“Pensionato” è una parola triste, anche se è allegro pensare che ci si è arrivati vivi. So bene di come questo status sia agognato, specie con le giravolte delle regole, che come la risacca nei pressi della riva spesso allontanano al largo chi l’aspettava da tempo. Il famoso concetto di “diritti acquisiti” in Italia diventa ondivago e spezza certezze e attese. Io sono pensionato da qualche tempo e quando ci sono arrivato - lasciata “mamma Rai”, da cui per altro ero stato a lungo in aspettativa - mi ha fatto impressione, trattandosi di segno indelebile del tempo che passa. La nozione di pensionato, per fortuna, sta cambiando nel tempo. Traggo dalla Treccani una delle più proverbiali prese in giro: “Come viene definito l’anziano che osserva gli operai al lavoro nei cantieri, con l’aria di quello che la sa lunga? Oggi la maggior parte della gente ha la risposta pronta: umarèll (con due L finali), come se si chiamasse così da sempre. In realtà la parola ha visto la luce appena 17 anni fa. Ed è emblematica della capacità del Web di moltiplicare esponenzialmente l’uso di certe espressioni nel nostro lessico. Infatti quel termine è stato inventato di sana pianta nel 2005 per essere usato in un blog, poi è diventato il titolo e il tema di un primo libro (seguito da altri). La nascita è dovuta alla mutazione premeditata di una parola dialettale bolognese, usata originariamente in modo dispregiativo: umarèl (con una sola L), indicante un ometto dall’aria dimessa e anonima che vaga per la città; espressione a sua volta nata nel Novecento, considerando che è assente nei vari dedicati al dialetto bolognese, dove semmai compaiono, con lo stesso significato diminutivo, termini come umêtt, umarêtt, umein, umarein e uminein. Comunque umarèll si è poi trasformato – cambiando in buona parte la connotazione linguistica e semantica – in un “bolognesismo” usato quasi ovunque, a livello nazionale e talvolta anche all’estero”. Vorrei dire che la fotografia umoristica del pensionato di fronte al cantiere è davvero una caricatura, almeno per noi baby boomers (1945-1964), la cui coda dei più “giovani” si avvia ormai alla pensione. Appartengo - ahimè- a questo gruppone, assai cospicuo in termini demografici - e sono difensore di noi “pantere grigie”. Anche se mi piace di più il mondo in cui le persone con i capelli bianchi (per chi li ha…) venivano chiamate nel Bourg di Aosta, vale a dire affettuosamente “grisonniers” (con i capelli grigi…). Credo, infatti, che - qualunque lavoro si sia fatto - questa nostra generazione abbia avuto un’etica del lavoro molto forte e, nel limite del possibile, non si fermi affatto e in vario modo si tenga ben in piedi in attività varie, sin che la salute tiene. Ci tengo a dirlo, guardandomi attorno, perché troppo spesso c’è chi considera i pensionati un peso e la loro esperienza un vuoto a perdere. Combatto con convinzione una battaglia contro certi luoghi comuni e non defletto. Certi equilibri restano sempre delicati e li descrive bene Umberto Galimberti e bisogna comunque annotarne i contenuti: ”Questa mentalità che, connettendo la vecchiaia all'improduttività, all'emarginazione sociale e all'insignificanza, rende in Occidente la vecchiaia terribile, non solo per il singolo individuo, ma anche per la società che, non meno del singolo individuo, si dà da fare per ridurre le cause dell'invecchiamento o ritardarne perlomeno l'arrivo. I costi sociali, dalle pensioni all'assistenza, sovvertono il ritmo produttivo delle società avanzate che, impreparate, si trovano di fronte a una lotta di classe imprevista. Non più tra poveri e ricchi, ma tra vecchi che non vogliono lasciare e giovani che non sanno come cominciare”.