Ho giochicchiato a tennis da ragazzo ed erano sfide stremanti con cugini e amici. Ero anche un discreto tifoso e andai a Praga nel 1980 per una sfortunata finale di Coppa Davis per la squadra azzurra. Poi ho ripreso qualche tempo fa, ma ho smesso perché mi dava qualche fastidio alla schiena. Da bambino, quando lo sport era in grande auge, ricordo le estati ai tennis a San Lazzaro di Imperia. Era il classico circolo, dove si passava il tempo in una logica da ozio vacanziero. Il tennis aveva in sostanza una logica sociale, un pelino snob. Ho poi seguito questo sport con l’ultimo dei miei figli con pomeriggi passati in tornei di bimbetti con divertente visione più dei genitori che dei piccoli. La categoria più nociva è quella di chi spingeva i figli come se si trattasse della finale di Wimbledon. Quel che mi piaceva del tennis d’antan era una qual certa eleganza e il bon ton fra avversari, almeno in teoria. Tutto peggiora… Di sicuro nelle prossime settimane le scuole di tennis vedranno una crescita enorme di nuovi praticanti alla luce dei successi e del crescendo del giovane sudtirolese Jannik Sinner. Un campione che darà grandi soddisfazioni allo sport italiano, ma con un neo. Non mi riferisco naturalmente al suo italiano zoppicante, perché Sinner appartiene alla minoranza linguistica del SüdTirol e dunque non ci si deve affatto stupire e chi lo fa è irrispettoso e tenere conto della sua madre lingua. Il punto invece - e non è la prima volta che se ne occupa - è quello ripreso da Aldo Cazzullo sulla posta del Corriere, quando immagina un discorso di Sinner dopo una vittoria non avvenuto a Torino contro Novak Djokovic. Così avrebbe immaginato l’intervento al microfono: “Vi ringrazio per il vostro sostegno. L’ho avvertito con chiarezza, sia qui dentro il palazzetto, sia nel Paese. Mi sono sentito parte di una comunità nazionale, di qualcosa che va oltre me stesso. Dovete capirmi: vengo da una terra di frontiera, dove l’italianità non è sempre e dappertutto molto sentita. Tre anni fa avevo portato la residenza fiscale a Montecarlo. Non ho fatto nulla di illegale: la legge lo consente. Non sono certo il primo. Avrete letto qualche giorno fa sul Corriere l’intervista di Daniele Dallera a Max Biaggi, che rivendicava con orgoglio la mia stessa decisione, presa molti anni prima e mai rinnegata. Io di anni ne ho ventidue. Sono un atleta leale, come avete visto: potevo farmi battere da Rune per non incontrare più Djokovic, e non l’ho fatto. Ma sono appunto un atleta; non mi occupo di fisco. Sono concentrato sul tennis, com’è giusto che sia. La scelta di Montecarlo è stata presa da altri: sono solo un ingranaggio di una macchina complessa, di cui approfittano non soltanto gli sportivi, ma anche persone molto più ricche di noi, che pure non ce la passiamo male. Da domani però riporterò la residenza fiscale nel mio Paese, che tanto mi ama, e invito il mio amico Matteo Berrettini e tutti gli altri a fare altrettanto. So che dovrò versare allo Stato la metà di quello che incasso. Sarà un grosso sacrificio, anche se certo inferiore a chi guadagna 50 mila euro lordi all’anno, e dallo Stato italiano è considerato un ricco da tassare al 43%, più le addizionali. Però sarò felice al pensiero che le tasse da me versate possano servire a guarire bambini malati come quelli dell’ospedale Regina Margherita che ci hanno accompagnato in campo in questi giorni, o istruirne altri, o garantire la loro sicurezza grazie alle forze dell’ordine. Sento un brusio nel pubblico, forse pensate che stia facendo retorica? Andate in qualsiasi ospedale italiano, e capirete che la necessità di letti e macchinari, di medici e infermieri, non è retorica, è carne e sangue, è vita e morte. Io, ripeto, ho solo ventidue anni, di medici non ho bisogno, e comunque posso pagarmeli. Ma tanti altri no. E quando fai parte di una comunità, devi occuparti anche dei più piccoli, dei più fragili, dei più deboli; non solo con la beneficenza, che è un’altra cosa. Qualcuno mi ha detto: guarda che con le tue tasse pagheranno magari i vitalizi a qualche vecchio arnese della politica. Pazienza. Preferivo i bambini. Ma lo Stato non è altro da noi. Lo Stato siamo noi”. Stupisce che Sinner non capisca l’antifona anche come sudtirolese che pare dalle dichiarazioni essere molto affezionato e fiero della sua Heimat, come la chiamano a Bozen e significa “la patria, intesa come tutto ciò che costituisce lo spirito, le radici, l'identità di un popolo”. Lo dico perché la quasi totalità delle tasse pagate nella sua terra natale tornano nelle casse della Provincia autonoma a beneficio della comunità che lo ha cresciuto e lo ama e invece questi soldi finiscono nelle casse del Principato di Monaco…