pendolarismo, dove trovavo pane per i miei denti, quando era tutta carta e giornali e riviste erano numerosi. Anche nei primi passi da giornalista e poi da politico tutto era ancora cartaceo e faceva piacere, in parallelo con librerie e libri che sono sorelle maggiori, abbeverarsi nelle notizie e negli approfondimenti per far funzionare il cervello. Interessante quel che osservava Hermann Hesse: “Non dobbiamo leggere per dimenticare noi stessi e la nostra vita quotidiana, ma al contrario, per impossessarci nuovamente, con mano ferma, con maggiore consapevolezza e maturità, della nostra vita”. Scrivo anzitutto delle edicole, perché nei giorni scorsi - già chiusa da anni l’edicola dentro la stazione ferroviaria di Aosta - è stata letteralmente rimosso quello chalet che di fronte alla stessa stazione fungeva da tantissimo tempo da edicola. Una manifestazione fisica della fine di un’epoca. Poche settimane fa leggevo su Agi: “L'emorragia delle edicole rallenta, -3,5% lo scorso anno contro il meno 6,3% dell'anno precedente, grazie a misure di sostegno venute dal governo, ma il settore sconta ancora un gap forte, tanto che nel 25% dei Comuni italiani neppure una è in attività, aperta al pubblico. Un grave danno sociale che mette in discussione il ruolo di canale di informazione che esse svolgono in una comunità”. E ancora: “Emorragia effettivamente rallentata, se si pensa al -13,3% del 2018-2019, con la chiusura di ben 2.027 punti vendita, rallentata grazie anche alle misure di sostegno al settore. Quasi la metà delle edicole svolge ulteriori attività rispetto alla classica vendita di quotidiani e periodici che resta comunque prevalente”. Il rallentamento è dovuto al fatto che le chiusure sono già state tantissime e basta che ognuno pensi alla geografia delle “sue” edicole. Vero è che si ampliano i prodotti in vendita, ma una cartina di tornasole resta la crisi dei quotidiani. Scriveva giorni fa Vanni Petrelli su il sito il millimetro: “Il boom di internet e dei social, la fuga degli inserzionisti, i giochi politici e di potere e la mancanza di innovazione. Un mix devastante per i quotidiani italiani, alle prese con un crollo verticale delle vendite che va avanti oramai da anni, mai bilanciato dalle edizioni digitali. Negli anni ’80, ad esempio, Repubblica era il primo quotidiano, con una tiratura di oltre mezzo milione di copie, seguito dal Corriere della Sera (circa 450mila). Oggi il quotidiano fondato da Scalfari nel 1976 sta affrontando la crisi più grave dalla sua nascita, visto che le copie vendute si attestano intorno alle 120mila. Il Corriere della Sera invece, viaggia di poco sopra le 230mila, con una forbice tra i due quotidiani che però si allarga sempre di più. Nel panorama nazionale sono davvero in pochi a fare eccezione al calo delle vendite: nelle impietose rilevazioni mensili si affaccia ogni tanto un timido segno più accanto ad Avvenire, Fatto Quotidiano, Libero, Italia Oggi, per citarne alcune. Ma nulla in grado di recuperare la valanga di giornali “scomparsi””. E le librerie? Esiste anche in questo caso una logica causa-effetto. La crisi del mercato del libro in Italia comporta da tempo pesanti ripercussioni anche in termini di occupazione. Molte librerie sono state chiuse nei paesi e anche nelle città, lasciando un vuoto culturale evidente. Una sorta di tenaglia edicole/librerie che è segno di profondi cambiamenti. Bisogna in parte prenderne atto - pensiamo come parallelo alla morte irreversibile delle cabine telefoniche- ma questo non impedisce per fortuna e per impegno di studiare operazioni intelligenti di salvataggio e di cambiamento.