Non ho fatto il militare. Ricordo quei giorni della visita di leva da coscritto a Torino in quel gigantesco distretto militare, dove sfilavamo in mutande per la fatidica visita medica. Mi ero appena spaccato un ginocchio malamente sugli sci e così vagai per giorni nell’Ospedale militare per le visite e fu risolutiva l’atrografia (antesignana dei metodi diagnostici moderni), che diede lo stato oggettivo del mio infortunio. Mi vedo come ora seduto nella sala d’aspetto del Direttore. Chiamato bruscamente entrai. Lui neanche mi guardò e bofonchiò: ”Abile, arruolato!”. Scoprii più tardi che era una burla che spesso faceva, perché in realtà ero stato fatto rivedibile. Qualche tempo dopo, ricevetti il congedo per eccesso di leva o qualcosa del genere. Vale a dire che c’erano più candidati che posti e dunque niente militare. Per cui i miei rapporti con le Forze Armate, a differenza dei miei coetanei, sono sempre stati solo professionali, da giornalista e da politico. Da giornalista realizzai molti reportage in una Valle d’Aosta con una presenza enorme di alpini che si aggiravano per Aosta in libera uscita e con molte occasioni ufficiali, come i giuramenti con piazze d’armi colme di ragazzi e genitori. Da politico partecipai a tante manifestazioni e mi occupai anche di giovani valdostani che finivano chissà dove a far la leva e che volevano rientrare per essere alpini, come da vocazione naturale e familiare. Vissi anche quegli anni alla Camera, difendendo nelle audizioni in Commissione, spiegando il ruolo delle Truppe alpine in epoche in cui gli Alti Comandi antipatizzavano con le Penne nere. Le missioni all’estero, in scenari montani tipo Afganistan, mostrarono la bontà di soldati apprezzati anche dalla NATO. Molto è cambiato in questi anni e non a caso seguii la cessione alla Regione della Caserma Testa Fochi, dove si sta ultimando la sede dell’Università e questo è stato il segno tangibile della fine della leva obbligatoria. La trasformazione della storica Scuola Militare Alpina in Centro di addestramento fu un vulnus, come l’ineluttabile riduzione della presenza degli alpini in servizio solo in parte compensata da chi viene in Valle per la formazione alla montagna. La base elicotteristica di Pollein, modernizzata con fondi regionali, mi dicono sia adoperata poco. L’asse decisionale dei comandi alpini ormai è radicato nel Nord-Est. Eppure gli alpini - con la rete fitta dell’Associazione Nazionale Alpini - non demordono nei nostri territori nel solco di una tradizione gioiosa (si è alpini per sempre, come mostrano le adunate nazionali e lo spirito di corpo) e luttuosa (la strage di alpini nelle guerre mondiali va tenuta sempre in memoria con le responsabilità di chi spesso li mandò a morire). Guardavo domenica sfilare in Piazza Chanoux gli alpini nostri con quelli piemontesi e liguri e quella logica corale coinvolgente fra bande, cori, bandiere e labari. Mi ha colpito un’intervista del Presidente valdostano, Carlo Bionaz, in cui ricorda il segno due cose. I “veci” presenti sono il segno di generazioni che hanno vissuto il periodo da militare come momento di formazione, pur non essendo sempre rosa e fiori (il nonnismo esisteva) e costando un annetto della propria vita. La seconda osservazione è che gli alpini, ormai inquadrati in un esercito professionale, fanno sì che i più giovani a sfilare di leva siano 45enni e saranno gli ultimi a estinguersi in quella visione di esercito popolare. La tradizione come l’attuale, fatta di enormi raduni e di grande ramificazione nel Nord con una protezione civile sempre pronta, sparirà. Una triste constatazione, certo figlia dei tempi, che domenica mi dava - nel vedere sfilare tanti miei coetanei - una vena di tenerezza.